Skip to content


Desiderio e risentimento

Il risentimento.
Lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo
(Pour un nouveau procés de l’étranger; Système du délire, Éditions Grasset 1976; Eating disorders and Mimetic Desire, 1996)
di René Girard
Trad. di Alberto Signorini
Introduzione di Stefano Tomelleri
Raffaello Cortina Editore, 1999
Pagine XI-188

Il risentimento, smascherato anche da Nietzsche, non sarebbe secondo Girard un sentimento opposto alla volontà di potenza ma consisterebbe nella stessa volontà che vuole raggiungere il proprio modello e non riuscendoci lo condanna. «Desiderio di essere secondo l’altro» (p. 2), secondo un modello ammirato, amato e odiato poiché «l’altro è anche il nostro maggior rivale, perché sarà sempre laddove vorremmo essere e non siamo» (3). L’io e l’altro, l’imitatore e l’imitato, convergono sul medesimo oggetto entrando quindi in una rivalità mimetica che per il primo è sempre esiziale. Dato che è proprio tale convergenza dei desideri a definire l’oggetto terzo, «la mimesi costituisce una fonte inesauribile di rivalità di cui non è mai veramente possibile fissare l’origine e la responsabilità» (96). Questo è il desiderio mimetico che Girard pone a fondamento del Moderno e delle tre sue manifestazioni analizzate in questo libro: l’apparente indifferenza dello Straniero verso la società; le macchine desideranti di Deleuze e Guattari; le pratiche anoressiche.

«Posseduto dall’assurdo come certuni […] sono posseduti dalla grazia» (29-30), Mersault -il protagonista del romanzo di Camus- incarnerebbe la malafede del suo creatore, il quale «ha finito prima di tutto per ingannare se stesso» (52) sulla possibilità che si dia un uomo allo stesso tempo colpevole e innocente. Colpevole agli occhi di chi non gli perdona non di aver assassinato uno sconosciuto ma di nutrire una sovrana indifferenza verso la collettività, innocente quindi dell’assassinio del quale lo si accusa. Lo stesso Camus ammetterebbe tale (auto)inganno nel successivo romanzo La caduta, che costituirebbe una vera e propria autocritica nella quale lo scrittore riconosce per bocca di Clamence che «i “buoni criminali” hanno ucciso non per le ragioni abituali, questo salta agli occhi, ma perché volevano essere giudicati e condannati. Clamence ci dice che in fin dei conti i loro moventi erano identici ai suoi: come molti dei nostri simili in questo mondo anonimo, volevano un po’ di notorietà» (50).
La stessa notorietà/competizione/rivalità che anima la bulimia nervosa e l’anoressia. Un vero e proprio imperativo di magrezza domina infatti l’immaginario collettivo della contemporaneità. Un ordine assai più implacabile di quello delle vecchie religioni e del defunto Dio. Pervenuti finalmente alla terra della nostra autonomia senza divieti e senza leggi, «le divinità che diamo a noi stessi sono autoprodotte nel senso che dipendono interamente dal nostro desiderio mimetico» (167) e i loro comandi sono assoluti perché anch’essi autoprodotti. Nessuno può dunque convincere l’anoressica della sua malattia; lei «è orgogliosa di adempiere a quello ch’è forse il solo e unico ideale ancora condiviso da tutta la nostra società: la magrezza» (160). Notevole ed esemplificativa dello stile dell’Autore è l’immagine che chiude l’analisi dei disturbi alimentari:

Se i nostri avi vedessero i cadaveri gesticolanti delle riviste di moda contemporanea, li interpreterebbero probabilmente come un memento mori, un promemoria di morte, equivalente forse alle danze macabre dipinte sui muri delle chiese del tardo Medioevo; se dicessimo loro che, per noi, questi scheletri disarticolati significano piacere, felicità, lusso, successo, è probabile che fuggirebbero in preda al panico, pensando che siamo posseduti da un demone particolarmente ripugnante. (188)

