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Il ritorno degli dèi

Gli Dei ritornano. I bronzi di San Casciano
Reggio Calabria – Museo Archeologico Nazionale
A cura di Massimo Osanna e Jacopo Tabolli
Sino al 12 gennaio 2025

Sempre ritornano perché mai se ne sono andati. Nascosti nelle pieghe della dissoluzione umanistica, mascherati nei dogmi dei monoteismi, potenti dentro la Φύσις, sorridenti nella luce, gli dèi sono sempre con noi e accompagnano – distanti – coloro che riconoscono nella materia e nel cosmo il Tutto del quale l’umano è soltanto una parte, un epifenomeno, un gioco, un dramma.
Questo è il politeismo, che trascorre dunque subito in panteismo. Lo si vede bene nei bronzi che dall’estate del 2022 sono ricomparsi nel Bagno Grande di San Casciano dei Bagni, una località in provincia di Siena dove (come si legge nella scheda che il Museo di Reggio Calabria ha dedicato all’evento) uno scavo stratigrafico ha portato alla luce «il più grande deposito di statue in bronzo di età etrusca e romana mai scoperto nell’Italia antica e uno dei più significativi di tutto il Mediterraneo. Riproduzioni di parti anatomiche, offerte per chiedere alle divinità la salute o ringraziare di una guarigione, e statue realizzate secondo i canoni della cosiddetta mensura honorata (alti tre piedi romani, equivalenti a circa un metro), che raffigurano le divinità venerate nel luogo sacro o i fedeli dedicanti. La gran parte di questi pregevoli reperti si data tra il II e il I secolo a.C., un periodo storico di grandi trasformazioni che vede la definitiva romanizzazione delle potenti città etrusche».
Tutto questo costituiva la vita di un antico santuario posto nella città-stato etrusca di Chiusi, luogo che dal III secolo a.e.v. al V secolo e.v. ebbe nell’acqua sacra il principale elemento identitario.
Compare dunque davanti al visitatore la potenza dell’acqua che ha conservato questi bronzi come il mare ha fatto con quelli di Riace, l’acqua delle fonti che Servio afferma giustamente essere sempre sacra; 

compare la gratitudine verso gli dèi che spingeva i pagani a dedicare loro statuette, parti anatomiche, gioielli; compare la potenza del fulmine che indicò agli umani di quelle terre dove seppellire i loro bronzi per onorare il dio che si era mostrato; 

compare la potenza di questo dio, che è Zeus ma è anche Apollo «arciere dall’arco di argento» come lo chiama Omero; compare ovunque un significato totale della vita. Totale e disincantato, luminoso e tragico.

L’antropocentrismo monoteistico dei figli di Mosè, dei nazareni, dei maomettani ha tolto senso al mondo relegandolo nel dio unico, padre assoluto e signore feroce, generando così il problema ecologico dato dalla distruzione dell’οἶκος, la comune casa dei viventi. Tracce del politeismo si scorgono ancora per fortuna nel Cattolicesimo Romano, con il suo culto per i santi, alle cui guarigioni continuano a essere dedicati gli ex voto. Sono, queste, flebili tracce di una comunanza e consolazione che intesseva le vite degli antichi.
I quali anche per questo potevano generare la stupefacente armonia e bellezza dei due Bronzi che dominano lo spazio del Museo Archeologico di Reggio Calabria. 

Visibili anche dalla piazza centrale dell’edificio, giustamente dedicata all’archeologo Paolo Orsi, e poi accoglienti nella sala a essi soltanto dedicata, questi dèi in forma umana sono un emblema limpido e chiarissimo della filosofia greca, del suo superamento di ogni umanesimo nel momento stesso in cui sembra celebrarlo, della metamorfosi della materia – il bronzo – in elemento sacro, della vittoria delle forme su ogni barbarie e bruttura. Accostarsi a queste due entità vuol dire avvicinarsi al dio.
Il museo della città magnogreca accoglie nei suoi spazi migliaia di reperti di varia natura, epoca, fattura, invitando a un percorso dentro la vicenda della Μεγάλη Ἑλλάς, della Grecia oltre la Grecia con la quale gli Elleni donarono al Mediterraneo luce.

