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Monet. Il tempo delle ninfee

Milano – Palazzo Reale
Sino al 27 settembre 2009

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Il giardino di Claude Monet a Giverny, le stampe giapponesi delle quali fu appassionato collezionista, le fotografie quasi indistinguibili dalle stampe, la foto di Nadar che ritrae lo sguardo dell’artista come fosse scolpito, un filmato che lo vede al lavoro. E ovunque, nelle sale di Palazzo Reale, la vibrazione delle forme e dei colori, le ninfee come segno e promessa di un segreto che sta nella luce e nell’occhio che la assorbe. L’artista scrisse che «tutti i miei sforzi sono volti a realizzare il maggior numero possibile di immagini intimamente collegate a realtà sconosciute». Un dipinto dal titolo Glicine (1919-20) sembra finalmente cogliere e restituire le sfumature più intime della realtà e dello sguardo, della sintesi attiva che la mente compie sul mondo.

E sono soprattutto le quattro versioni qui presenti del Ponte giapponese a esprimere l’identità profonda della materia con la percezione/visione. In questi dipinti la figura si frantuma e si dissolve progressivamente in impressione pura del colore. A proposito delle sue ninfee, Monet disse una volta a Thiébault-Sisson che «l’effet, d’ailleurs, varie incessamment. Non seulement d’une saison à l’autre, mais d’une minute a l’autre, car ces fleurs d’eau sont loin d’être tout le spectacle; elles n’en sont, à vrai dire, que l’accompagnement. L’essentiel du motif est le miroir d’eau dont l’aspect, à tout instant, se modifie grâce aux pans de ciel qui s’y reflètent, et qui y répandent la vie et le mouvement. Le nuage qui passe, la brise qui fraîchit, le grain qui menace et qui tombe, le vent qui souffle et s’abat brusquement, la lumière qui décroît et qui renaît, autant de causes, insaisissables pour l’œil des profanes, qui transforment la teinte et défigurent les plans d’eau» («Les Nymphéas de Claude Monet», Revue de l’Art, luglio 1927, p. 44).





Musorgskij – Emerson Lake & Palmer

7 maggio 2009
Centro Culture Contemporanee Zo – Catania
Associazione Musicale Etnea

Modest Musorgskij.
QUADRI DI UN’ESPOSIZIONE.
Aki Kuroda, pianoforte. Emerson Lake & Palmer, video al Lyceum Theatre 09.12.1970

La contaminazione è davvero una delle strutture fondamentali del mondo. I visionari Quadri di un’esposizione di Musorgskij (1874) acquistano splendida vitalità un secolo dopo la loro composizione nell’esecuzione progressive e psichedelica degli ELP. Le dissonanze e le percussioni che intridono l’originale vengono esaltate dall’energia e dalla creatività del trio. Ma anche la dolcezza di alcuni dei quadri –The Sage, ad esempio- riceve pieno accoglimento ed espressione dalla voce di Greg Lake.

La pianista Aki Kuroda ha creato uno spettacolo nel quale alterna la propria esecuzione solistica dell’opera musorgskijana con il video completo della performance ELP. Mano a mano che le due versioni procedono e si fondono, il pianoforte assume toni sempre più jazzistici e sincopati, sino al potente finale della Grande porta di Kiev. Una bellissima idea, un grande divertimento. In Rete si trovano facilmente i video del concerto Emerson Lake & Palmer. Ne propongo uno qui sotto, per farsi un’idea.

Il Gabbiano

di Anton Cechov
Versione di Martin Crimp
Traduzione di Leslie Csuth
Con Donatella Bartoli, Elisabetta Ferrari, Mariano Nieddu, Alberto Onofrietti, Roberta Rovelli, Paolo Summaria
Regia di Sandro Mabellini
Teatro Litta – Milano
Sino al 10 maggio 2009

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Il Gabbiano ritorna su una scena del tutto spoglia, dove tre coppie danzano il disperato gioco dell’amore non corrisposto, degli incroci che non si colgono, delle aspirazioni ridimensionate, della vita-teatro. Sul palcoscenico solo un paio di microfoni, parlando nei quali e dando le spalle  alla sala gli attori diventano anche gli altri personaggi. Quando, invece, sono Konstantin e Nina, Arkadina e Trigorin, Medvedenko e Maša, gli attori si rivolgono al pubblico, che è dunque attivamente coinvolto nella rappresentazione.

Cechov non è mai semplice da recitare e da vedere. La regia di Sandro Mabellini -basata sulla asciutta versione di Martin Crimp- ne condensa senso e gesti traendo dal testo tutta la possibile contemporaneità, che vuol dire sempre la classicità di un’opera. Gli inserti musicali vanno da Mozart al rock e sono sempre rispettosi del contesto. La recitazione si fa spesso danza. La metafora del gabbiano viene esplicitata e diventa il corpo di un’attrice. La prima parte dello spettacolo rimane tuttavia povera e solo nel finale acquista la densità di un dramma esplicitamente shakespeariano, così come Cechov lo aveva voluto.