Il demone del desiderio, della volontà di potenza, del delirio intesse per Girard anche L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari. Un delirio teoretico e analitico che rimane impregnato di Freud e dal quale Edipo esce in realtà intatto, soprattutto perché distrugge il desiderio stesso che pure proclama di installare come autorità maiestatica, come fondamento molecolare delle strutture molari liberate. Il desiderio concreto e quotidiano, con il suo inevitabile attrito, sembra infatti in quest’opera dissolto a favore di una “schizoanalisi” che lascia intatta la Legge che pur si illude di avere oltrepassato:

I divieti sono sempre lì; bisogna convincersi che attorno a essi vigila un’armata potente di psicoanalisti e di curati, mentre dappertutto ci sono solo uomini smarriti. Dietro i rancori guasti contro le vecchie lune dei divieti si nasconde il vero ostacolo, quello che si è giurato di non confessare mai: il rivale mimetico, il doppio schizofrenico. (149-150)

Dove sbaglia Girard?
L’esatta critica al romanticismo, alla sua hybris che invece di liberare il soggetto lo ha catturato in un’infrangibile rete di elefantiasi dell’io -«il romantico non vuole veramente essere solo, vuole che lo si veda scegliere la solitudine» (59)-, assume Lo straniero come paradigma romantico, sbagliando però del tutto lettura. Il romanzo di Camus non è infatti espressione e specchio «del mondo del giovane delinquente» (74), della sua esistenza vuota, della sua crudeltà solipsistica. È questa un’interpretazione sociologica che si preclude per intero non soltanto e non tanto la ricchezza stilistica ed estetica del libro -senza la quale esso sarebbe impensabile- ma anche e soprattutto il nucleo generatore del romanzo, che è la Gnosi. Leggiamo Camus: «si près de la mort, maman devait s’y sentir libérée et prêtre à tout revivre. Personne, personne n’avait le droit de pleurer sur elle. Et moi aussi, je me suis senti prêt à tout revivre» (L’étranger, Gallimard, Paris 2011, p. 183); è tale volontà di eterno ritorno a meritare eventualmente la condanna, poiché «tout le monde sait que la vie ne vaut pas la peine d’être vécue» (ivi, p. 171). Lo sanno tutti, e in primo luogo lo sanno gli gnostici, e tuttavia Mersault ama vivere. Il titolo della successiva presunta autocritica dello scrittore, La caduta, è anch’esso un titolo gnostico.
Nietzsche rappresenta per Girard un vero e proprio doppio mimetico, se vogliamo applicare allo stesso studioso il linguaggio da lui adottato. Il concetto di ressentiment è infatti nietzscheano ma per Girard la critica radicale di Nietzsche alla Legge ebraico-cristiana sarebbe anch’essa intrisa di risentimento. Questo desiderio di distanziarsi da Nietzsche fa sì che Girard confonda la volontà di potenza con il desiderio. È eventualmente quest’ultimo a costituire il «colosso dai piedi d’argilla» che crolla davanti alla fuga dell’alterità tanto bramata:

Ci sono certamente delle ritirate tattiche che il desiderio non fatica a scoprire e che lo riconfortano, ma c’è anche la sincera e assoluta indifferenza degli altri esseri: nemmeno invulnerabili, semplicemente affascinati da qualcos’altro. La volontà di potenza porrà sempre al centro del mondo tutto ciò che non riconosce in essa il centro del mondo, e le riserverà un culto segreto. Non mancherà mai, insomma, di volgersi in risentimento. (99)