Nella piazza di ingresso del Museo è attualmente allestita un’esposizione di opere contemporanee. Tra queste i Guerrieri di Filippo Balice (2024) coniugano le forme arcaiche e gli stilemi di oggi, rendendo ancora una volta vivo l’antico, che mai è morto.

Usciti dal Museo, l’ampio lungomare di Reggio Calabria offre allo sguardo i due mari che si incontrano, l’Etna che sta, la luce senza fine del Mediterraneo.

Lampadine fulminate

«Le lampadine dell’Illuminismo si sono fulminate». Così inizia una riflessione di Eugenio Mazzarella sui patetici avvenimenti parigini di questi giorni (Il Fatto Quotidiano, 30.7.2024; cliccare sull’immagine dell’articolo per leggerlo più comodamente). L’intero articolo è segno dell’intelligenza, della παρρησία, dell’ironia di un Maestro del quale sono orgoglioso di essere stato ed essere allievo.
Condivido certamente il richiamo alla libertà rivendicato da Thomas Jolly, la cui «fantasia kitsch» ha ideato il LGBTQQIA+ pride parigino mascherato da Giochi Olimpici. Ho infatti sempre spinozianamente sostenuto il diritto di assoluta libertà di espressione da parte di chiunque e su qualsiasi tema.
Tale libertà deve dunque valere per tutti: per Jolly che prende in giro la fede cristiana o ellenica; per chi prende in giro i terroni (quale io sono) senza per questo essere poi accusato di antimeridionalismo; per chi prende in giro i gay e i vari LGBTQQIA+ senza essere accusato di omofobia; per chi prende in giro gli islamici senza essere accusato di islamofobia; per chi prende in giro gli ebrei senza essere accusato di antisemitismo; per chi prende in giro i negri o gli asiatici senza essere accusato di razzismo.
Siamo d’accordo?
Jolly si è poi difeso affermando che quella da lui ideata e inscenata sarebbe «…una grande festa pagana legata agli dei dell’Olimpo, e dunque all’Olimpismo». L’ignoranza mostrata da tali ‘creativi’ diventa a questo punto imbarazzante. L’olimpismo non è legato «agli dèi dell’Olimpo» ma alla città di Olimpia, sede dei giochi della Grecia antica. Dioniso è il sorriso sacro e implacabile, non è una drag queen. Auspico che questa gente decida una buona volta di ispirarsi soltanto ai divi hollywoodiani e alle mitologie statunitensi, del tutto consoni alla sua Stimmung, e lasci in pace gli dèi delle religioni mediterranee.
Sperando che né Veneri né Cupidi, né yankee né giornalisti abbiano a risentirsi, e tantomeno a piangere, cittadino Emmanuel Macron bevi un bicchiere.

Mediolanum

Le vie dell’acqua a Mediolanum
Museo Archeologico – Milano
Sino al 2 giugno 2024

Milano è davvero Mediolanum, una città in mezzo alle terre ma soprattutto in mezzo alle acque. Venne pensata e costruita sin da subito proprio a metà tra il fiume Adda, i laghi a nord e il Ticino e il Po a sud, in un punto nel quale convergevano anche una serie di corsi d’acqua minori.
La sua falda freatica è talmente poco profonda che uno dei problemi degli ingegneri che progettano le abitazioni milanesi è costruire delle fondamenta che non siano invase subito dall’umido e dall’acqua. In epoca romana e medioevale Milano non ebbe bisogno di acquedotti, che pure erano il vanto dell’architettura romana. In questa città, infatti, l’acqua converge, arriva, si distribuisce quasi da sé. Come accade, in alcuni luoghi di più in altri di meno, in tutta la pianura padana. A conferma che le notizie terroristiche sulla siccità per l’agricoltura, in queste terre sono appunto per lo più terroristiche, parte di una narrazione climatica rivolta non ai dati scientifici e alle situazioni di fatto ma a una emergenza perenne, apocalittica (e dunque complottistica) e senza fine. Questa mostra che si distende sui millenni lo conferma anche attraverso una mescolanza continua e vivace tra varie dimensioni e livelli della vita collettiva.
La dimensione urbanistica disegna il quadro sempre chiaro della forma urbis, mostra molte testimonianze relative alle Terme Erculee (in onore dell’imperatore Massimiano), documenta con fotografie, immagini e schemi dei luoghi nei quali sono stati ritrovati molti reperti e strutture idriche: l’attuale Piazza Meda e via Calatafimi. L’immagine qui sotto si riferisce appunto agli scavi in questa seconda zona.