Bouvard e Pécuchet

di Gustave Flaubert
(Bouvard et Pécuchet, 1881)
Trad. di Camillo Sbarbaro
Con un saggio di Lionel Trilling
Einaudi, Torino 1982
Pagine XXXIII-243

I due protagonisti di questa parabola non possono esser dimenticati facilmente. Da un lato sono dei personaggi reali, con le loro inconfondibili fisionomie, con il perfetto delinearsi dei caratteri. Dall’altro costituiscono una sferzante allegoria. Pur se ingenui, precipitosi, superficiali, imprudenti, i due impiegati che, ricevuta una cospicua eredità, decidono di apprendere tutto ciò che possa essere appreso -scienze agrarie, pedagogia, letteratura, medicina, archeologia, chimica, ingegneria, astronomia…- rimangono i più autentici tra gli esseri che costellano il romanzo. Composto insieme al Dictionnaire des idées reçues, e a esso strettamente legato, questo singolare capolavoro rappresenta infatti un’antologia della stupidità universale.

Dalle sue pagine emerge con una chiarezza persino dolorosa ciò che nega un autentico sapere: i pregiudizi privati e collettivi, l’apologia della consuetudine, la consacrazione delle norme, il provincialismo, la grettezza dello spazio interiore, l’invidia verso chi nell’apprendere è felice, l’acritica chiusura della mente. Nei confronti di tutto questo, Bouvard e Pécuchet si comportano da inconsapevoli ma implacabili demistificatori. E anche quando sembrano cadere nel colmo del non pensiero, il bigottismo biblico, portano il loro atteggiamento al punto estremo in cui la scempiaggine di una fede che «ha per punto di partenza una mela» (p. 211) si illumina da sé del proprio grottesco splendore.

Ai loro occhi «il mondo si trasformava in simbolo» (98), «aristocrazia e popolo si equivalevano» (133), «i socialisti invocano sempre la tirannia» (140), «la metafisica non serve a niente» (176), «ammanendo con la massima serietà queste fandonie al pubblico, la stampa ne coltivava la credulità» (155). È il “progresso”, quindi, il nome che l’imbecillità assume nel XIX secolo, quel pregiudizio sul quale Céline scriverà: «L’ho pur visto arrivare il Progresso…ma sempre senza trovare un posto…Tornavo ogni volta a casa bischero come prima…» (Morte a credito, Corbaccio, 2000, p. 271).

Non geniali ma neppure idioti, fratelli di Emma Bovary, i due uomini comuni nei quali Flaubert ricapitola il suo disprezzo per l’inutile mondo di mediocri che popola la specie costituiscono la paradossale luce di un mondo spento. Essi «mettevano in dubbio la probità degli uomini, la castità delle donne, l’intelligenza dei governanti, il buonsenso del popolo: minavano, in una parola, le basi. […] Nei due amici maturò allora una disposizione d’animo destinata a renderli infelici: quella di vedere la stupidità umana e di non poter più tollerarla» (182).

Beethoven – Große Fuge

27 aprile 2009 – Spazio Teatro 89 – Milano
Raccontare la musica. Il Romanticismo di Ludwig van Beethoven
Con Raffaele Cifani (pianoforte e percorso didattico) – Claudio Giacomazzi (violoncello)

Un’associazione privata -BovisArte- e due enti locali -il Comune di Milano e il Consiglio di Zona 7- hanno promosso un’iniziativa assai bella: far gustare la musica sia dal punto di vista estetico sia da quello tecnico attraverso tre ascolti dedicati a Bach, Beethoven e Shostakovich. Il pianista Raffaele Cifani spiega dunque anche con l’aiuto di immagini le partiture, la loro genesi, il contesto storico-artistico nel quale nascono, le difficoltà e le peculiarità di ciascuna. Insieme al violoncellista Claudio Giacomazzi, Cifani esegue poi i brani dei quali ha parlato.
La serata beethoveniana è stata dedicata alla Sonata in Re maggiore Op. 102 n.2, che nei suoi tre movimenti mostra la dimensione aliena del Maestro di Bonn. Essa comincia con un andamento classicistico per poi addensarsi in sonorità dure, in macchie di note, in un Allegro fugato che sconcertò il pubblico al primo ascolto (1815). Questa sonata rappresenta in qualche modo l’inizio di un percorso che porterà alla stupefacente Grande fuga per quartetto d’archi in Si bemolle maggiore, op. 133 (Große Fuge) del 1825-1826, che Stravinskij giudicò «il più perfetto miracolo di tutta la musica. Senza essere datata, né storicamente connotata entro i confini stilistici dell’epoca in cui fu composta, anche soltanto nel ritmo, è una composizione più sapiente e più raffinata di qualsiasi musica ideata durante il mio secolo. (…) Musica contemporanea che rimarrà contemporanea per sempre».

Ne propongo il non facile ascolto. L’esecuzione è del Végh Quartet (1952; da LiberLiber).

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[audio:beethoven_grande_fuga.mp3]

 

Georges Seurat, Paul Signac e i neoimpressionisti

Milano – Palazzo Reale

Divisionismo e pointillisme hanno rappresentato la grande svolta nel passaggio dall’arte ottocentesca a quella contemporanea. Definiti anche come neoimpressionisti, Seurat, Lucienne Pissarro, Luce, van Rysselberghe, Cross, Delavallée, Angrand, Signac partono sì dai maestri dell’Impressionismo ma arrivano a esiti del tutto originali. È quest’ultimo -Paul Signac- l’artista principale della mostra. Nelle sue opere diventa chiarissimo come i punti di colore sparsi sulla tela con grande rispetto per le leggi della pittura -contrasto, mescolanza, gradazione- lascino ai processi cerebrali di chi guarda la formazione dei volumi e degli sfondi.

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