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Eresie

Menocchio
di Alberto Fasulo
Italia-Romania, 2018
Con: Marcello Martini (Menocchio), Maurizio Fanin (Inquisitore), Carlo Baldracchi (il carceriere), Nilla Patrizio (la moglie), Agnese Fior (la figlia), Mirko Artuso (prete Melchiorri)
Trailer del film

Eresia. Una delle parole fondamentali della religione cristiana: la storia «des guerre de religion, et aussi celle des hérésies (terme qui n’a tout simplement pas de sens dans le paganisme) commence avec le christianisme» (Alain de Benoist, Réflexions critiques sur le Néopaganisme, in «Sagesses païennes», numero speciale di éléments pour la civilisation européenne, giugno 2022, p. 39).
Una parola che ha moltiplicato e diviso tale religione in una miriade di rivoli l’un contro gli altri armati e feroci. Una ferocia che si concentra nella forza dell’istituzione che con tutto il suo peso schiaccia colui e coloro che fanno una αἵρεσις, una «scelta» diversa rispetto a quella della maggioranza. Esistono eresie in ogni ambito della vita collettiva poiché sempre la forza del numero ritiene di stare nella verità e nel bene, cercando di cancellare coloro che decidono di abitare in modo diverso il mondo. Una delle più recenti espressioni di tale dinamica è conseguenza dell’aver trasformato la medicina – un sapere e una pratica empirici, non una scienza esatta – in un dogma, vale a dire nel contrario di una scienza.
Eretico fu anche Domenico Scandella detto Menocchio, vissuto tra il 1532 e il 1599, un mugnaio che sapeva leggere e scrivere e che elaborò una interessante concezione panteistica del cosmo, per la quale il dio è nell’aria, negli alberi, nel vento. Sottoposto a due processi, nel primo fu condannato al carcere a vita dopo aver abiurato, nel secondo fu condannato alla pena che la bontà e la misericordia delle chiese cristiane riservano ai figli che esse amano di più: essere bruciati vivi. Con contorno, ovviamente, di torture, anni trascorsi in fetidi e malsani sotterranei, disperazione e tenebra. Tutto questo in nome dei valori, come sempre, di valori giudicati assoluti, indiscutibili, salvifici.
Neppure un mugnaio che discuteva delle sue concezioni con i pochi suoi compaesani in uno sperduto villaggio del Friuli poteva rimanere al sicuro rispetto alla pervasività dei valori della Grande Chiesa. Che infatti lo condannò per una nutrita serie di ragioni:
«Aver diffuso le sue concezioni a persone semplici e illetterate fu considerata un’aggravante; ‘pertinace nell’eresia’, ‘di animo indurato’, ‘nefando’, anzi ‘nefandissimo’, di ‘lingua maledica’, ‘orribile’, ‘maligno’, ‘perverso’, Menocchio ‘come i giganti aveva tentato di combattere l’ineffabile Trinità’. Nel rifiuto della confessione fu individuata un’eresia luterana; nell’equivalenza di ogni fede si vide un’eresia risalente a Origene; nell’esistenza di un caos primigenio un’affermazione pagana; nell’affermazione per la quale ‘Iddio è autore del bene ma non fa male, il diavolo è autore del male e non fa bene’ si vide un’eresia manichea» (voce Wikipedia: Menocchio) .
Il film di Alberto Fasulo racconta questa vicenda con uno stile a essa consustanziale, con una recitazione intensa e sobria, nel chiaroscuro degli ambienti, nell’asfissia degli spazi, nella sporcizia dei prelati, nella rassegnazione del villaggio, nella figura quasi omerica di Menocchio. Alla cui intelligenza sia reso onore rispetto alla miseria dei suoi carnefici cristiani.

