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Gli dèi umani nella Valle dei Templi

Igor Mitoraj
Agrigento – Parco Archeologico della Valle dei Templi

Da millenni il Sole splende su quelle pietre. Splendeva quando i templi eretti dal popolo più giovane della storia dicevano agli dèi quanto grande possa diventare l’insignificanza umana. E splende ancora su ciò che rimane di quell’enigma sacro, ora che gli edifici sono vuoti e il silenzio degli dèi appare senza fine. Ma basta poco per restituire la parola alle potenze che abitano quei luoghi. Bastano i manufatti di un umano, Igor Mitoraj, le cui figure non imitano nulla e nulla neppure creano ma emergono da sé, si fanno forma, diventano frammenti di corpi, volti accecati, strutture e pensieri. Non c’è alcuna differenza né salto tra i templi agrigentini e le sculture contemporanee. Poiché il tempo degli dèi è il sempre. Così si spiega la strana e contraddittoria impressione di immobilità e dinamismo che le opere di Mitoraj sanno offrire. Sono sempre lì e appaiono sempre diverse. Come se si muovessero pullulando di favole la Valle. Anche le misure si dilatano e si contraggono. Non sono né “grandi” né “piccole” queste sculture perché sono tempo prima di essere spazio. E come ogni struttura temporale, esse si contraggono e si dilatano allo sguardo che nel tempo è immerso. Anche per questo non rappresentano gli dèi ma gli umani. E però dentro le grandi teste, dentro i toraci e i torsi emerge immobile lo sguardo di Medusa a dire che qualcosa di indicibile, di orrendo e di grande sta dentro l’umano. È guardandosi allo specchio che esso, l’umano, è diventato il bronzo di queste opere bellissime.

Ipazia

Teatro Libero – Milano
Il sogno di Ipazia
di Massimo Vincenzi
Con Francesca Bianco
Voce fuori campo di Stefano Molinari
Musiche di Francesco Verdinelli
Regia di Carlo Emilio Lerici
Sino al 31 ottobre 2011

Una donna sola sulla scena. In mezzo ai libri. I libri che vorrebbe salvare dalla furia di coloro che parlano in nome di un dio ignorante, che riducono il divino a temere le parole degli umani e quindi a perseguitarle, ferirle, bruciarle. Ma «il pensiero non brucia» ripete Ipazia. E a distanza di sedici secoli la voce di questa donna è viva. Sono vive, certo, anche le parole dei discendenti di coloro che la linciarono con delle conchiglie affilate, che fecero scorrere il suo sangue e ridussero a brandelli la sua carne mentre risuonavano «le grida, le grida che mi investono. Le grida della loro sconfitta». E qui il climax della solitudine e della violenza subìta si capovolge nel disprezzo verso coloro, i cristiani, che hanno creato un dio a immagine e somiglianza del loro rancore, della loro miseria, delle loro paure.
Ipazia entra invece in scena con un sorriso di fiducia nella vita, di curiosità verso il suo enigma, di serenità per l’ordine nascosto del mondo. Le sue parole raccontano dell’ultimo giorno che visse, del suo sogno di proteggere i libri della grande biblioteca che i seguaci di Cristo invece bruceranno, della progressiva angoscia per il male che arrivava, della sua morte e della sua rinascita in quanti non hanno dimenticato l’intelligenza e la determinazione di questa donna antica.
Il racconto viene accompagnato dalle parole -del tutto reali- degli editti imperiali che in un crescendo di violenta intolleranza proibiscono ogni culto e azione ai pagani. E dalle parole di San Cirillo, il vescovo di Alessandria che fu il mandante del massacro. Devono essere ben miserabili questi cristiani se hanno avuto così tanta paura di una donna sola. Una donna che afferma sin dall’inizio «lo studio è tutto». Perché  cercare di comprendere l’essere è il senso stesso dell’animale umano, come volare alla ricerca di cibo è il senso stesso dell’esserci di un’aquila.
Francesca Bianco dà voce e corpo a questo sogno che diventa incubo di sangue per tornare a essere il calmo profilo di Ipazia che alla fine si staglia sulla scena. Lei viva, i suoi massacratori morti ancor prima d’essere nati.