Ma la volontà di potenza è altro. È un’ontologia e una epistemologia dell’altrove, che in quanto tale non può concepire alcun risentimento: «Io sono troppo pieno e così dimentico me stesso, tutte le cose sono dentro di me e non vi è null’altro che tutte le cose. Dove sono finito io?» (Così parlò Zarathustra, variante al § 4 della Prefazione, p. 423, dell’edizione Adelphi delle opere). L’io non vuole più imitare né dominare il mondo poiché è diventato una cosa sola con esso.
Né solipsistico, né anticonformista, né minimalistico, l’io/mondo di Nietzsche è libero dalle contraddizioni e dalle strette di un «pensiero della differenza pura, senza identità» (145). La totalità pagana di corpo/mente/mondo -totalità che rappresenta il vero bersaglio dell’opera, di tutta l’opera, di Girard- non è il modello delle sindromi contemporanee. Girard sostiene che «i nostri disturbi alimentari non hanno alcuna continuità con la nostra religione: nascono nel neopaganesimo del nostro tempo, nel culto del corpo, nella mistica dionisiaca di Nietzsche, che fra parentesi è stato il primo dei nostri grandi digiunatori. I nostri disturbi alimentari sono causati dalla distruzione della famiglia e delle altre reti protettive che fanno fronte alle forze della frammentazione mimetica e della competizione, scatenate dalla fine dei divieti» (168). Ma la corporeità pagana è forma ed espressione dell’ironica serenità che nasce dalla misura e dall’accettazione della finitudine. Porla all’origine delle manifestazioni contemporanee dell’industria culturale e dell’ordine imitativo delle star spettacolari -dalla principessa Sissi alle attrici hollywoodiane- è semplicemente errato. Il doppio nietzscheano, il risentimento «che l’imitatore prova nei confronti del suo modello allorché questi ostacola i suoi sforzi per impossessarsi dell’oggetto sul quale entrambi convergono» (X), fa cadere anche Girard nella sindrome che egli denuncia.

Sugli dèi e il mondo

La vicenda dell’imperatore Giuliano e della sua corte sintetizza un intero mondo al suo tramonto. In quei pochi anni, dal 360 al 363, la civiltà greca tentò l’ultima impossibile impresa, quella di sopravvivere a una nuova fede sostenuta dalle masse e da una parte della classe dirigente: Ambrogio e Agostino provenivano dagli stessi ambienti e perfino dalle stesse famiglie di Simmaco e di Salustio ma decisero di aderire alla dottrina e al gruppo vincenti. Salustio (Saturninio Secondo Saluzio) fu praefectus praetorio Orientis, maestro e consigliere di Giuliano e suo amico fidato. Per Salustio e per Giuliano filosofia non è semplicemente l’aderire a un’idea o la capacità di pronunciare discorsi efficaci ma consiste in un modo di essere che informa di sé la persona, è una maniera di vivere.
Il divino è perfezione immutabile e felice. I Dodici dèi del pantheon ellenico che Salustio enumera -«Gli dèi che fanno il mondo sono Zeus, Poseidone e Efesto; lo animano Demetra, Era e Artemis; Apollo, Afrodite e Hermes lo accordano; mentre Hestia, Atena e Ares stanno a guardia» (Sugli dèi e il mondo, [Perì Theon] a cura di R. Di Giuseppe, Adelphi 2000, § 6, 3, 1-6)- diventano i paradigmi di un mondo imperituro e ingenerato. Non è quindi pensabile «che il divino reagisca agli affari umani: né positivamente, né negativamente […] Siamo piuttosto noi -essendo buoni- a entrare, per somiglianza, in unione con gli dèi e a distaccarcene per dissimiglianza, divenendo cattivi» (14, 1, 9-18). Culti, sacrifici e preghiere hanno quindi senso soltanto dal punto di vista umano ed è agli uomini che servono. Gli dèi non accettano né rifiutano, non benedicono né condannano, «sicché, dire che è il dio a respingere i cattivi equivale a sostenere che il sole si rifiuti a chi è privo della vista» (14, 2, 6-9). Viene in tal modo superata anche l’obiezione epicurea: gli dèi agiscono nel mondo ma lo fanno senza fatica alcuna, per il semplice fatto di esistere, come il sole che nulla perde della propria potenza e perfezione illuminando lo spazio, anzi la esplica.