Gioielli

Da Matera a Pompei 
Viaggio nella bellezza
Museo Nazionale di Matera
A cura di Annamaria Mauro, Massimo Osanna, Gabriel Zuchtriegel
Sino al 15 settembre 2022

Progettati e realizzati da raffinati artigiani, conservati nei cassetti e nelle case di donne seducenti e tentatrici, agglutinati ai corpi inceneriti degli abitanti di Pompei, i gioielli di questa mostra riempiono gli occhi di luce e la mente di sapienza. La sapienza che consiste nel cercare di vivere sorridendo, di estrarre dal dolore della vita quel che di piacere e di bellezza si può ottenere, di proporsi il più arduo e necessario dei comandamenti: sconfiggere il demone della nascita e trasformare la improbabile ma reale sciagura d’essere nati in un soffio di gaia passione e di leggerezza per sé e per gli altri.
Argento, oro, pasta vitrea, ambra, altre pietre e minerali diventano collane, armille, anelli, specchi, orecchini, fibule, tutti oggetti  splendenti sui corpi, preziosi sulle vesti, rilucenti nell’incontro. Tali oggetti si trovavano ovunque e dappertutto nella civiltà pagana, a  vestire, a sedurre, a consolare.
Si trovavano a Pompei, luogo che la catastrofe ha reso intatto per i futuri. Si trovavano tra i gaudenti abitanti di Sibari. E si trovavano non troppo lontano da entrambe le città, negli antichi luoghi di Lucania, la cui miseria arrivò dopo. Al tempo degli antichi amanti dei piaceri, al tempo dei pagani, anche Matera sorrideva di leggerezza e di gioielli. Questa bella esposizione al Museo Nazionale della Lucania lo dimostra.

Elogio dell’odio

L’odio è una forza primordiale del vivente. Come tutte le forze profonde può diventare incontrollato in chi lo nutre, ma se rimane in una tonalità fredda e distante può costituire una fonte costante di energia. È questa forma di odio a essere intrinseca all’animale carnivoro e a permettergli di non tenere in alcun conto la vita della vittima. Non si tratta infatti di un odio emotivo e diretto verso un preciso individuo, che potrebbe essere dissolto da argomentazioni di una qualche natura, ma di un odio oggettivo e rivolto alla situazione che ostacola il predatore nella sua necessità di sopravvivere.
Uno degli esempi più chiari, evidenti e meglio documentati della forza che l’odio infonde in chi lo nutre è il cristianesimo. Questo insieme di dottrine e di comportamenti ha avuto un grande successo anche perché predica l’amore ma ha sempre praticato l’odio verso i peccatori, verso altri cristiani (definiti eretici), verso altre fedi, verso gli atei, verso i cristiani progressisti o verso i cristiani tradizionalisti, verso i pagani.
L’odio è sano anche perché alla lunga la melassa dei buoni sentimenti disgusta. Specialmente quando si è imparato – dai libri e dall’esistenza – quanta menzogna si agiti in tali sentimenti, quante tonalità negative, fatte di presunzione, viltà, interesse, arroganza, narcisismo, disprezzo verso la vita, la gaiezza, il sorriso. Disgusta questa bontà fatta di plastica dentro la quale sta l’acciaio di un autoritarismo che proclama a ogni passo, momento, sguardo, miseria: “Noi siamo i giusti, noi siamo i bravi, noi siamo gli accoglienti, noi siamo i corretti, noi siamo gli inoffensivi, noi siamo gli equi, noi siamo gli altruisti, noi siamo il bene. E voi che invece siete ingiusti, pessimi, escludenti, scorretti, aggressivi, iniqui, egoisti, voi non avete diritto nemmeno di parola ed è giusto che i nuovi poteri dei media e dei social network vi impediscano di proferire le vostre violenze, le vostre idee, le vostre parole, i vostri pensieri. Così il mondo sarà purificato e passeremo il resto dei nostri giorni a sorriderci a vicenda, ad accogliere, a raccontarci quanto stupenda sia la morale, a praticare le nostre belle solidarietà. E a dirci quanto la vostra libertà ci desse fastidio”.