Il sangue / la luce

Architetture, sculture -e non soltanto parole- sono i versi di Eschilo. Nell’Orestea essi delineano un’ipotesi mitica, e quindi reale, sull’origine della città umana. Origine dal sangue, nel duplice senso del legame e del delitto. Le forze indicibili protagoniste della trilogia -le Erinni- perseguitano infatti non coloro che hanno ucciso e basta ma coloro che hanno ucciso i consanguinei. Per questo non toccano Clitennestra -Agamennone era soltanto suo marito- e perseguitano invece Oreste, il figlio che vendicando il padre l’ha uccisa.
Le Erinni sono «mákares chtónioi», potenze ctonie, figlie della Notte e germinate dalla terra (Coefore, v. 476; le opere sono citate nella traduzione di Ezio Savino, Orestea, Garzanti 2009). Sono le antichissime, che dominavano il mondo già prima di Zeus. Sono le stanghe del fato alle quali gli umani sono aggiogati e che Cassandra -unita ad Agamennone dallo stesso destino di morte- può vedere ma non distogliere da sé. A questa impresa, deviare e trasformare la volontà della Notte che avvolge gli umani, possono aspirare soltanto Apollo e Atena, giovani divinità della luce. L’occasione per farlo è il destino di Oreste, la sua azione di matricida voluta da Apollo e difesa da Atena. Le due divinità sono ben consapevoli delle entità che hanno sfidato. Così, infatti, le descrive Apollo rivolto a Oreste: «Guarda le creature rabbiose: eccole vinte! Crollate nel sonno: vergini -sputi, nient’altro per loro- decrepite figlie dei secoli. Nessuno ama toccarle in eterno: né celeste, né umano, né bestia selvaggia. Tormento, ecco la radice del loro esistere, per questo la dimora assegnata è il tormento del buio, il Tartaro fondo d’abisso. Incarnano il disgusto del mondo e dei numi, su nell’Olimpo» (Eumenidi, 64-73).
Esse, per loro stessa ammissione, perseguitano l’assassino sino a condurlo «dove non c’è neppure parola per dire: sono felice» (Ivi, 423). E che cosa questo significhi è ben spiegato nelle parole con le quali angosciano Oreste: «Così ti macero vivo, ti strascino sotterra / dove ripaghi soffrendo / lo strazio della madre sgozzata» (Ivi, 267-268).
Atena sa che enorme è la loro influenza sulle cose e sugli eventi, che esse sono e rimangono sovrane, qualunque cosa accada: «nel mondo umano esse destinano tutto, con chiara esattezza. Assegnano a uno canti di gioia, a un altro una vita opaca di pianto» (Ivi, 952-955). E dopo averle finalmente persuase a trasformare in benedizione la loro funesta e implacabile furia, la dea giustamente si gloria.
I Greci, che tutto questo hanno pensato, sanno che nell’uomo -nel suo sangue- dorme e parla una «fame implacabile di felicità» (Agamennone, 1331-1332), la quale si scontra istante dopo istante non soltanto con la follia umana ma anche e soprattutto con l’angoscia che ai mortali sembra essere stata fornita quale dote alla nascita. Essa rende instabile ogni serenità e offre, senza che nessuno la assoldi, come scorta lo strazio. Perché? Per quale colpa o caduta? Per quale decisione? Molto più a fondo rispetto al mito monoteistico, per i Greci la colpa ha poco a che fare con i comportamenti; non riguarda l’agire ma l’essere. È colpa ontologica, non etica. «Quale uomo, che sappia la storia, / può dire di essere nato / all’ombra di un destino innocente?» (Ivi, 1341-1342).
È per infrangere, per tentare di farlo, l’ancestrale catena di colpa e di pena che le divinità del pensiero e della luce diventano divinità politiche fondanti il diritto e con esso la città. Il carattere anche e totalmente politico dell’Orestea intesse l’intera vicenda della casa d’Argo. Nel passaggio da Delfi ad Atene, dalle Erinni alle Eumenidi, non viene dunque smarrito uno dei fondamenti antropologici del mondo greco: la miseria dell’umano di fronte alle potenze del mondo e alla potenza che esso stesso è.
Infine, alla fine e all’inizio di tutto, l’elemento pagano scorre puro in questi versi. Scorre nella molteplicità degli dèi, la quale fa sì che nessuno di essi sia onnipotente, che tutti siano costretti a dialogare tra loro e a sottoporsi a giudizio. Persino Apollo. E scorre nel dialogo fra Elettra e il suo coro. All’interrogativo della ragazza se sia azione degna supplicare gli dèi affinché arrivi qualcuno a dare la morte -«Che preghiera, la mia, agli dèi! Sarà religiosa?»-, il coro risponde, sicuro: «Di compensare chi ti odia col male? Dubiti?» (Coe., 122-123).
«Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo” e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori […] E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?» (Mt., 5, 43-47). I pagani, appunto.