Se tale è l’essenza del divino, enti ed eventi sono guidati dal lògos. Il male -come poi ripeterà il cristiano Agostino- è solo  apousìa de agathou, assenza del bene (12, 1, 5). Nel mondo nulla esiste che sia cattivo per sua natura, ogni cosa si tiene con ogni altra, tutto è scaturito dalla medesima sorgente. A questa unità metafisica corrisponde quella gnoseologica di soggetto che conosce, oggetto conosciuto e conoscenza in atto. Il mondo si nasconde e si svela nella forma di un’allegoria sensibile dell’eterno, un’immagine mobile di ciò che non passa, forma che solo i migliori sono in grado di cogliere, dopo lunga fatica. La maggioranza è impotente ad apprendere e sarebbe grave errore «la pretesa di insegnare a tutti la verità sugli dèi» (3, 4, 1-2). Le condizioni per capire e per vivere il divino sono, infatti, numerose e difficili: bisogna essere stati ben educati fin da bambini e non essere cresciuti in mezzo a opinioni errate e superficiali; l’educazione, tuttavia, non basta se «per natura» non si è nobili e assennati (1, 1, 4) e se non si nutre familiarità con le adeguate conoscenze sugli dèi e sugli umani.
Gli “affari umani” -il loro valore, l’esito- dipenderanno quindi dalla conoscenza: da Omero a Plotino l’intellettualismo etico rimane una cifra del mondo greco. Saggezza è soprattutto comprendere la perfezione di ogni ente e dell’intero poiché tutto è derivato da qualcosa di perfetto e cioè di delimitato nei confini armoniosi della Misura. Affermando che «oude apeiròn ti en to kosmo» (20, 3, 3-4) -che nulla al mondo si dà di indefinito- Salustio raccoglie il senso dell’intera cultura ellenica. Essa offriva agli esseri umani non la hybris di paradisi oltremondani ma la felicità della comprensione del qui e dell’ora nell’unità del tempo. È il presente il tempo dei Greci. Tutta la loro religione, arte, filosofia -il loro mondo unitario- è rivolto a gustare l’attimo che coincide con l’eterno. È per questa ragione che la virtù è per i Greci fine a se stessa, poiché il tempo è l’adesso; lo spazio della gioia o del dolore è il qui. La materia è trasformazione degli elementi, non è creazione o distruzione assolute.

Cosmologia, etica e metafisica si unificano nella filosofia di Salustio, sintesi del pensiero di un intero mondo: «Tàuta dè eghèneto mèn oudépote, esti dè aei», queste cose mai avvennero e sempre sono, «l’intelligenza le vede tutte assieme in un istante, la parola le percorre e le espone in successione» (4, 8, 26-29). Su tale fondamento teoretico si eleva la conquista umana della serenità. Per i pagani la felicità non consiste nella speranza di un paradiso ma nel possesso di sé, metafora del dominio del mondo:

Ma anche se nulla di tutto ciò fosse vero: senza contare il piacere e la gloria, che da quella discendono assieme a una vita priva di crucci e senza servitù (adèspotos Bìos), la virtù stessa basterebbe da sola a render felici quanti scelsero di vivere secondo virtù, e ne furono capaci. (21, 2)

I pagani sconfitti sono uomini ancora vincenti.

Paideia

Platone sta al centro della seconda tappa dell’itinerario di Werner Jaeger (1888-1961) dentro la forma-uomo ellenica. L’analisi delle opere della «più grande personalità di educatore apparsa nella storia del mondo occidentale» (Paideia. La formazione dell’uomo greco. II Alla ricerca del divino, trad. di A. Setti, La Nuova Italia, 1978, p. 40) permette di penetrare a fondo nella complessità dell’antropologia greca. Essa si fonda sull’assunzione della natura come norma e direzione dell’esistere di ogni ente. L’avventura umana consiste nell’aprire lo spazio di massima libertà consentito dalla struttura finita perché biologica della specie. Solo così si comprendono gli importanti legami e debiti di Platone con la medicina greca. Egli trovò la soluzione più originale al problema che muoveva tutta la cultura arcaica e che ha in Eschilo la sua espressione più chiara: l’uomo che erra lo fa perché indotto dagli dèi e tuttavia non per questo la sua colpa è meno grave. Platone contrappone alla forza di Ate la paideia, che ha come «presupposto la libertà della scelta, laddove il potere del demone appartiene al regno della necessità» (643). È qui che nasce l’individuo europeo e cioè la forma umana che oppone alla comunità, allo Stato, a Dio la propria irriducibilità  di singolo. A coloro, come Popper, che guardano con occhi moderni e prevenuti il progetto platonico, va quindi ricordato che «se lo Stato disegnato da Platone è Stato autoritario, ciò non deve però farci dimenticare che la sua fondamentale esigenza –inattuabile nella realtà politica- di fare della verità filosofica l’istanza suprema del potere, scaturisce in realtà da un immenso valore dato alla libera personalità spirituale, non già da un disconoscimento di un tale valore» (471-472).
Il fatto è che si sbaglia completamente prospettiva se si guarda al Platone politico separandolo dall’educatore, come anche viceversa. La centralità dell’impulso educativo da cui muove tutta la filosofia platonica è una cosa sola con l’esigenza di trovare una risposta al problema del potere. Fra individuo e comunità, società e psiche, Platone -come Socrate- instaura una dinamica di reciproca dipendenza per la quale l’uomo equilibrato può crescere solo sul terreno di una società giusta e questa è a sua volta frutto della giustizia nella coscienza del singolo. «Realizza il vero Stato nella tua psyché» (Repubblica 592 A-B) è il finale invito di Platone, con il quale l’unità arcaica fra il singolo, la famiglia, il clan, la polis, si spezza definitivamente.

