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Death of the Future

Japan. Body_Performer_Live
PAC Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Shihoko Iida e Diego Sileo
Sino al 12 febbraio 2023

C’è un manierismo nell’arte contemporanea a volte assai banale ma che in questa antologia di artisti giapponesi esprime anche un senso di inquietudine, di disperazione, di guerra. Come se davvero vivessimo un qualche post della catastrofe, un al di là del senso e del significato.
Chilaru Shiota documenta i propri inizi con Bathroom, un video nel quale la si vede immersa nel sudiciume, trasformata in impasto di materia dentro una lurida vasca da bagno, diventata corpo confuso con grumi di sporco. Invece il recente Corpo vuoto è un’elegante e inquietante installazione che occupa un’intera sala, dentro la quale la realtà si spezza e si moltiplica mediante una resa materica, tridimensionale, della percezione.

(Chilaru Shiota – Corpo vuoto)

Dumb Type è il nome di un collettivo nel quale la scrittura si fa letteralmente luce, diventa opera.
Makoto Aida frantuma con il sarcasmo le figure mediatiche del potere. In un video Osama Bin Laden dichiara di essersi nascosto in Giappone, di gustare il cibo giapponese e soprattutto di apprezzare molto gli alcolici; infatti appare decisamente brillo e dichiara «Paese strano questo, dove un idiota riesce a diventare primo ministro»; un altro video presenta un oratore che somiglia al primo ministro Shinzo Abe che getta via il discorso che ha preparato e comincia a denunciare le malefatte degli Stati Uniti d’America.
Mari Katayama è un’artista priva della parte inferiore delle gambe. Lei si fotografa così com’è, con le protesi o senza, in pose quotidiane o, più spesso, raffinate e sensuali. Si installa in questo modo nello spazio dei sensi, dell’acqua, di una bellezza metamorfica. Sono suoi anche dei resti di conchiglie, come relitti di un naufragio.
L’opera più dirompente ed emblematica della tonalità dell’intera mostra è forse We Mourn the Death of the Future di Meiro Koizumi (immagine di apertura), un coinvolgente e tragico video di un mantra/rosario di seppellimento. Tra le frasi che scorrono mentre l’azione accade, c’è questa: «Non sono ancora nato ma sono già morto».
Attraverso le opere, le idee, le installazioni, le performance di questi e di altri artisti (Finger Pointing Worker/Kota Takeuchi, Yuko Mohri, Saburo Muraoka, Yoko Ono, Lieko Shiga, Kishio Suga, Yui Usui, Ami Yamasaki, Chikako Yamashiro, Fuyuki Yamakawa, Atsuko Tanaka, Kazuo Shiraga) l’Occidente/Oriente che il Giappone è diventato mostra un rigore formale, un inquietante senso della catastrofe, la rinuncia a ogni illusione, un ultimo gesto di consapevolezza e di creazione.

 

Prostituzione

Ri-scatti. Per le strade mercenarie del sesso
Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Diego Sileo
Ottobre 2020

I falò, il trucco, i tacchi, la monotonia, la finzione.
Immagini di pezzi di carne, polipi, crostacei. Il corpo divorato e consumato.
Il freddo, le figure nell’ombra e nei silenzi.
Gli oggetti: ombrelli, borsette, bottiglie, patatine.
Le strade, insieme troppo vuote e troppo piene.
Carnefici e vittime inseparabili, intercambiabili, complici.
Reclutatori nei Paesi d’origine, madame, fidanzati, clan familiari.
«Simile all’organizzazione albanese, il racket rom ha come sovrani indiscussi i compagni/uomini delle vittime».
La prostituzione, in particolare quella esercitata sulle strade e sotto la minaccia costante di gruppi di connazionali e di altre donne, è una delle espressioni più chiare e degradanti della schiavitù che pervade società che si guardano allo specchio e si dicono: «Come siamo belle. Siamo nate da Liberté, Égalité, Fraternité; i nostri avi sono i buoni cristiani che ci hanno tutti proclamati figli dell’unico Dio; i nostri eredi non utilizzeranno più termini discriminanti e crudeli come ‘studente’ preferendogli l’assai più inclusivo ‘studente/studentessa’ o, meglio ancora ‘student*’ e lo stesso accadrà per le altre terribili forme di violenza lessicale contro la donna. Siamo una società di individui emancipati e delicati. Siamo liberi».
Intanto, là sulle strade, delle ragazze vendono se stesse sotto il dominio assoluto delle mafie italiane, nigeriane, slave, rom. Ma ricordarlo non è solidale, non è inclusivo, non è avanzato, non è progressista.