Contro il monoteismo

L’ossessione di ricondurre a una monocorde identità la magnifica selva delle differenze è un crimine. Di tale ossessione i monoteismi fanatici si nutrono ogni giorno. La sofferenza e il male che ebraismo, cristianesimo e islam diffondono da millenni nel mondo sono una delle prove schiaccianti della ferocia di cui la nostra specie è capace. Un brano evangelico ne riassume perfettamente la logica abnorme e patologica, che vuole ridurre il molteplice, il politeistico, il vario, il difforme, all’uniformità più assoluta, quella di un solo principio, di un unico dio: «Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi. […] Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me».
(Vangelo di Giovanni, 17, 11-23)
A questa logica che pretende e vuole fare del diverso «una sola cosa» si oppongono le parole lucide e pacate di un grande maestro: «Infatti l’intolleranza è intrinseca soltanto alla natura del monoteismo: un dio unico è, per sua natura, un dio geloso, che non tollera nessun altro dio accanto a sé. Invece gli dèi politeistici, per loro natura, sono tolleranti, essi vivono e lasciano vivere. In primo luogo, tollerano volentieri i loro colleghi, gli dèi della stessa religione, e poi questa stessa tolleranza si estende anche agli dèi stranieri, che perciò vengono accolti con ospitalità, e col tempo ottengono perfino il diritto di cittadinanza, come dimostra anzitutto l’esempio dei romani, i quali accolsero volentieri gli dèi della Frigia, dell’Egitto e altri dèi stranieri. Perciò sono soltanto le religioni monoteistiche a offrirci lo spettacolo delle guerre e delle persecuzioni religiose, nonché dei processi agli eretici e della distruzione delle immagini degli dèi stranieri, della distruzione dei templi indiani e dei colossi egiziani, che per tre millenni avevano guardato il sole».
(Arthur Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, Adelphi 1978, vol. II, pp. 470-471)

Heidegger, i Greci, gli dèi

«Gli dèi dei Greci non hanno nulla a che vedere con la religione. I Greci non hanno creduto nei loro dèi. Una fede degli Elleni -per rammentare Wilamowitz- non esiste». Così Heidegger durante un seminario che tenne a Friburgo insieme con Eugen Fink (Eraclito. Seminario del semestre invernale 1966/1967, a cura di A. Ardovino, Laterza, 2010, p.16). È vero, i Greci non hanno una fede religiosa ma sono immersi nel divino come la Terra è immersa nella luce ed è circondata da tenebre sconfinate. L’immenso buio del dolore, dell’assurdo e della fine viene illuminato da quei frammenti di oggettività che sono le statue degli dèi, le loro epifanie, il loro materico apparire ed ergersi sullo sfondo dell’armonia dei templi e della potenza naturale. Questa è la “fede” dei Greci, in realtà un vedere e non un credere.

Sessuofobia islamica

Il 3 giugno 2011 avrebbe dovuto tenersi una partita di calcio tra le squadre femminili di Giordania e Iran. Le calciatrici persiane, però, hanno indossato lo hijab, una tenuta che copre l’intero corpo. La FIFA (l’organismo che governa il calcio mondiale) ha per questo annullato la partita, ha dato la vittoria alla Giordania e ha dunque escluso le ragazze iraniane dalle Olimpiadi di Londra del 2012. Decisione che reputo molto grave e discriminatoria, anche perché la federazione iraniana aveva cercato un compromesso rispetto alle richieste della FIFA. Risibile, poi, la motivazione per la quale durante le partite sono vietati abbigliamento e comportamenti che facciano riferimento a credenze religiose o politiche. Bisognerebbe, infatti, proibire anche il gesto del farsi la croce che alcuni calciatori mettono in atto all’inizio di una partita o dopo aver realizzato una rete.