Risplendono estranei

Le società umane sono per loro natura tiranniche. E questo a causa di vari fattori, tra i quali: la struttura gregaria della specie; la paura come condizione di sopravvivenza; la stanzialità che favorisce la perpetuazione dei privilegi; il piacere profondo che nasce dal controllo della volontà altrui; la capacità di elaborazione e giustificazione ideologica delle ragioni e delle modalità del dominio. La libertà è dunque qualcosa di innaturale, infrequente, costruito, voluto e sempre da difendere nei confronti della legge d’inerzia dell’autorità e della servitù volontaria.
Anche per questo sono discutibili i tentativi di recenti correnti storiografiche di ridimensionare la libertà degli antichi Greci. Nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente antichi e anche nelle società contemporanee queste libertà rimangono delle eccezioni da conoscere, apprezzare e difendere. Non vanno infatti dimenticati almeno due elementi di tutta evidenza e di notevole gravità: il totalitarismo è un fenomeno del XX secolo e non del mondo antico; la capacità che i Governi contemporanei possiedono di controllare ogni istante della vita dei cittadini e di influenzarne pensieri, parole e opere, è incomparabile con quella di qualunque altra fase conosciuta della storia umana. E questo anche per ragioni semplicemente tecniche.
La libertà degli Elleni è confermata anche dal tomo che chiude la splendida opera curata da Salvatore Settis, il settimo complessivo dei quattro volumi che compongono I Greci.
Libertà nei confronti degli dèi, prima di tutto. I Greci arrivarono a concepire l’ἱλαροτραγῳδία, l’ilarotragedia, una sistematica e pesante presa in giro dei miti; arrivarono ad accusare esplicitamente gli dèi di ingiustizia nella concezione e conduzione delle cose umane; arrivarono a dubitare della loro stessa esistenza o li immaginarono del tutto disinteressati alle vicende della nostra specie. Qualcosa di assai diverso e lontano dai dispositivi concettuali dei successivi monoteismi.
Libertà nei confronti degli umani, con l’esplicita teorizzazione e la frequente messa in atto del tirannicidio, come testimonia – tra l’altro – la legge di Eucrate del 337/336 a.e.v.: «Se qualcuno si pone contro il popolo con la prospettiva di una tirannide o partecipa all’affermazione di una tirannide o abbatte il popolo di Atene o la democrazia in Atene, chiunque uccida chi fa qualcuna di queste cose, sarà senza colpa»1.
Libertà finanziaria, difesa anche con uno degli elementi senza i quali una comunità politica gode di una libertà solo apparente, l’autonomia monetaria: «La moneta come emblema della polis, segno tangibile della sua autonomia politica (che si esprime nell’apertura della zecca, nel diritto di battere moneta) e del sentimento civico connesso allo sviluppo della polis stessa nel VI secolo a. C.» (Federica Missere Fontana, p. 1034). Libertà alla quale hanno irresponsabilmente rinunciato gli Stati europei, con il risultato di sottomettersi all’economia dello Stato più forte, che attualmente è la Germania. L’euro, infatti, non è altro che un marco mascherato, come è inevitabile che sia, dato che l’elemento ultimo di un processo di unificazione – la moneta collettiva – è stato invece realizzato quasi per primo.
Libertà sessuale, con la pratica di costumi successivamente ritenuti del tutto immorali, quali la pederastia che «rendeva i giovani emuli delle virtù dei loro amanti più maturi e questi, a loro volta, erano responsabili dell’educazione dei loro ἐρώμενοι fino a quando non diventavano adulti» e la cui manifestazione sessuale non era per lo più la sodomia ma «la copulazione intercrurale, ossia tra le cosce» (Enrica Fontani, p. 957).
Libertà dall’ossessione del lavoro, ritenuto un elemento di servitù; e basta osservare con quale stato d’animo milioni di persone si recano oggi al lavoro per ammettere che i Greci non si sbagliavano di molto.
Libertà dalla pervasività della sfera pubblica, con la difesa di una sfera personale di vita ben esemplificata dall’«αὐλή, spazio di mediazione fra la strada cittadina e le stanze della casa, fra l’esterno e l’interno» (Alessandra Tempesta, 1126 e 1149), come ancora si può vedere a Erice e in altre località del Mediterraneo.
Libertà dalle illusioni sulla vita e sulla morte, testimoniata dall’intera loro cultura: teologia, letteratura,  arte, filosofia, drammaturgia. Dioniso e Ade sono una sola divinità (lo scrive Eraclito) e anche per questo la festa e i riti funerari sono al centro della società ellenica. Se «tutto è pieno di segni, ed è sapiente chi da una cosa ne conosce un’altra» (Plotino, Enneadi, II, 3, 7), il monumento funerario è σῆμα, è segno per eccellenza, e questo «già in Omero e nelle prime iscrizioni funerarie» (Claudio Franzoni, p. 1263).