Scavi archeologici in via Calatafimi – Milano

La dimensione propriamente archeologica si implementa in centinaia di testimonianze di cultura materiale come pozzi, bacinelle, bottiglie, canali, rubinetti, statue delle ninfe e degli dèi dell’acqua, monete, gioielli. Nell’immagine un piccolo rubinetto in bronzo a forma di galletto.

Rubinetto – scavi archeologici Milano

La dimensione teologica vive in oggetti e circostanze che fanno dell’acqua il necessario veicolo di purificazione, sempre presente nei momenti sacri della vita individuale e collettiva. L’immagine raffigura un piccolo altare con un Caronte che trasporta i morti nell’Ade; nel lato opposto è scolpita, in greco, la dedica «Agli dèi sotterranei».

Altare con Caronte

La ninfa scelta per la locandina della mostra (la si vede nell’immagine di apertura) è una scultura degli inizi del III sec. e.v. e costituiva parte dell’ornamento di una fontana.
In universale, il rapporto tra le acque e le città è ben indicato da Plinio nel capitolo 36 della sua Storia naturale: «Se si considera attentamente l’abbondanza delle acque che l’acquedotto fornisce alla comunità (bagni, piscine, canali, case, giardini, ville di periferia) e le distanze percorse dal flusso dell’acqua, nonché gli archi che si sono costruiti, le gallerie che si sono aperte, le forre che si sono spianate, si riconoscerà che nulla può essere esistito di più grandioso in tutto il mondo».
Nel XIII secolo, nel suo Elogio di Milano, Bonvesin de la Riva ricorda le numerosissime fontane e fonti idriche delle quali la città era piena. Sino agli inizi del Novecento Milano era ancora una visibilissima città d’acqua intessuta di navigli, laghetti e canali, che vennero poi progressivamente coperti durante il Ventennio fascista e sino agli anni Sessanta del Novecento. Con un miglioramento, forse, igienico ma con un grave impoverimento della sua identità che la faceva somigliare un poco ad Amsterdam. Le acque per fortuna comunque non mancano. Vicino a dove abito c’è un Parco («delle Cave») al cui interno scorrono molti ruscelli e si apre un lago abitato da pesci e  uccelli acquatici.
Questa dimensione fluviale contribuisce alla bellezza di Milano che oggi è servita da 580 pozzi, 33 stazioni di pompaggio, 644 fontanelle, 52 case dell’acqua, 2.250 km di rete di distribuzione, 243, 5 milioni di m3 d’acqua prelevata dalla falda, due grandi poli di depurazione (efficienti, non compro mai acqua minerale e bevo quella – ottima – che esce dai rubinetti di casa).
Pindaro ha ragione: nulla è prezioso per gli umani come l’acqua, della quale è costituito in gran parte il loro stesso corpo.

Pannello di apertura della mostra “Le vie dell’acqua a Mediolanum” – Museo Archeologico di Milano, 2024

Fare luce

Lux in arena
Le lucerne e il mondo dei gladiatori

Antiquarium Alda Levi – Milano
A cura di Anna Maria Fedeli e Alberto Bacchetta
Sino al 23 dicembre 2023