 

Santi e sinestesie

Performing PAC. Made of Sound
Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
Sino al  13 settembre 2020

La mostra si apre con un video di Laurie Anderson che nel 2003 suona al Pac un violino elettronico dal quale ricava le sue note antiche e nuove. I video e le installazioni degli altri cinque artisti sono in qualche modo sotto il segno di questo incipit.
Invernomuto –Vers l’Europa deserta, Terra Incognita, 2017– racconta luoghi e persone mediante inquadrature che svelano lentamente e caoticamente gli ambienti. Troppo caoticamente però e la narrazione è stanca, già vista, ripetitiva.
Pamela Diamante –Generare corpi celesti / Esercizi di stile, 2020 (musica di Marco Malasomma) e Note, 2017– porta a ulteriore esasperazione la tendenza manierista di non pochi esperimenti visuali ma è comunque l’unica tra gli artisti presenti a proporre qualcosa che sia anche pittura: due fregi seriali ripetuti come brani.
Barbara and Ale –The sky is falling, 2017– disegnano il bianco del suono sul vibrato del paesaggio fatto di nuvole cupe, immobile ghiaccio, cime rocciose.
João Onofre –Untitled (N’en Finit Plus), 2010/11– filma un canto solitario dentro la terra.
L’opera più significativa e coinvolgente è di Jeremy Deller e Nick Abrahams: Our Hobby Is Depeche Mode, 2006. Le interviste, le parole, le esperienze, la malinconia, gli abiti, i canti di alcuni fan(atici) dei Depeche Mode vanno al fondo della cultura pop, della genesi degli idoli, della società dello spettacolo. I luoghi sono i più diversi: da Basildon (GB), città d’origine del gruppo, a San Pietroburgo, da New York a Mosca, dalla California alla Germania, da Bucarest all’Iran, da Berlino a Cambridge.
In Romania la scoperta dei Depeche Mode coincise con la fine del comunismo; i ragazzi rumeni parlano della «rivoluzione» che li ha aperti alla musica pop; anche in Iran i cultori dei Depeche Mode parlano di «rivoluzione» ma stavolta per indicare quella islamica, che invece alla musica pop ha posto il divieto. In Russia il culto della personalità è transitato da Lenin ai Depeche Mode, e questo dice molto sulla debolezza delle ideologie e sulla forza invece del desiderio. Il film fa luce sulla natura dei simboli, sul bisogno che gli umani hanno di venerare delle divinità molteplici, sulla saggezza quindi della Chiesa Romana che ha sussunto le divinità del politeismo nel suo pantheon di santi. Un elemento fondamentale delle fede cristiana, questo, che i protestanti non vogliono proprio capire e anche per questo le loro chiese sono ormai al fallimento.
I fedeli dei Depeche Mode spiegano il loro culto in molti modi. Parlano di «una musica per le persone sole»; «un senso di tragedia e di disperazione, una sensazione mistica»; «ci aiutano a vivere, ci aiutano a sopravvivere». Molte di queste persone tengono in casa degli altarini con i loro idoli. Uno mette dei fiori e brucia incenso sotto le foto dei DM. E il film stesso di Deller e Abrahams crea, mostra, documenta la comunità internazionale dei credenti nei Depeche Mode.
E questo conferma quanto scrive Gianni Vattimo: «Gli artisti […] non producono più, o producono sempre meno, oggetti belli che si possa desiderare di comprare, possedere, collezionare […] Si orientano sempre di più verso la produzione di ‘eventi’ – momenti di esperienza collettiva che sappiano coagulare emozioni condivise» (Introduzione all’estetica, a cura di L. Amoroso, ETS, Pisa 2010, p. 86) e conferma le tendenze profonde individuate da Giuseppe Frazzetto a proposito della continuità/differenza tra la cosiddetta arte e la cosiddetta vita: «L’anti-arte come identità fra arte e vita (col sottinteso dell’eliminazione di una differenza tra artista e non artista: la differenza costituita dalla competenza produttiva dell’artista)» (Artista sovrano. L’arte contemporanea come festa e mobilitazione, Fausto Lupetti Editore, Bologna 2017, p. 203).