L’ultimo elemento indicato qui sopra, la drammaturgia, è insieme alla filosofia il più vivo oggi tra quelli inventati e trasmessi dai Greci. E tuttavia nelle nostre rappresentazioni delle tragedie di Eschilo, Sofocle, Euripide perdiamo molti elementi essenziali del teatro greco, «prima di tutto la dimensione religiosa: gli spettacoli ad Atene non si svolgevano in qualunque parte dell’anno, ma solo durante le feste in onore di Dioniso, e anzi sotto il suo sguardo, se è vero che una sua statua era portata, prima che iniziassero gli spettacoli, fin dentro il teatro» (Franzoni, p. 791) e  poi anche la dimensione civica e la dimensione agonistica.
Se «i Greci risplendono più che mai»2, è anche vero che i Greci ci sono estranei più che mai. E anche per tale ragione rappresentano un antidoto ai limiti del presente, costituiscono ancora una garanzia e una fonte della nostra libertà.


Note

1. I Greci. Storia Cultura Arte Società, a cura di S. Settis, Volume IV/2 Atlante 2, a cura di C. Franzoni, Einaudi 2002, p. 1023. Le citazioni successive saranno indicate con il nome dell’autore e il numero di pagina.
2. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884, in «Opere», Adelphi 1976, VII/2, 26[43], p. 144.

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Con questo testo si chiude l’analisi de I Greci. Storia Cultura Arte Società.
I precedenti contributi si trovano qui:

vol. I Noi e i Greci

Vol. II/1 Una storia greca. Formazione (fino al VI a.C.) [manca 🙁 ]

Vol. II/2 Una storia greca. Definizione (VI – IV secolo)

vol. II/3 Una storia greca. Trasformazioni (IV secolo a.C. – II secolo d.C)

vol. III I Greci oltre la Grecia

Vol. IV/1 Atlante 1

Restituire il mondo agli dèi e gli dèi al mondo

Gore Vidal
Giuliano
(Julian, 1959-1964)
Traduzione di Chiara Vatteroni
Postfazione di Domenico De Masi
Fazi Editore, 2017
Pagine 585

I libri sconfiggono anche la morte, pur non potendo sconfiggere il tempo: «Facciamo dunque rivivere Giuliano e per sempre» (p. 25). Ed è così che Libanio, maestro di Giuliano, e Prisco, che aveva conservato e preservato il diario dell’imperatore, leggono, commentano, discutono i testi del loro amico e allievo, sperando di poter pubblicare una sua biografia, che però l’imperatore Teodosio proibirà.
Libanio e Prisco non soltanto sono reali, essi appaiono anche del tutto verosimili, come ogni altro elemento, personaggio, evento, scena, luogo di questo romanzo. Nessuno dei due formula acritici elogi di Giuliano. Prisco è anzi spesso severo verso l’ingenuità dell’imperatore, la sua mania per le ecatombi in onore degli dèi, l’affidarsi a ciarlatani e indovini, e arriva ad affermare che «Giuliano voleva credere che la vita di un uomo ha un significato molto più profondo di quello che realmente ha. Il suo male era lo stesso della nostra epoca. A tal punto non accettiamo di estinguerci, che continueremmo a ingannarci l’un l’altro in eterno pur di negare l’amara, segreta consapevolezza  che il nostro destino è non essere» (103).
E tuttavia nessuno in questo libro può stare alla pari di un uomo che sembrava non voler fare altro che leggere – «Finché avevo la possibilità di leggere, non ero del tutto infelice» (61)–, imparare, studiare, pensare. E che però fu anche e sempre un soldato, uno dei massimi strateghi del mondo antico, mai sconfitto in nessuna battaglia, vincitore ovunque, dalle Gallie alla Persia. Un uomo che, come tutti gli antichi che non fossero ebrei, vedeva nella molteplicità, nella differenza e dunque nel politeismo la struttura stessa del mondo e che anche per questo nel 362 restaura la libertà di culto che i suoi predecessori cristiani avevano cancellato: «Il 4 febbraio 362 proclamai la libertà di culto in tutto il mondo. Ognuno poteva adorare la divinità che preferiva, nel modo che preferiva» (376). Un uomo, soprattutto, votato alla luce, all’armonia del tempo, alla sua infinita spirale. Arrivando ad Atene, Giuliano dice a se stesso «ero nel presente, appartenevo al passato e, contemporaneamente, al futuro. Il tempo mi spalancava le sue braccia e in quel sereno amplesso vedevo il tutto nel suo insieme: un cerchio senza inizio né fine» (159).
Dopo che «quell’avventuriero di Costantino ci ha venduto ai vescovi» (27), quest’uomo giunto, nonostante molti rischi e per i suoi meriti, alla carica imperiale cerca nel poco tempo che intuisce essergli dato di restituire il mondo agli dèi e gli dèi al mondo. Per quanto probabilmente impossibile ormai da realizzare, tale progetto fu troncato durante uno scontro militare da un assassinio non da parte nemica ma perpetrato da alcuni dei suoi stessi soldati, devoti al nuovo dio. L’esecutore così descrive la propria azione: «Pregai Cristo  perché mi desse la forza. Poi gli immersi la lancia nel fianco» (566).