Fare luce è sempre stata un’esigenza degli esseri umani, i quali sono animali diurni che hanno bisogno di luce, che amano la luce, che vengono spaventati dal buio e che sono sensibilissimi a ogni variazione dei colori, dell’intensità luminosa, delle ombre, dei chiaroscuri. La pittura è espressione di tale natura, così come la fotografia, le mitologie e le religioni, che nella luce hanno il loro cardine e la loro metafora prediletta.
Fare luce serve a muoversi nello spazio senza urtare, inciampare, cadere, farsi male. Nelle città romane, e antiche in generale, non esisteva qualcosa di analogo alla «illuminazione pubblica» e quindi bisognava muoversi di notte per le strade con delle torce resistenti e durature. E in casa bisognava accendere candele, bracieri e soprattutto lucerne di terracotta distribuite ovunque nelle stanze, poste sui mobili, sospese tramite catenelle a supporti di legno, bronzo, ancora di terracotta (candelabra) o collocate in nicchie alle pareti appositamente costruite a questo scopo. Più grande era l’ambiente, soprattutto quelli pubblici, più fonti di luce erano necessarie. Un mondo che fra il tramonto e l’alba viveva in una costante penombra e forse per questo capace di apprezzare in modo più definito e consapevole sia la luce del Sole sia lo splendore della volta celeste e della Luna.
Inserisco qui sotto la foto di uno dei pannelli che guidano il visitatore della mostra milanese alla scoperta e conoscenza di questi oggetti umili, economici e veramente indispensabili. Nella chiusa si dice che la lucerna accompagna anche i morti (per ingrandire basta cliccare sulle immagini).

La mostra raccoglie numerose lucerne di varia fattura, produzione, simbolo e significato. La numero 16 che si vede qui sotto raffigura un soldato vincitore. Molte altre simbolizzano momenti di guerra e specialmente scene di giochi gladiatori. Il successo dei giochi nella civiltà romana era enorme. Lo testimonia non soltanto questa mostra ma l’intero luogo che la ospita. L’Antiquarium Alda Levi è infatti una sezione del Museo Archeologico di Milano, sezione costruita vicino a ciò che resta del grande Anfiteatro Romano, che si trovava a sud-ovest della cinta muraria e che venne utilizzato con passione dalla sua costruzione ( I secolo e.v.) al declino del mondo antico.

L’Anfiteatro non è attualmente visitabile perché sono in corso ulteriori scavi che dovrebbero, alla loro conclusione, far percepire meglio la grandiosità di questa struttura che oggi si trova nel centro della città (il Duomo è raggiungibile in un quarto d’ora a piedi). Il Museo è invece aperto, documenta la storia della Milano antica dall’età del ferro al V sec. e.v. e raccoglie soprattutto testimonianze relative all’utilizzo dell’Anfiteatro per i giochi gladiatori. Preziosa e rara è una stele con la quale la famiglia di un valente gladiatore, Urbicus, ricorda il congiunto con orgoglio e affetto.
Le testimonianze di cultura materiale danno l’impressione di poter toccare il passato, che il passato sia vivo, che il passato sia ancora tra noi con questi oggetti e con i loro significati. Ad esempio, ceramiche (anche in vetro e medioevali, non soltanto antiche), anfore, strumenti musicali, gioielli. Oltre che naturalmente lucerne. Davvero raro è un pavimento in malta anch’esso del I sec. e.v., scoperto in via Cesare Correnti e che dalla foto può essere scambiato anche per un dipinto astratto.

Molti oggetti provengono, come sempre, dalle necropoli, soprattutto manufatti legati all’ambito del sacro, che venivano spezzati per evitare che oggetti appartenuti a una divinità potessero essere riutilizzati dagli umani, dai mortali. Anche questo significa rispetto del Sacro. Una sacralità pervasiva perché immanente, assai diversa dalla desacralizzazione portata dal cristianesimo nel mondo antico.
Un cattolico ultratradizionalista, Thomas Molnar, afferma con compiacimento che «il cristianesimo, dovunque penetri – e in primo luogo nel mondo greco-romano – procede ad uno svuotamento (e de-mitizzazione) del cosmo panteista, pagano» Un pagano contemporaneo, Alain de Benoist, lo conferma: «La scomparsa del sacro va messa direttamente in rapporto con l’espandersi di una religione giudeo-cristiana caratterizzata dall’identificazione dell’essere con Dio, dalla dissociazione dell’essere dal mondo e dal ruolo particolare assegnato alla ragione» (entrambe le affermazioni si leggono in L’eclisse del sacro, a cura di G. Del Ninno, Edizioni Settecolori, Vibo Valentia, 1992, rispettivamente alle pagine 21 e 115).
Il Sacro raccoglie l’umano e il divino come parte di un insieme che non li confonde e non li separa. Dove invece essi si scindono, inizia la devastazione. La devastazione ebraica e cristiana che in luoghi come l’Antiquarium milanese appare invece così lontana, così improbabile.