Terre / Popoli / Confini

Australia. Storie dagli antipodi
Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Eugenio Viola
Artisti in mostra: Vernon Ah Kee, Tony Albert, Khadim Ali, Brook Andrew, Richard Bell, Daniel Boyd, Maria Fernanda Cardoso, Barbara Cleveland, Destiny Deacon, Hayden Fowler, Marco Fusinato, Agatha Gothe-Snape, Julie Gough, Fiona Hall, Dale Harding, Nicholas Mangan, Angelica Mesiti, Archie Moore, Callum Morton, Tom Nicholson (with Greg Lehman), Jill Orr, Mike Parr, Patricia Piccinini, Stuart Ringholt, Khaled Sabsabi, Yhonnie Scarce, Soda_Jerk, Dr Christian Thompson AO, James Tylor, Judy Watson, Jason Wing and Nyapanyapa Yunupingu.
Sino al 9 febbraio 2020

Nel 1770 il capitano inglese James Cook toccò le coste dell’Australia e ripetè il gesto del suo collega italiano Cristoforo Colombo, prendendo possesso in nome dei propri sovrani di una terra che era di altri ma che venne definita vuota, disabitata. Gli umani che la abitavano non contavano evidentemente nulla. La violenza contro i veri australiani –veri nel senso semplice ma fondamentale che abitavano quella terra da molto tempo prima che arrivassero gli occidentali– appare assai chiara nell’opera forse più politica di questa mostra: Salvado de Que? (2019) di Archie Moore. Si tratta di una grande bandiera verticale di colore blu, lo stesso colore della bandiera australiana, sopra la quale c’è scritto Salvado. Ai piedi della bandiera ci sono tracce di sangue. Il sangue dei popoli aborigeni che dal 1910 al 1970 videro molti dei propri figli sottratti ai genitori per essere educati al modo occidentale e nella fede cristiana. L’immagine qui sopra è invece di Khadim Ali (Untitled 2, dalla serie Fragmented Memories, 2017-2018) e costituisce un complesso tentativo di sintetizzare il passato e il presente dell’Australia, fatti anche di genocidi degli antichi abitatori.
Quando nessuno sarà più così buono e così filantropo da dedicarsi in questo modo alla salvezza degli altri  popoli, ad esempio con guerre democratiche e umanitarie, il rispetto e la libertà saranno meglio garantiti nelle vicende umane.
Quando nessuno sarà più così buono e così globalista da ignorare il fatto che Homo sapiens è un animale tanto nomade quanto fortemente territoriale, allora popoli e comunità eviteranno di farsi massacrare, sottomettere o sostituire come accadde agli accoglienti popoli centro americani con gli spagnoli, agli aborigeni australiani  con i britannici (i Native [2019] dell’immagine-parola di Tony Albert) e come può accadere all’Europa stoltamente ingenua del XXI secolo.
Ask us what we want, still (2019) di Jason Wing denuncia giustamente il furto di terra perpetrato da Cook, perché la terra, le proprietà, i confini, prima di essere delle astrazioni ideologiche costituiscono delle realtà antropiche. Chi non ne tiene conto è -appunto– o un ‘crook’, un criminale, o una vittima dei criminali. Per inciso, le attuali politiche sull’emigrazione della nazione australiana sono tra le più dure e severe al mondo: in pratica la quasi totalità di coloro che cercano di entrare illegalmente in Australia viene respinta e rimandata da dove è venuta. Per usare il linguaggio degli europei accoglienti, si tratta di un Paese dai tratti ‘fascisti’. E tuttavia i nostri bravi democratici non ne fanno parola. Forse perché quando è così lontano il ‘fascismo’ si scolora?
Insieme a quelle di Moore e Wing, il PAC ospita le opere di altri 30 artisti australiani contemporanei, dando la possibilità di conoscere la varietà e la ricchezza della cultura figurativa di quel Paese-Continente. Opere che si possono descrivere come un tentativo di tenere distinti ponendoli in dialogo tra loro concetti come paesaggio/artificio, autoctono/esterno, digitale/materico (ad esempio i power point di Agatha Gothe-Snape e gli scheletri costruiti con il vetro di Fiona Hall), corporeo/astratto (da una parte il corpo di Jill Orr che si mescola letteralmente e profondamente con la terra, gli alberi, gli elementi e dall’altra parte i segni arcaici di James Tylor).