Davvero, come spesso si ripete in questo romanzo, gli umani sono affascinati dalla distruzione, dalla guerra, dalla violenza. Forse perché intuiscono di non meritare d’esserci, di costituire un trascurabile errore della materia. Tra gli appartenenti a congreghe religiose, i monoteisti sono particolarmente ossessionati dalla distruzione. Tra questi i cristiani, la cui ferocia emerge in modo continuo e inesorabile dalle pagine di Gore Vidal.
Il devoto cristiano Costanzo, zio di Giuliano, gli uccide il padre per assicurarsi il trono imperiale, e «quindi se poteva essere allo stesso tempo un buon cristiano e un assassino, allora nella sua religione c’era qualcosa di sbagliato» (44). I vescovi e le sette nazarene sono continuamente in conflitto gli uni contro gli altri sino a mostrare tutta la follia della propria arroganza. Rivolgendosi a essi Giuliano ha buon gioco a inchiodarli ai loro misfatti: 

Ecco i vostri crimini più recenti. Omicidi e confische…oh, come vi piacciono le ricchezze di questo mondo! Eppure la vostra religione afferma che non dovreste reagire alle offese, né ricorrere al tribunale, e neppure possedere ricchezze, e tanto meno rubarle! […] Vi è stato insegnato a disprezzare il denaro, e invece lo accumulate. Vi hanno detto che non dovreste vendicarvi, quando subite un torto, vero o immaginario che sia: che è sbagliato rispondere al male con il male. E invece vi accanite gli uni contro gli altri, in bande scatenate, e torturate e uccidete quelli che non la pensano come voi. […] Se non riuscite a vivere secondo quei precetti che siete disposti a difendere con le armi e con il veleno, che cosa siete, se non degli ipocriti? (388).

La loro intolleranza non ha pari, come Prisco argomenta: «Nessun’altra religione ha mai creduto necessario distruggere gli altri solo perché professano un’altra fede. […] Nessun flagello ha mai colpito il mondo con la stessa violenza e con le stesse proporzioni del cristianesimo» (173).
La forza dei cristiani è l’energia dei parassiti. Senza la logica rubata agli elleni, senza la grandezza dei templi greci, senza la profondità del pensiero antico  – tutti elementi da loro utilizzati – questa setta non avrebbe avuto possibilità di crescere, imporsi, diventare il senso comune. Massimo, sacerdote pagano molto e imprudentemente apprezzato da Giuliano, ha comunque ragione a osservare come «tutto quel che avevamo di sacro, ci è stato rubato dai galilei. Il compito principale dei loro innumerevoli concili è quello di dare un senso a tutto ciò che hanno preso in prestito da una parte e dall’altra» (112).

Non si tratta soltanto dei seguaci, è il loro maestro a essere indegno di qualunque argomentato apprezzamento. Gesù fu uno dei tanti rabbini riformatori finiti male; uno dei tanti esponenti di una religione – l’ebraismo –  locale e tribale per sua stessa definizione e pretesa; un condannato a morte assurdamente divinizzato; la più «pericolosa invenzione» della fantasia dei fanatici, come lo definisce Libanio (574), che nel Cristo Pantocratore della basilica di Costantinopoli intravede «il viso scuro e crudele di un boia» (573).
Come conferma uno dei massimi studiosi di storia del cristianesimo «quel che noi chiamiamo ‘cristianesimo’ fu una forma di giudaismo caratterizzata da una fortissima spinta proselitistica» (Giancarlo Rinaldi, Pagani e cristiani. La storia di un conflitto (secoli I-IV), Carocci Editore 2020, p. 11). Rinaldi continua mostrando la «piena ‘ebraicità’ di Gesù e il carattere pienamente giudaico della predicazione sua e dei suoi seguaci» (25), cosa che era del tutto evidente ai polemisti sia pagani sia cristiani dei primi secoli dell’e.v. e invece ancora fatica ad affermarsi nel senso comune, dopo essere stata accolta assai lentamente dagli studiosi di storia del cristianesimo. Emblematico di questa consapevolezza è l’interrogativo di Giuliano il quale si chiedeva come si potesse «proclamare il Dio giudaico Signore dell’universo quando egli, al contrario, per secoli aveva trascurato l’umanità intera dedicandosi a un solo popolo relegato in un cantuccio della terra?» (Contra Galilaeos, fr. 20).