Cosmologia / Medea

Recensione a:
Aa. Vv.
Cosmos?
Numero 54 di Krisis, octobre 2022
Pagine 142
in il Pequod , anno IV, numero 7, giugno 2023, pagine 196-199

L’ipotesi dell’eternità della materia/universo è confermata dalle critiche sempre più diffuse e argomentate che va ricevendo il modello (ancora) standard del cosiddetto Big Bang, il quale delineerebbe una problematica singolarità, impossibile da comprendere e persino da studiare sulla base delle leggi conosciute e dei metodi di indagine scientifici. Il tentativo perseguito da più parti di unificare la relatività generale e la fisica quantistica ha tra le sue condizioni e conseguenze il superare questa singolarità, riaffermando «l’éternité du temps passé, éliminant ainsi la problématique notion théologique de ‘cause première’» (Luminet).
A fondamento delle cosmologie antiche sta l’ipotesi realistica fondamentale, quella che non fa dipendere l’esistenza e le modalità del cosmo dalle percezioni, azioni e calcoli di una sua infima e inconsistente parte: noi. Dismisura che invece sta a fondamento della interpretazione di Copenhagen della fisica quantistica. Davvero ogni idealismo così come «la pensée constructiviste s’est développée à partir du sophisme anthropocentriste (la proclamation de Protagoras selon laquelle ‘l’homme est la mesure de toutes choses’)» (Jure Georges Vujic).

In questo assai ricco numero del Pequod è stata pubblicata anche una analisi a più voci del mito di Medea e della sua messa in scena, con la regia di Federico Tiezzi, quest’anno a Siracusa. Ho avuto il piacere di scriverne insieme a Sarah Dierna, Marco Iuliano, Enrico Palma, Marcosebastiano Patanè:

La selvaggia passione: Medea 2023 a Siracusa
Pagine 177-184

«Medea si presenta intrisa da un afflato profondamente antinatalista. Alla maniera lucida, consapevole e ‘passiva’ – per usare la categoria di Lachmanová – dei Greci naturalmente. […] Nella tragedia l’antinatalismo traspare nei gesti e nelle parole di Giasone, della moglie, della Nutrice, del Pedagogo e del Coro ma trasuda insieme dalle sciagure stesse di cui i mortali sono vittime e facitori. […]
Così canta il Coro:

E affermo che tra i mortali/ coloro che non hanno mai fatto esperienza di figli/ e non ne hanno mai generati/ sono più felici di chi ne ha messi al mondo. / Chi è senza figli, poiché non ne ha esperienza, / non sa se sia gioia o tormento l’averne, / proprio perché non gli sono capitati, / e così sta alla larga da molte inquietudini. / Ma chi ha nella sua casa il dolce germoglio di figli, / costoro li vedo sfiancati dalle preoccupazioni per tutta la vita: / innanzitutto su come crescerli bene e come lasciare loro di che vivere. / Poi, non è sicuro se si diano tanta pena / per figli che non valgono nulla o per figli eccellenti. / E dirò anche di una sciagura che è la peggiore per tutti i mortali: / ammettiamo che abbiano di che vivere, e siano nel fiore della giovinezza, e siano eccellenti. / Ma se così decreta il destino, / ecco che arriva la Morte e si avvia giù nell’Ade, / trascinando via i loro corpi.
(vv. 1090-1111, trad. di Angelo Tonelli)

E allora ‘tre volte meglio stare in armi che partorire anche una volta sola’ (v. 251, trad.  Tonelli). Solo in Euripide capita di leggere con così tanta onestà la sciagura insita nell’atto del generare che non si lascia intenerire dalla tenera prole già venuta al mondo».