Sullo sfondo, la coppia fondamentale costituita da natura/cultura, la cui esemplificazione più interessante sono i video e le fotografie di Maria Fernanda Cardoso –On the Origins of Art I-II (2016)-che documentano alcuni momenti della vita di un piccolo ragno australiano, Maratus (qui sopra). L’esistenza di questo animale è ragione sufficiente per mettere in discussione una delle tante convinzioni antropocentriche, quella che anche Karl Marx espresse nella sua nota affermazione secondo la quale «il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera» (Il Capitale, libro I, sezione III, primo capitolo ‘Processo lavorativo e processo di valorizzazione’). E invece le immagini di Cardoso mostrano il maschio di questo insetto corteggiare la femmina mediante danze, suoni, colori. Un cromatismo denso ed espressionistico, per il quale si potrebbe capovolgere l’affermazione marxiana e dire che c’è nella testa del ragno un’idea ricca e complessa che lo induce a produrre movimenti e a generare forme in vista di uno scopo che gli è chiaro prima che si metta in azione.
È pensata e agita l’armonia delle forme della quale è capace un qualunque maschio Maratus, la cui femmina deve evidentemente essere a sua volta capace di valutazione critica, potendo accettare o respingere le offerte erotico-artistiche del suo corteggiatore. Forse l’errore sta nella scala assiologica, nell’ossessione umana di costruire gerarchie di valori dove ci sono delle semplici differenze. Quelle per le quali la body art che gli aborigeni d’Australia hanno coltivato per millenni non è peggiore o migliore, ad esempio, dell’arte barocca. Sono entrambe delle coinvolgenti manifestazioni della natura poietica di Homo sapiens, del suo incessante costruire mondi intorno e dentro di sé. Anche Patricia Piccinini costruisce opere -come Kindred (parenti, affini, 2018)– nelle quali risaltano gli elementi di continuità tra la specie umana e gli altri primati, in questo caso gli orangutan.
Questo e molto altro, soprattutto i numerosi video di vari artisti, è detto ed espresso in forme e modalità che confermano come tutta l’arte contemporanea sia arte concettuale.

Manierismo del contemporaneo

Eva Marisaldi
Trasporto eccezionale

Milano – Padiglione d’Arte Contemporanea
A cura di Diego Sileo
Sino al 3 febbraio 2019