Nonostante tutta l’importanza che attribuisce all’educazione, Platone «non crede alla uguaglianza meccanica dei suoi risultati, ma fa molto conto delle differenze individuali di temperamento» (404), sa che una precondizione è l’armonia tra intelletto e carattere; inserisce il fatto educativo nella più vasta dimensione sociale, ritenendo responsabili del successo o del fallimento l’intera comunità e non soltanto gli educatori; rifiuta sia la mera costrizione autoritaria come la riduzione del sapere a un gioco; è convinto, infine, con Socrate, che «l’educazione vera è il risvegliare facoltà che nell’anima sono sopite» (512). Proprio per tutto questo, la paideia si rivolge soltanto a coloro che promettono un qualche esito positivo e non a tutti indistintamente. Solo la prontezza nel capire, delle buone doti mnemoniche e specialmente una vera e propria avidità di sapere, richiedono e permettono la paideia. La selezione è quindi un prerequisito della pedagogia platonica, in modo che –al di là delle differenze di nascita, di classe e di sesso- sia la capace intelligenza della persona il criterio di un’educazione giusta.
Qualunque cosa si pensi della terapia platonica, la diagnosi è di grande verosimiglianza. La sua attualità dipende anche dalla perennità della natura umana, alla quale Platone riconosce la possibilità di cogliere il divino ma anche quella di albergare in sé un male profondo che solo la paideia può contenere. Anche per Platone, come per Nietzsche, l’ordine e la razionalità degli Elleni si ergono su uno sfondo di violenza e di furia. Per entrambi al centro sta il sapere, una scienza gaia, poiché «la conoscenza del significato delle cose è anche la forza creatrice che tutte le guida e le ordina […] e trasforma in un valore positivo tutto ciò che è vita, anche quello che sta ai confini oltre i quali il pericolo comincia» (297 e 306).
Il filosofo al potere -un progetto intessuto di convinzione profonda e di rassegnata malinconia- non ha quindi nulla di autoritario e neppure di professorale. Il filosofo è l’uomo formato nella paideia.

[Sul primo volume dell’opera: Educare
Sul terzo volume dell’opera: «Quell’antica luce risplende ancora»]

«Questo stato della mente si chiama intelligenza»

Fra le tante ragioni che rendono straordinari i dialoghi di Platone, una delle più significative è che in ciascuno di essi il platonismo si rispecchia ogni volta per intero. Il Fedone risulta anch’esso paradigmatico. «Indagare con la ragione e discorrere con miti» è il suo metodo (61 E; trad. di G. Reale). Entrambi convergono a dimostrare che non tutto muore in quel composto che chiamiamo uomo ma c’è una parte che partecipa soltanto della vita. Il filosofo impara progressivamente a morire fino a non temere più, anzi a desiderare di ricongiungersi finalmente con il divino di cui è parte.
Il giorno stesso in cui viene eseguita la sua condanna, Socrate insegna che la filosofia è esercizio della morte, amicizia con essa. Egli sa ed è certo che l’essere si articola in due forme «una visibile e l’altra invisibile» (79 A) e a esse corrispondono due livelli del comprendere, quello dei sensi che confondono l’essere con il sussistere e quello della mente che invece

restando in sé sola, svolge la sua ricerca, allora si eleva a ciò che è puro, eterno, immortale, immutabile, e, in quanto è ad esso congenere, rimane sempre con quello, ogni volta che le riesca essere in sé e per sé sola; e, allora, cessa di errare e in relazione a quelle cose rimane sempre nella medesima condizione, perché immutabili sono quelle cose alle quali si attacca. E questo stato della mente si chiama intelligenza. (79 D)