La recensione e l’articolo dedicato a Medea sembrano una conferma di quanto affermato da David Herbert Lawrence nel 1931 in Apocalypse, citato da Ernesto De Martino nel suo capolavoro sulle apocalissi culturali:
«Forse la più grande differenza tra noi e i pagani sta nella diversità di rapporti col cosmo. Per noi tutto è personale. Il panorama che possiamo contemplare e il cielo non servono che da delizioso sfondo per la nostra vita personale. Persino l’universo della scienza si riduce a noi a poco più che una mera estensione della nostra personalità. Per il pagano il paesaggio e lo sfondo personale erano dopo tutto indifferenti, ciò che era invece reale era il cosmo. L’uomo viveva nel cosmo, consapevole della maggior grandezza del cosmo nei suoi confronti. […] Il nostro sole è cosa assai diversa dal sole cosmico degli antichi, è qualcosa di molto più banale. Noi possiamo vedere ciò che chiamiamo sole, ma abbiamo perso per sempre Helios e ancor più il grande disco dei Caldei. […] Questa è la nostra principale tragedia. Che cos’è il nostro meschino amore per la natura – la natura cui ci si rivolge come a una persona – al paragone di quel sublime vivere-col-cosmo ed essere-onorati-dal-cosmo!»
(La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi 2019, pp. 379-380).

Politeisti semantici

Il mito è conoscenza ma non è solo conoscenza. Il mito è teologia ma non è solo teologia. Il mito è specialmente racconto, è l’arte del racconto, è il racconto che produce mondi, credenze, significati.
Anche per questo «qualsiasi esposizione della mitologia è una interpretazione»1, poiché è il mito in se stesso – e non soltanto nei suoi lettori e inventori – a essere un oggetto cangiante, metamorfico, ermeneutico.
Di ogni dio si raccontano storie diverse, anche molto diverse. Di ogni nome del dio si danno differenti origini, interpretazioni, significati. Di ogni racconto esistono una molteplicità di versioni, sviluppi, soluzioni. Un esempio è Marsia, il satiro che sfidò Apollo nella musica e che, sconfitto, venne scuoiato dal dio a causa della sua ὕβρις. In un saggio assai bello Elvia Giudice ipotizza e descrive «una storia diversa, in cui Marsia, sconfitto da Apollo nell’agone auletico e risparmiato dal dio per intercessione di Athena (?), avrebbe riconosciuto le ragioni del rivale, assumendone lo strumento e sposandone la causa: la supremazia della citarodia su tutte le altre forme d’arte musicale»2.
Nel mito vive una molteplicità ermeneutica che lascia ammirati e stupefatti. Perché i Greci erano davvero dei politeisti semantici, credevano che nulla potesse fermarsi, avere un solo volto, diventare verità per sempre uguale, dogma.

Il Mare, la Notte, la Terra stanno all’origine di tutto. In principio – questo afferma il colto narratore greco al quale Kerényi dà voce e presta erudizione – «esisteva la Notte: nella nostra lingua essa si chiamava Nyx, una delle più grandi dee anche secondo Omero, una dea davanti alla quale perfino Zeus provava un sacro timore» (p. 26, con riferimento a Iliade, XIV, 261). Da questa notte sconfinata e potente si generarono il Cielo e la Terra; dalla loro unione il Tempo; e dal Tempo la Luce, Zeus, il dio la cui potenza, i cui figli, le cui sapienti alleanze garantirono il trionfo contro le forze più antiche e più oscure, l’avvento di un ordine comunque sempre precario, violento e cangiante, poiché precaria, violenta e cangiante è la vita stessa delle cose e della materia.
La Morte, che su tutto domina e ogni cosa aspetta, seppe darsi la figura più lieta, più desiderata, più potente: l’Amore. Soltanto perché la passione amorosa vince sui mortali, essi generano enti simili a sé, altre cose destinate e morire. «Le Sirene servivano la morte» (58). Afrodite, nata nel Mare dallo sperma insanguinato del Cielo, è una divinità d’amore e una divinità di morte. E anche per questo «l’Afrodite nera può stare altrettanto bene a lato delle Erinni, tra le quali essa viene pure contata» (73-74). Afrodite domina su tutti gli animali (umani compresi) e su tutti gli dèi (tranne Atena, Artemide ed Estia). Essa costringe persino Zeus a desiderare donne mortali, ad amare anche la propria sposa-sorella Era e poi una miriade di donne, di enti, di forze, con le quali si unisce nei modi più impensati e fantasiosi e dalle quali genera altre forze, eroi, dèi.
Le Erinni e Afrodite limitano e compiono il potere di Zeus, della Luce. Le Erinni anch’esse generate dalle gocce di sangue di Urano. Le Erinni figlie della Notte, della Terra, dell’Oscuro.