Nell’opera di Eva Marisaldi sembrano vivere i «tre stati dell’arte» dei quali parla Giuseppe Frazzetto in Artista sovrano. Marisaldi è infatti insieme artigiana e sovrana. E la sua opera può essere designata come artistica solo perché una comunità di critici, di colleghi, di istituzioni e di visitatori la riconosce in quanto tale. A Marisaldi si attagliano perfettamente le categorie di Frazzetto poiché nelle sue opere, chiara espressione e prosecuzione del ready-made, «balena l’opposizione fra il modello coltivazione/allevamento e il modello caccia/raccolta. Anziché agire seguendo la crescita, lo sviluppo, la ‘coltivazione’ (=cultura) l’artista del montaggio sembra porsi come un cacciatore/raccoglitore, operante su un territorio di materiali culturali già pronti» (Artista sovrano. L’arte contemporanea come festa e mobilitazione, Fausto Lupetti Editore 2017, p. 83).
Negli spazi del Padiglione d’Arte Contemporanea si susseguono infatti bracci meccanici guidati da software; post-it e carte da parati; lastre di Polaroid; piccoli oggetti simili a giocattoli e raffiguranti città che vanno da Siviglia a Tokyo, da Gallipoli a Miami, con relative piantine; calchi in gesso; (bei) disegni con sopra sassolini; specchi sul pavimento; disegni spray su tessuto; due cucchiai che combattono tra loro come antichi pupi; lampade rivolte alle pareti; polvere di ferro su una pedana magnetizzata; pantaloni semoventi nella polvere; quattro grammofoni con puntine di carta; oggetti-onda; finte insegne di taxi poggiate a terra e illuminate; stampe a getto d’inchiostro che mostrano il talento grafico dell’artista; lamiere e grandi stampe in alluminio; tende costruite con stampanti; cartoni e suoni di risacca su una spiaggia; scarafaggi di plastica qua e là.
I numerosi video mostrano carrozzine che si muovono da sole in un porto accanto al mare; iguane accompagnate da brani musicali; oggetti animati, in particolare sassi che sono presenti in varie installazioni; viaggi assemblati come videogiochi; autoscontri con al centro un attore accoccolato e la sua voce narrante; forme grafiche vagamente impressioniste.
Nella mostra c’è moltissima inventiva ma anche una scarsa innovazione. Ci si sente insomma immersi nel manierismo del contemporaneo. In ogni caso, e si tratta forse dell’elemento più significativo, tutto questo è espressione, forma, testimonianza della gratuità, di un’arte che non serve a nulla poiché a nulla l’arte deve servire. Come accade nelle passioni, il significato dell’arte sta nel significante. 

«L’odeur et la saveur restent encore longtemps»

Io, Luca Vitone
Milano – Padiglione d’Arte Contemporanea
A cura di Luca Lo Pinto e Diego Sileo
Sino al 3 dicembre 2017

L’arte contemporanea è greca ed è wagneriana. Tende infatti a essere opera d’arte totale, Gesamtkunstwerke, a diventare colore, tatto, suono, odore, parola intrecciati, diversi, unici. Le invenzioni/installazioni/spazi di Luca Vitone corrispondono a tale intento.
Vitone ha pitturato l’intero Padiglione d’Arte Contemporanea di un bianco macchiato da spesse punte nere, realizzate con la polvere raccolta nello stesso PAC. Polvere che ritorna in quattro grandi acquarelli monocromi intitolati Raüme (Stanze), dipinti anch’essi con le polveri di alcuni edifici pubblici tedeschi.
Un’opera grafica e sonora è dedicata all’identità delle regioni europee. Le loro musiche tradizionali compongono una cacofonia che si dipana in un brusio universale, il suono stesso degli insetti e della terra che li nutre. Corteggiamenti è fatta di 9 opere in legno, strumenti musicali, luci elettriche. 9 come sono le Muse, che danno infatti il loro nome a ciascuna opera. Imperium è una stanza vuota ma intrisa di sensazioni olfattive, seducenti e insieme aspre. L’ambizione è restituire l’odore del potere. Ultimo viaggio racconta di un’avventura in Persia prima che si trasformasse nell’Iran khomeinista. Una vecchia Peugeot è poggiata sulla sabbia e circondata da immagini di quel viaggio.
Anche altre opere descrivono l’itinerario dei corpimente dentro le memorie individuali e collettive, cantano la polvere del tempo e la nostalgia della musica, meditano l’andare, la sabbia, l’avventura e i simboli: bandiere, anagrammi, strumenti musicali. Domina ovunque la potenza degli oggetti risignificati, risemantizzati, pervasi di ironia e di concetto.
L’intenzione politica di quest’artista anarchico è esplicita. Le due opere all’ingresso sono dedicate alla P2: su una parete il triangolo massonico, su quella di fronte un grande foglio sul quale sono scritti i nomi dei membri della Loggia Propaganda 2, tra i quali ci sono politici, giornalisti, professionisti, dirigenti, banchieri, ancora vivi e facenti danno.
Una mostra politeistica e molteplice, fatta di identità etniche, simboliche, territoriali, e insieme di differenze culturali, estetiche, linguistiche, percettive. La mostra ha altre due sedi milanesi: i Chiostri di Sant’Eustorgio e il Museo del Novecento, come a voler riempire gli spazi di questa bellissima città.
Abbiamo l’arte per non naufragare nell’unicità del comando, della sua spina, e sentire invece che davvero «quand d’un passé ancien rien ne subsiste, après la mort des êtres, après la destruction des choses, seules, plus frêles mais plus vivaces, plus immatérielles, plus persistantes, plus fidèles, l’odeur et la saveur restent encore longtemps, comme des âmes, à se rappeler, à attendre, à espérer, sur la ruine de toute le reste, à porter sans fléchir, sur leur gouttelette presque impalpable, l’édifice immense du souvenir» (Proust, À la recherche du temps perdu, Gallimard 1999, p. 46).

