Diagora era stato un grande atleta, più volte premiato a Olimpia. Ebbe un giorno la gioia di assistere anche alla vittoria dei suoi tre ragazzi negli agoni olimpici. Osannato dalla folla e abbracciato dai figli -che gli offrirono in dono le proprie corone-, ricevette da uno spartano questo saluto: «Muori ora, Diagora, perché certo non potrai salire all’Olimpo» (Plutarco, Vita di Pelopida).
Faust muore -secondo il patto che aveva sottoscritto- quando nel colmo della gioia dice all’attimo, al tempo, «Verweile doch, du bist so schön!» (Fermati, dunque, sei così bello!) (Faust, vv. 1700 e 11582). Goethe, autore di questo verso, sembra che sia morto invocando la luce: «Mehr Licht! Mehr Licht!» (Più luce, più luce!). Così muoiono i pagani. Uno dei loro poeti scrisse che morire in Sicilia, isola di tripudi e di sfacelo, «è acquietarsi nella luce».
Constantinos Kavafis
SETTANTACINQUE POESIE
A cura di Nelo Risi e Margherita Dalmàti
Giulio Einaudi Editore, Torino 1992
Pagine 219
Centocinquantaquattro poesie scrisse Kavafis, all’intersezione tra il mito, la storia, le passioni. Là dove «la memoria del corpo» (Ritorna, pag. 69) si coniuga al «monotono giorno da un monotono identico giorno seguìto» (Monotonia, 79). «Miseri balocchi della sorte» (I cavalli di Achille, 21), gli umani di Kavafis sono intessuti di sensualità, di desiderio, di racconto, di storia, di tempo. E cosa sarebbe tutto questo senza la parola che lo celebra?
di Alejandro Amenábar
Spagna, 2009
Con: Rachel Weisz (Ipazia), Max Minghella (Davus), Oscar Isaac (Oreste), Ashraf Barhom (Ammonius), Michael Lonsdale (Teone), Rupert Evans (Sinesio), Sami Samir (Cirillo)
Trailer del film
Le statue degli dèi abbattute, le biblioteche saccheggiate, la comunità ebraica costretta a lasciare la città, la scuola -dove Ipazia, filosofa ed astronoma, insegnava a giovani pagani, cristiani, ebrei, neri, bianchi- chiusa e distrutta. Il vescovo Cirillo (poi santo e dottore della Chiesa) impone all’antica città cosmopolita una sola fede -quella dei vincitori- e costringe Alessandria, il luogo in cui la ricchezza delle differenze aveva sino ad allora trionfato, a precipitare nella miseria dell’identità. Dal pulpito, Cirillo scaglia accuse contro le donne che insegnano. Spinge così i gruppi cristiani più fanatici -i Parabolani- a massacrare Ipazia in un modo orribile. È il 415, è il crepuscolo del paganesimo.
Un film nel quale scienza e filosofia diventano il corpo di Ipazia, gli sguardi dei suoi allievi, il movimento delle sfere sulla sabbia a simulare i sistemi celesti, lo spazio della biblioteca amata e distrutta. I colori chiari degli abiti pagani si contrappongono a quelli scuri dei cristiani, a esprimere anche cromaticamente la diversa tolleranza di un mondo che tutti accoglieva rispetto a una fede esclusiva e ai suoi atroci effetti. Amenábar inventa la figura chiave dello schiavo Davus, devoto a Ipazia ma attratto dalla nuova fede, alla quale aderisce rinnegando la filosofia ma che poi abbandona disgustato dalla violenza dei suoi correligionari. Mentre, infatti, Ipazia si appassiona alle forme circolari dei moti celesti sino a intuire (ma su questo non ci sono documenti certi) l’ellissi come probabile soluzione delle incongruenze dell’ipotesi eliocentrica di Aristarco, i cristiani si sbranano a vicenda e azzannano tutti gli altri.
Il film inizia e si conclude con le immagini del pianeta nel cosmo infinito, quel luogo mentale e fisico al quale la filosofa neoplatonica dedicò la vita sino al martirio.
I cristiani furono una setta aggressiva che minò l’Impero ma ne ereditò gli aspetti peggiori, come il gigantismo, la volontà di conquista, la tracotanza. Di tale dismisura è forma suprema l’idea che un Dio si sia fatto uomo e sia addirittura morto per la “salvezza” di questa specie insignificante posta su un pianeta qualsiasi dell’universo immenso. Con tali idee tanto balzane quanto arroganti ci siamo illusi di possedere uno status privilegiato rispetto a ogni altro essente. L’uomo, al contrario, non è altro che «una piccola specie animale ipertesa che -fortunatamente- ha fatto il suo tempo»; in generale, la vita sulla terra oltre che una malattia è una escrescenza dell’essere, un temporaneo incidente nelle cose, una insignificante eccezione priva di conseguenze: «la terra stessa è, come ogni astro, uno iato fra due nulla» (Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, 16[25]).
L’antichità pagana aveva invece ben presente l’insormontabilità del limite. E da tale consapevolezza nascono l’arte, la letteratura, la riflessione in Grecia e a Roma. Esemplare di questa differenza è la condanna che il cristianesimo pronuncia contro il suicidio mentre Plinio arriva persino a compiangere la divinità per il fatto che essa non può uccidersi. L’antropocentrismo cristiano -in qualunque forma venga declinato, che sia il lusso planetario urbi et orbi dei papisti romani o il perenne venerdì santo dei tristi riformati tedeschi- ha trasformato la casualità della specie in una necessità cosmica, ha preso così a cuore le vicende umane da costringere persino un Dio a morire per esse. Festeggiare la resurrezione del rabbi Jeshu-ha-Notzri è un atto di supremo e patetico narcisismo da parte dei mortali.