Da simili presupposti non potevano che sorgere tenebre culturali, politiche e antropologiche. Lo ierofante di Grecia, ad Atene, rivolge a Giuliano queste parole: «Arriveranno i barbari. I cristiani trionferanno. E sul mondo caleranno le tenebre» (Giuliano, p. 193). Così infatti è accaduto. «Ossessionati dalla morte» (440), i cristiani sono – semplicemente – il male, come Giuliano dice a un vescovo che lo sfida e disprezza: «Non pensare che tutte le generazioni che si sono succedute dalla morte del Nazareno contino più di un istante nell’eternità. Il passato non cessa di esistere solo perché voi vi ostinate a ignorarlo. Quello che tu adori è il male. Hai scelto la divisione, la crudeltà, la superstizione» (391).
Libero dalle superstizioni e dai terrori cristiani, mentre sta per morire Giuliano così medita: «Nell’ora più opportuna, abbandono questa vita, felice di restituirla alla Natura, che me lo chiede, come un uomo d’onore che paga i suoi debiti entro la scadenza» (555).
La fine di Giuliano non è stata soltanto la morte di un uomo, la sconfitta a tradimento di un imperatore. La fine di Giuliano è stata anche il tramonto di Roma, perché dopo di lui «i goti e i galilei erediteranno lo Stato, e come gli avvoltoi e i vermi spolperanno le ossa di ciò che è morto, finché sulla terra non resterà nemmeno l’ombra di un dio» (537). La fine di Giuliano sarà la fine della «speranza nella felicità umana» (574), sarà la fine della luce: «Ora possiamo solo lasciare che venga il buio, e sperare in un nuovo sole e in un altro giorno, nato dal mistero del tempo e dall’amore dell’uomo per la luce» (575).
Con queste parole di Libanio si chiude un romanzo cha aiuta a comprendere le ragioni per le quali ancora oggi l’Europa non può non dirsi pagana.
Da tale comprensione discendono delle coordinate esistenziali differenti, davvero nuove perché radicate in una identità ancora viva. Allo storicismo, alla temporalità lineare e irreversibile che postula un significato intrinseco della storia – intrinseco perché radicato nella volontà dell’unico Dio — va opposta la consapevolezza (anche cosmologica) che non si dà alcun inizio assoluto del tempo e ogni passato è ancora da venire. Il divino non abita nel totalmente Altro, al di là e al di fuori della natura, delle cose, del mondo. Dio si dispiega qui e ora. È quanto con grande chiarezza e dottrina scrisse Salustio, amico e sodale di Giuliano:  «Ταῦτα δὲ ἐγένετο μὲν οὐδέποτε, ἔστι δὲ αεί»  (Sugli dèi e il mondo, Περὶ θεῶν καὶ κόσμου, 4, 8, 26), queste cose mai avvennero e sempre sono. Sempre.

[Di questo libro ho parlato anche in un saggio Sul politeismo ma qui ho voluto darne un quadro più ampio perché si tratta di uno splendido romanzo che merita di essere gustato nella sua dottrina e nella sua sapienza narrativa] 

Grecità e Induismo

Grecità e Induismo
in Chi cerca…cerca. Un profilo a tutto tondo di Augusto Cavadi
A cura di Crispino Di Girolamo e Sylwia Proniewicz
Il Pozzo di Giacobbe 2020, pp. 224
Pagine 99-107