Va detto, tuttavia, che un episodio come questo conferma la fobia della fede musulmana nei confronti del corpo femminile. Il monoteismo islamico è nel suo sviluppo storico la più estrema forma di negazione del piacere, della bellezza, della vita nella sua potenza corporea. Se si confronta l’Afrodite Callipigia (dal bel sedere) dei pagani -la quale solleva la propria veste in un gesto di divertita conquista- con il divieto ossessivo imposto alle donne islamiche di mostrare la propria pelle, si comprende quale nichilismo antierotico esprimano il Corano e il suo predecessore, il libro degli ebrei e dei cristiani.

I Greci a Siracusa

Filottete
di Sofocle
Regia di Gianpiero Borgia
Con: Sebastiano Lo Monaco (Filottete), Massimo Nicolini (Neottolemo), Odisseo (Antonio Zanoletti), Salvo Disca e Giovanni Guardiano (capo coro marinai), Giacinto Palmarini (Eracle)
Traduzione di Giovanni Cerri
Scene e costumi di Maurizio Balò
Musiche di Papaceccio, Francesco Santalucia
Teatro Greco di Siracusa
Sino al 18 giugno 2011

Una nave approda a Lemno, isola solitaria, abitata da uccelli e da fiere. Un solo umano ne percorre gli spazi, Filottete, l’eroe acheo al quale il morso di un serpente ha ridotto il piede a fetida cancrena e la voce a un urlo disperato di dolore. Per questo i suoi compagni lo lasciarono dieci anni prima nell’isola, non sopportando il fetore della piaga e lo strazio della gola. Ora però gli Achei sono costretti a tornare. Un oracolo ha spiegato che senza l’arco e le frecce di Eracle, possedute da Filottete, Troia non sarà mai espugnata.
 A tramare il furto dell’arco è Odisseo, che induce Neottolemo, il giovane figlio di Achille, a presentarsi al malato, a conquistare la sua fiducia, a consegnare ai Greci l’arma indispensabile per la vittoria. E tuttavia mano a mano che la menzogna ha successo, Neottolemo sente le proprie parole d’inganno come un insostenibile peso dal quale si sente schiacciato. Confessa dunque a Filottete la trama che lo ha condotto al raggiro. Sorpreso, annichilito, infuriato, Filottete lo maledice chiedendo la restituzione dell’arco. Interviene Odisseo a impedire l’azione dannosa agli Achei. Le ragioni di realpolitik del greco più astuto si contrappongono al bisogno di trasparente lealtà di Neottolemo. Saranno queste ultime a vincere: l’arco sarà restituito, accompagnato dall’esortazione a partire comunque insieme per Troia. Testardo, ingannato, furente, Filottete respinge le preghiere del giovane, sino a che appare Eracle a imporre –deus ex machina– al tenace eroe di obbedire a ciò che gli dèi hanno da sempre deciso.

La scena di Maurizio Balò contrappone l’azzurro trasparente del mare al nero perduto dell’isola. Tra le acque e la terra si muove un coro di guerrieri estremamente dinamico che -scelta efficace- canta in greco le proprie parole. La voce si unisce alla danza e al testo, restando così fedele alla struttura originaria della tragedia greca, un’opera d’arte totale fatta di movimenti del corpo, di note scandite, di versi di per sé intrisi di musica, fatti di canto. Sullo sfondo di tanta bellezza e armonia, emerge più lancinante la vicenda di un uomo abbandonato, malato, ingannato più volte. Lo splendido luogo che è il teatro dei Greci a Siracusa ha dato ancora una volta l’occasione -con questa messa in scena intensa e musicale del Filottete– di sentire la voce dei pagani nel loro rapporto con gli dèi, fatto di venerazione e di pòlemos, di rassegnazione e di forza, di consapevolezza del limite che ci costituisce ma anche della nostra partecipazione alla vita divina tramite desideri, decisioni, pensieri e anche oggetti, come l’arco che sta al cuore di questa tragedia e la cui presenza il regista sa ben restituire facendone il centro spaziale degli eventi e del testo.

[Una recensione più ampia è stata pubblicata sul numero di giugno 2011 di Vita pensata]

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