Africa

AFRICA. Raccontare un mondo
Milano – Padiglione d’Arte Contemporanea
A cura di Adelina von Fürstenberg
Video e performance a cura di Ginevra Bria
Sino all’11 settembre 2017

Figure umane disegnate, create e descritte in diverse forme.
Installazioni.
Utilizzo metaforico di materiali e oggetti quotidiani.
Video di luoghi, di corpi, di volti, di azioni, di amori e di pianti.
Barthélémy Toguo realizza una grande nave –Road to Exile-, intrisa di progetti, di colori, di futuro.
Richard Onyango disegna uno Tsunami al modo di ingenui ex voto ma con l’evidente scaltrezza dell’artista.
Georges Adéagbo compone Milan-Italy, un bric-à-brac affollato di oggetti e giornali, un blob statico, un’ironica fotografia del presente.
Il designer Gonçalo Mabunda realizza Weapon Throne, un feroce trono fatto con le armi che hanno devastato il suo Mozambico durante gli anni della guerra civile.
Abdelrahmane Sissako, il regista del bellissimo Timbuktu, propone Dignity, un filmato privo di sentimentalismo e ricco di talento visivo-antropologico.
Romuald Hazoumé costruisce una varietà di volti ricavati da materiali disparati: bidoni, annaffiatoi, tostapane, sci, aspirapolvere e molto altro. Splendido il suo Androgino, una scultura metallica e arcaica, apotropaica e ironica, tribale e platonica.
Di Idrissa Ouédraogo è possibile vedere La longue marche du caméléon, parte di un film dal titolo Beyond Borders and Differences nel quale l’artista pone a confronto alcune ancestrali credenze del suo popolo con lo scetticismo di chi si è abbeverato alla razionalità cartesiana. Il risultato è un ironico e intelligente video nel quale il cangiante giallo di un camaleonte rappresenta la continuità e il conflitto tra l’animale umano e altre animalità, la cui saggezza inscritta nella materia si mostra assai più razionale di ogni semplice astrazione logica. Le immagini di Ouédraogo ricordano le tesi dell’antropologo Eduardo Viveiros de Castro
«Vedendoci come dei non-umani, è loro stessi (e i loro rispettivi congeneri) che gli animali e gli spiriti vedono come degli umani: si percepiscono come (o diventano) esseri antropomorfi quando sono nelle loro case o nei loro villaggi, e imparano i loro comportamenti e le loro caratteristiche sotto un aspetto culturale: percepiscono il loro cibo come un alimento umano (i giaguari vedono il sangue come la birra del mais, gli avvoltoi vedono i vermi della carne putrefatta come pesce grigliato, eccetera); vedono i loro attributi corporei (pelame, piumaggio, unghie, becchi, ecc.) come ornamenti o strumenti culturali; il loro sistema sociale è organizzato come delle istituzioni umane (con capi, sciamani, metà esogame, riti…)»
(Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia strutturale, ombre corte, Verona 2017, p. 43)
Tutto questo è anche arte concettuale ma è assai di più. È l’immagine di un continente che deve conservare la sua identità, senza disperderla nello spazio altrui, nelle altrui potenze. È l’incarnazione di una vita antica.

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