L’intelligenza rivolge la sua indagine a quei paradigmi di cui ogni cosa che è partecipa poiché senza di esse nemmeno sarebbe. Ecco fondata la metafisica, la ricerca del necessario nel contingente, del modello nella copia, dell’eterno nel tempo. Di questo sapere Platone è l’inventore, l’espositore più chiaro, il più formidabile ragionatore, con il quale la cultura europea ha dovuto fare i conti momento per momento, in un confronto che segna la storia del pensiero. Sulle ultime parole di Socrate -«Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio: dateglielo, non dimenticatevene!» (118 A)- Nietzsche formula un giudizio ironico e demistificante, scorgendo in esse il nascosto cuore nichilista di chi nell’esistere vede la suprema delle malattie. E tuttavia per Zarathustra come per Platone il sapere del corpo è la danzante armonia dell’essere: «la filosofia è la musica più grande» (61 A). Splendida, folgorante formula della vita.

I Greci, identità e differenza

L’opera intelligente e monumentale che Einaudi ha dedicato ai Greci -quattro volumi in sei tomi- è tutta costruita sotto il segno dell’identità e della differenza. Salvatore Settis afferma che uno dei suoi obiettivi consiste nell’«imparare a riconoscere la grecità come estranea e familiare al tempo stesso» (I Greci. Storia Cultura Arte Società, vol. III I Greci oltre la Grecia, Einaudi 2001, pag. XXXV).
I Greci ebbero rapporti variegati e profondi con Traci, Sciti, Anatolici, Iranici, Indiani, Ebrei, Arabi, Iberi, Celti, Fenici, Egizi. Con questi ultimi, in particolare, il legame fu stretto e testimoniato in modo esplicito da Platone, il cui dualismo conserva importanti legami anche con la cultura indiana e iranica. Più in generale, la concezione greca del Tempo deve molto a quel «doppio aspetto tipicamente egiziano di sterminata estensione e di eterno ritorno [che] appartiene ai tratti tipici degli dèi egizi Ra, Ammone, Ptah e Osiride, confluiti in Serapide» (Assmann, pag. 431).
Profonde e complesse sono anche le relazioni fra la Grecità e il cristianesimo, l’Islam, Bisanzio. Roland Kany dimostra in modo convincente che «un cristianesimo senza grecità non è mai esistito» (569), non foss’altro perché i testi sacri di quella religione sono tutti scritti non nella lingua del profeta aramaico Gesù ma in quella del filosofo Aristotele. Non bisogna dimenticare che i roghi dei libri, pratica sconosciuta al mondo antico, cominciarono con l’imperatore Costantino, il quale fece bruciare i testi di Porfirio, avversario dei cristiani. La furia cristiana contro gli Èllenes costituì probabilmente la prosecuzione del giudaismo rabbinico che si opponeva con tutte le sue forze all’educazione “alla greca”, la quale «sottrarrebbe tempo allo studio della Legge ebraica» (Zonta, 682).
La differenza fra grecità e cristianesimo rimane così netta «che nel III secolo d.C. il termine ellenismos venne a designare presso gli autori cristiani il paganesimo nel suo insieme e non semplicemente o esclusivamente la cultura dei Greci» (Savalli-Lestrade, 41). L’identità ritorna in una delle eredità più tenaci che il mondo antico abbia trasmesso al cattolicesimo, mascherata ma non distrutta dai tre monoteismi vincitori, se si pensa che «i discendenti degli dèi antichi sono i nostri santi e non il dio unico delle speculazioni filosofiche» (Troiani, 224). Bisogna sempre stare attenti al rischio di «adeguare i Greci al nostro senso comune […]; una strada rassicurante che pone al riparo dal dover pensare il diverso e, più inquietante ancora, il diverso che ci appartiene, il diverso dentro di noi» (Lanza, 1462).
Per quanto studiati, amati, imitati, i Greci rimangono un’alterità radicale rispetto al mondo che li ha sostituiti. Se dovessimo adeguarci ai loro parametri antropologici, politici, religiosi, rimarremmo sconcertati da un radicale antiumanismo, da un’oggettività implacabile e lontanissima dal nostro sentimentalismo, dal loro disprezzo verso i tristi e i malriusciti. Ogni tentativo di accostarci a essi deve dunque partire dall’ammissione della loro radicale distanza. Ma senza questa differenza non ci sarebbe la nostra identità.