Il politeismo narrativo, le continue metamorfosi, le trasformazioni, il diventare e il tempo generano racconti vorticosi, producono nomi, celebrano matrimoni, fioriscono figli, si trasformano in stelle, nel continuo catasterismo della religione greca che colloca nella notte stellata molti personaggi rendendoli così immortali e insieme visibili.
Una delle più belle costellazioni invernali, Orione, è appunto un catasterismo, insieme al suo cane, allo scorpione che lo ha punto, agli altri animali dei quali il cacciatore primordiale va sempre all’inseguimento, ogni notte.
Il politeismo narrativo inventa la vergine madre ben prima che lo facesse la saga biblica; la storia delle nozze di Atena narra infatti che la dea «non perdette la sua verginità, ma dopo le quali [nozze] affida ugualmente un bambino alle figlie di Cecrope, re della sua amata città di Atene» (107).
Il politeismo antropologico attribuisce a disgrazia la donna (come accade anche in Genesi), tanto da definire Pandora, plasmata da Zeus per punire Prometeo e gli umani, con la formula di un «bel male […] insidia pericolosa, di fronte alla quale gli uomini sono inermi. Da essa discende la generazione delle donne. Un male di cui gioiranno, circondando d’amore ciò che costituirà la loro disgrazia» (182).
Il vortice narrativo arriva al suo culmine nell’unione di Zeus con Persefone, figlia sua e di sua madre Rea o forse di Demetra (Diodoro Siculo, 3, 64. 1); unendosi alla figlia Zeus generò Dioniso, nella prima delle tre nascite del dio; «entrambi gli dèi, Zeus, il seduttore di Persefone, e Dioniso, figlio dei due, portavano anche il nome Zagreo» (101).

Dioniso è il culmine, è il fascino, è il dio smembrato e divorato dalle forze oscure ancora potenti, punite e rese fumo da Zeus. Da tale caligine fummo generati noi, gli umani, che dunque siamo tenebra titanica e luce dionisiaca.
I racconti di Dioniso che rende vani gli sforzi dei pirati di rapirlo, trasformando la loro nave in una vite e loro in delfini; di Dioniso che punisce tremendamente Penteo facendolo sbranare dalla sua stessa madre; di Dioniso che nasce ancora due volte da Semele e dal proprio cuore/fallo bollito, tutto questo è la meraviglia ironica, serissima e cosmica che fa del mito greco la spiegazione più profonda e cangiante del mondo profondo e cangiante nel quale abitiamo e che siamo.

Note
1. Károly Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia (1951-1958), trad. di Vanda Tedeschi, il Saggiatore 1963, p. 17. Indicherò tra parentesi nel testo i numeri di pagina delle successive citazioni.
2. Elvia Giudice, Il Cratere del Pittore di Cadmo 1093: pittura vascolare e società, in Ostraka. Rivista di antichità, anno XXX. Numero 21, 2021, p. 72.

Gli dèi a Milano

Recycling Beauty
Fondazione Prada  – Milano
A cura di  Salvatore Settis e Anna Anguissola con Denise La Monica
Sino al 27 febbraio 2023

Il dinamismo di Milano è sempre stupefacente. Luoghi che scompaiono, altri che nascono, più spesso spazi che si trasformano. Una città ovidiana, la cui metamorfosi è costante e, certo, non sempre apportatrice di bellezza e di senso. Le trasmutazioni realizzate nei luoghi dell’archeologia industriale sono tra le più riuscite. Così, a nord di Milano l’antica cittadella della Pirelli è diventata il quartiere Bicocca con Auditorium, Università, lo Hangar che ormai è un luogo classico dell’arte contemporanea. A sud alcune delle fabbriche intorno allo scalo ferroviario di Porta Romana sono diventate dal 2015 la Fondazione Prada. E qui l’antico e il contemporaneo si sono incontrati in una scintilla d’energia che è la mostra Recycling Beauty. 