Ho curato molto volentieri i contributi filosofici compresi nel volume che gli amici di Augusto Cavadi hanno voluto dedicargli per i suoi settanta anni. Il libro è una vivace testimonianza del prisma che la vita di Augusto è, della molteplicità e fecondità delle sue relazioni.
Uno degli ambiti di ricerca al quale mi sembra che Cavadi dedichi sempre più cura e interesse è quello che si racchiude nel termine spiritualità. Nel mio contributo ho dunque tentato un sintetico confronto tra due modi di intendere e vivere la complessità dell’esistenza – “spiritualità” vuol dire anche questo –, modi tra di loro più vicini di quanto si immagini: la sapienza greca e la sapienza induista.
Il saggio si articola in una breve introduzione e in tre paragrafi:
1 La filosofia come iniziazione
2 Filosofia e induismo
3 Gnosi greca e gnosi induista

Il testo presenta una grave lacuna: ho infatti indicato l’autore dell’inno con il quale ho chiuso il saggio come «uno degli ultimi sapienti pagani» ma ho trascurato di aggiungere il nome in nota (cosa davvero incomprensibile…). Cerco di rimediare qui: i versi sono del filosofo neoplatonico Proclo (412-485). È il suo quarto inno, dal titolo A tutti gli dèi (traduzione di Davide Susanetti):

«Ascoltatemi, dèi che governate la santa sapienza,
voi che avete acceso il fuoco dell’ascesa,
voi che elevate agli immortali le anime umane
purificate dai misteri ineffabili dei vostri inni,
lontano dai tenebrosi recessi della caduta.
Ascoltatemi, dèi della grande salvezza,
concedetemi, dai sacri libri, una pura scintilla
di luce, una scintilla che dissolva la nebbia:
un chiaro segno che un dio immortale
dall’uomo distingua. Che mai un demone
nefasto mi sommerga nei flutti dell’oblio,
spegnendo il ricordo dei beati. Che mai
un gelido castigo m’incateni quaggiù:
fredde sono le onde della nascita,
la mia anima non vuole più a lungo vagare.
Sovrani della fiammante sapienza, rivelate
i misteri, rivelate i riti delle sacre parole
a chi si affretta sul sublime cammino».

Tra i testi della filosofia induista che ho citato ne riporto qui uno -magnifico- dedicato al Tempo. È tratto dagli Atharveda (अथर्ववेद), una delle quattro parti che compongono i Veda. Il brano è il XIX, 53 (traduzione di Valentino Papesso):

«1 Il Tempo tira (il carro), cavallo dalle sette redini, milleoculo, esente da vecchiaia, ricco di molteplice seme. Questo (carro) montano i savi ispirati; le ruote di esso sono tutti gli esseri.
[…]
6 Il Tempo produce la terra, nel Tempo arde il sole; nel Tempo sono tutti gli esseri, nel Tempo l’occhio guarda da ogni parte.
7 Nel Tempo la mente, nel Tempo il respiro, nel Tempo è contenuto il nome: quando il Tempo è venuto, si rallegrano tutte queste creature».

L’immagine di apertura fu scattata da Henri Cartier-Bresson nel 1948 nel Kashmir. Non rappresenta né greci né indù ma è colma della pienezza del sacro.

Valutazioni didattiche 2020

Pubblico i pdf con le valutazioni didattiche ricevute per i corsi svolti durante l’a.a. 2019-2020 nel Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict.
Di vere lezioni ne ho tenute soltanto tre, una per ogni materia, all’inizio di marzo 2020. Poi è stata la distanza, l’alienazione del parlare a un monitor, la solitudine nell’aula. Il contrario di ogni insegnamento, di ogni pratica socratica, di ogni incontro. Abbiamo fatto molta fatica e per me è risultato sempre innaturale quel tipo di relazione virtuale, vuota, sostanzialmente finta.
Nonostante questi enormi limiti delle lezioni 2020, gli studenti hanno espresso dei giudizi molto positivi, dei quali li ringrazio.

I questionari sono stati compilati sino al 10 ottobre 2020.
Per l’insegnamento di Filosofia teoretica il report non è disponibile a causa del ridotto numero di risposte ricevute sino a quella data.
Per l’insegnamento di Sociologia della cultura hanno risposto al questionario on line 42 studenti (dei quali 6 non frequentanti).
Per l’insegnamento di Filosofia della mente hanno risposto 6 studenti (1 non frequentante).

Questi dati, e quelli relativi a tutti gli insegnamenti impartiti nel Dipartimento di Scienze Umanistiche, si trovano nel sito del Presidio di Qualità di Unict.