Eros

È uno dei dialoghi più perfetti. La struttura a incastro in cui i personaggi e i discorsi si inseriscono non distoglie dal vero scopo dell’opera, anzi lo mette maggiormente in risalto.
Eros è «un essere superiore all’uomo, un demone possente» generato dall’intraprendenza (Poros) e dal bisogno (Penia) (Simposio, 202d – 203b); è l’unione del possedere e del desiderare. In quanto intermedio tra sapienza e ignoranza, Eros è dunque filosofo (204 a). In ciò si differenzia sia dagli dèi che dagli stolti i quali, per opposte ragioni, non aspirano alla sapienza. Amore è tendenza al possesso sicuro del bene/bellezza, è ricerca dell’immortalità nei due diversi gradi della generazione biologica, che prosegue nei figli la vita dei genitori, e della generazione intellettuale, la quale soltanto assicura una sopravvivenza non troppo effimera.
Il lungo discorso iniziatico di Diotima conduce dalle cose belle alla Bellezza in sé, alla forma oggettiva ed eterna, della quale tutte le singole cose belle partecipano: «Ecco, l’uomo è giunto al termine: conosce il bello nella sua pura oggettività; quel bello che esiste nell’Essere» (211 c).
La straordinaria efficacia della scrittura, le definizioni dell’Eros e del Bello, la descrizione mossa e chiarissima dei costumi sessuali greci, sono alcuni degli elementi che fanno di questo dialogo platonico una delle più radicali espressioni del paganesimo.

Il fuoco dell'universo

L’obiettivo di Plotino è il medesimo di tutta la filosofia ellenistica e romana: l’autarchia dell’uomo divenuto finalmente saggio, di colui che nel geroglifico degli innumerevoli segni sa intravedere un percorso di salvezza per sé, «tutto è pieno di segni ed è sapiente chi da una cosa ne conosce un’altra» (II, 3, 7); di colui che «vive bastando a se stesso, tò oùtos zoé échonti» (Enneadi, trad. di G.Faggin, I, 4, 4); di colui che vorrebbe certamente che ogni umano fosse felice ma che rimane ugualmente felice anche se questo non accade; di colui che «per la stoltezza degli altri o dei parenti, non si renderà infelice né si legherà alla fortuna buona o cattiva degli altri» (I, 4, 7); di colui che è del tutto consapevole della transitorietà sia degli uomini sia delle collettività. Il saggio

potrà considerare grande cosa la caduta di un regno e la rovina della sua città? E se stimasse ciò un gran male o semplicemente un male, ridicola sarebbe la sua opinione, né egli sarebbe saggio, ove considerasse grandi cose del legno, dei marmi e, per Zeus, la morte di esseri mortali. (I, 4, 7)

Racconta Possidio che furono queste le parole pronunciate da Agostino sul letto di morte (Vita, 28.11). Il vescovo di Ippona non ricordò, morendo, un testo della Bibbia o dei teologi suoi colleghi ma quello dell’ultimo grande pensatore pagano. Scelta comprensibile e significativa ma anche contraddittoria poiché per Plotino la somiglianza con il dio non è la partecipazione alla sua sofferenza su una croce -concetto inaudito e totalmente insensato per il paganesimo- ma consiste in uno stato di «Intelligenza impassibile, immobile e pura, aeì phronousin en apathei tò nò kaì stasìmo kaì katharò» (V, 8, 3), in un esistere quindi «duskìneton kaì duspathè», immutabile e impassibile (I, 4, 8). Il saggio sa l’essenziale, sa che «se il fuoco che è in te si spegne, non si spegne tuttavia il fuoco dell’universo» (II, 9, 7).

Vai alla barra degli strumenti