La catastrofe dell’Italia contemporanea non è soltanto culturale, etica, antropologica. È anche economica. La disoccupazione è arrivata all’8,3 per cento, anche se il pifferaio che ci porta verso il baratro riesce coi suoi strumenti -televisione, stampa- a nascondere pure tale dato statistico. Le conseguenze sulla psiche di una condizione senza lavoro sono devastanti e coinvolgono l’identità profonda di una persona, il suo presente, le attese, le memorie.
I monoteismi impongono una cura chirurgica delle passioni, il cui effetto è l’opposto dell’equilibrata soluzione greca che consiste nel dare di tanto in tanto uno sfogo festoso alle cattive inclinazioni. È questo l’elemento etico del paganesimo rimasto fin dal principio incomprensibile all’ordine morale ebraico, cristiano e islamico. I Greci riconoscevano l’inevitabilità del desiderio e della violenza insiti nella natura umana e invece di tentare ingenuamente di estirparli preferivano dar loro una legittimazione sociale e una ritualizzazione che favorisse l’espressione dell’estremo conservando nel contempo il controllo delle sue manifestazioni. Si tratta di una forma di libertà interiore e comportamentale la quale non si mutila della dimensione ebbra e dionisiaca che abita al fondo dei cuori umani non ancora spenti. Tenta piuttosto di consentirle uno sfogo moderato atto a salvaguardare sia l’elemento orgiastico che quello razionale.
di Celso
(Αληθής Λόγος)
A cura di Giuliana Lanata
Adelphi, Milano 1987
Pagine 253
Il testo di Celso (II sec. ev) -il cui titolo greco potrebbe essere tradotto anche come Il vero Logos– è giunto a noi perché Origene ne riporta numerosi brani allo scopo di confutare le accuse che lo scrittore rivolge al cristianesimo. Questa edizione curata da Giuliana Lanata è esemplare per correttezza filologica e cura della traduzione.
La molteplicità delle critiche di Celso può essere ricondotta ad alcune direttrici di fondo: difesa del paganesimo nei confronti della esclusiva pretesa salvifica che la nuova fede rivendica per sé; conferma della struttura deterministica e formale del mondo contro l’antropocentrismo e il materialismo cristiani; consapevolezza della incorporeità e serena imperturbabilità del divino platonico, i diversi nomi del quale e le differenti forme di culto scaturiscono tutti dalla stessa matrice. Il cristianesimo viene ricondotto alla misura di un culto che da un lato trae le sue cose migliori dalla grande tradizione sapienziale del mondo antico, dall’altro la adatta alla infima origine sociale e al fanatismo della maggior parte dei suoi adepti.
La fede nella resurrezione dei corpi appare al platonico Celso come una «pura e semplice speranza da vermi» (V, 14; pag. 108). Offrendo «sconsideratamente il loro corpo alle torture e alla crocifissione», i cristiani mostrano di «non amare la vita» (VIII, 54; p. 156), in ciò fedeli al loro maestro, privo di ogni lievità e autoironia: «e poi, quali azioni nobili e degne di un Dio ha compiuto Gesù? Ha disprezzato gli uomini, li ha derisi, ha scherzato su quel che gli accadeva?» (II, 33; p. 75). In tal modo, ciò che per i cristiani era ed è il privilegio di un Dio che si fa uomo, soffre e si immola, costituisce per Celso, e per il mondo di cui egli è espressione, la massima assurdità.
Altrettanto assurdo appare a Celso l’antropocentrismo che intesse l’intera tradizione prima giudaica e poi cristiana, nei confronti della quale il libro IV della sua opera pronuncia parole molto chiare. Ai cristiani i quali affermano che Dio avrebbe fatto l’intero universo per l’uomo, il filosofo risponde che «l’universo non è stato generato per l’uomo più che per gli animali privi di ragione» (IV, 74; p. 102). A conferma osserva che mentre gli umani devono inventarsi e costruirsi gli strumenti di caccia, altri animali ne sono dotati in misura superiore e innata. Aggiunge poi che «se gli uomini appaiono superiori agli esseri privi di ragione perché hanno costruito le cità e si sono dati una struttura politica e delle magistrature e dei governi, anche questo non significa nulla, perché altrettanto fanno le formiche e le api. […] Orbene, se uno guardasse verso la terra, quale gli apparirebbe la differenza fra quello che facciamo noi e quello che fanno le formiche o le api?» (IV, 81 e 85; pp. 103–104).
La conclusione è tanto logica quanto inevitabile: «Dunque l’universo non è stato fatto per l’uomo, e d’altronde nemmeno per il leone o per l’aquila o per il delfino, ma perché questo mondo, in quanto opera di Dio, risultasse compiuto e perfetto in tutte le sue parti» (IV, 99; p. 106).
A questo livello, nessuna conciliazione è possibile tra il cristianesimo e il mondo antico. Come Luciano, Spinoza e Nietzsche, Celso ha individuato la reale debolezza teoretica di questa fede, divenuta però la sua paradossale e ambigua forza pragmatica, consolatrice ed emotivamente coinvolgente: la bizzarria di una forma del divino davvero troppo umana. E tuttavia, radicato com’è nella scissione ebraica, nella coscienza infelice che separa terra e cielo, finito e infinito, il cristianesimo è una delle ragioni più profonde dell’angoscia di vivere che attanaglia gli europei non più “antichi”. Il testo di Celso lo dimostra.