Ricordo agli studenti in che modo a marzo iniziammo i nostri tre corsi.

Filosofia teoretica (Eraclito):
Ο Σκοτεινός (535-475), un’oscurità dalla quale sono sgorgate la luce dell’Europa, il lucore della filosofia, lo splendore del divenire, l’impero del tempo. Nel profondo, nell’abisso, nel labirinto, nell’intero.  È dove ci conduce Eraclito. Dove ci conducono insieme Eraclito e Heidegger. Cercheremo di seguirli, come possiamo, nei nostri limiti, in modo da intravedere l’enigma che sta al fondo dell’essere, che lo abita

Sociologia della cultura (Paganesimi e Differenza):
Esercitare lo sguardo filosofico sulla storia e sulle società significa anzitutto e naturalmente andare al di là delle leggende storiografiche con le quali i vincitori confermano il proprio dominio. 
Una delle leggende più diffuse e condivise è quella che riguarda la relazione che tra III e V secolo ev si instaurò tra l’antica religiosità mediterranea e un nuovo culto proveniente dalla Palestina, una relazione che viene presentata in modo completamente distorto, con le vittime che appaiono violente e i violenti che si presentano come vittime. Una relazione che ha condotto, invece, a questo risultato: «Oggi, nel mondo intero, esistono più di due miliardi di cristiani e nemmeno un solo vero ‘pagano’. Le persecuzioni romane lasciarono il cristianesimo abbastanza in forze da poter non solo sopravvivere, ma anche prosperare – fino a prendere il controllo della struttura governativa. Al contrario, quando le persecuzioni cristiane ebbero ufficialmente termine, un intero sistema religioso era stato spazzato via dalla faccia della Terra» (Catherine Nixey, Nel nome della croce, p. 133). Durante il corso di SdC di quest’anno cercheremo di capire come un evento di questa natura sia potuto accadere e quali effetti continua a produrre sul nostro presente.

Filosofia della mente (Menti animali):
«Kritik der Thiere. — Ich fürchte, die Thiere betrachten den Menschen als ein Wesen Ihresgleichen, das in höchst gefährlicher Weise den gesunden Thierverstand verloren hat, — als das wahnwitzige Thier, als das lachende Thier, als das weinende Thier, als das unglückselige Thier [Temo che gli animali vedano nell’uomo un essere loro uguale che ha perduto in maniera estremamente pericolosa il sano intelletto animale: vedano cioè in lui l’animale delirante, l’animale che ride, l’animale che piange, l’animale infelice]» (Nietzsche, La Gaia scienza, af. 224).
«Vanitas vanitatum homo. Ein Menschenthum entstanden sein, — dessen Grundempfindung ist und bleibt, dass der Mensch der Freie in der Welt der Unfreiheit sei, der ewige W u n d e r t h ä t e r , sei es dass er gut oder böse handelt, die erstaunliche Ausnahme, das Ueberthier, der Fast-Gott, der Sinn der Schöpfung, der Nichthinwegzudenkende, das Lösungswort des kosmischen Räthsels, der grosse Herrscher über die Natur und Verächter derselben, das Wesen, das seine Geschichte W e l t g e s c h i c h t e nennt! [Un’umanità il cui sentimento fondamentale è e rimane quello per cui l’uomo è l’essere libero nel mondo della necessità, l’eterno taumaturgo, sia che agisca bene, sia che agisca male, la sorprendente eccezione, il super-animale, il quasi-Dio, il senso della creazione, il non pensabile come inesistente, la parola risolutiva dell’enigma cosmico, il grande dominatore della natura e dispregiatore di essa, l’essere che chiama la sua storia storia del mondo! Vanitas vanitatum homo]»(Nietzsche, Umano, troppo umano II. Il viandante e la sua ombra, af. 12).
Proveremo ad analizzare il modo critico il paradigma antropocentrico, sulla base di alcuni dei più recenti sviluppi delle scienze etologiche e biologiche. L’obiettivo è anche comprendere, alla fine del percorso, la natura e le modalità della mente umana come mente animale.

[La foto di Piazza Università fu scattata da me a fine aprile 2020. Sullo sfondo del tramonto le architetture vuote e solitarie appaiono inquietanti. Un’inquietudine e una tristezza dalla quale non siamo ancora usciti]

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