Nello spazio aperto e vastissimo del Podium e in quello verticale e labirintico della Cisterna il passato  classico e rinascimentale diventa un presente mobile e cangiante, che – nei frammenti che lo compongono – disegna la potenza dell’antico; esprime la sua calma e la forza; innesta in molte sculture materiali di età moderna nelle parti antiche; crea delle esplicite imitazioni rinascimentali di opere venerate e verso le quali il rispetto, la nostalgia, l’ammirazione si volgono quasi nell’invidia di non poter raggiungere la medesima luce che i Greci e i Romani riuscirono a essere.
È pervasivo e molteplice infatti il riutilizzo materiale e formale dei marmi, dei bronzi, dell’εἶδος di cui è fatta l’arte dei pagani. Numerose tra le opere esposte sono diventate cristiane e qui il riutilizzo diventa vitale, essenziale, funzionale all’esistenza, al significato, alla sopravvivenza stessa di quella religione. Appare infatti assai evidente che senza i Greci e i Romani il cristianesimo sarebbe stato soltanto una setta di fondamentalisti esaltati e violenti.
Il prezzo, assai oneroso, pagato dal cristianesimo per sopravvivere è ben espresso nella ricostruzione – qui realizzata per la prima volta – della colossale statua di Costantino, l’imperatore che fece uccidere il suo primogenito, Crispo e fece morire la moglie Fausta bollendola in una vasca. I sacerdoti pagani si rifiutarono di purificare l’imperatore per questi delitti mentre quelli cristiani lo assolsero. Da allora Costantino difese il cristianesimo ma la statua enorme che si fece costruire, sostituendo il volto di Giove con il proprio, conferma come l’infausto imperatore che impose il cristianesimo a Roma era e rimase un pagano, immerso però ormai nella ὕβρις, nell’eccesso che in questa statua  – alta 11 metri occupando due piani di un edificio  – diventa plasticamente evidente. Eccesso che fu uno degli elementi della nuova religione giunta al potere a Roma.

I due grandi spazi nei quali la mostra è distribuita testimoniano il fascino del mondo antico ma soprattutto la sua presenza, la sua ininterrotta fecondità per chi vuole comprendere il mondo e ama, semplicemente, la bellezza.
Sentimenti e concetti che emergono in particolare di fronte alla Minerva Orsay che dal I-II secolo dell’era volgare venne negli anni Trenta del Seicento restaurata dandole mani, piedi e testa di bronzo, a loro volta sostituiti con marmo nel 1776 mentre il corpo della dea riluce sempre di onice dorato. Atena diventa così l’intelligenza fatta di pietra, di alabastro e di magia.

E poi un trono dedicato a Dioniso, proveniente da un teatro greco e che divenne un sedile dei Papi romani.

Un’altra opera affascinante ed emblematica del significato e delle intenzioni della mostra è il Leone che azzanna un cavallo, probabilmente parte di una vasta opera scultorea dedicata ad Alessandro il Grande, che dal IV sec. a.e.v. fu portata a Roma e poi durante il Medioevo posta nel Campidoglio a simboleggiare ancora la potenza della città eterna.

 

Un terzo spazio della Fondazione, la Torre, ospita invece in modo permanente opere e installazioni dell’arte contemporanea. Gli esiti sono, come sempre in questi casi, assai diversi tra di loro. Non mancano le ripetizioni, le imitazioni passive, il semplice mestiere travestito da talento ma si può anche entrare in contatto con alcuni dei modi d’arte emblematici del presente, tra tutti il gigantismo di Jeff Koons, i cui enormi tulipani che adornano il Museo Guggenheim di Bilbao si ritrovano anche in una delle sale di Atlas, la denominazione che è stata data alla raccolta ospitata nella Torre.

Questa Torre è un edificio dal quale lo sguardo si estende e si amplia verso l’orizzonte della città che mai si stanca di mutare, di essere viva. Come vivi sono gli dèi che sorridono anche del loro riciclo.

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