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Emma, la Feroce

Teatro Franco Parenti – Milano
Madame Bovary
di Gustave Flaubert
riscrittura di Letizia Russo
Con Lucia Lavia, Woody Neri, Gabriele Portoghese, Mauro Conte, Laurence Mazzoni, Roberta Zanardo, Elisa Di Eusanio, Xhuiljo Petushi
Produzione Khora Teatro
Regia di Andrea Baracco
Sino al 22 gennaio 2017

«Non conosci davvero un uomo fino alla notte o al giorno in cui vai a letto con lui. Non conosci davvero una  donna mai. Neanche se quella donna sei tu». Così comincia la riscrittura carnale e crudele che Letizia Russo ha proposto di Madame Bovary, nella visionaria messa in scena di Andrea Baracco, interpretata con appassionata energia da Lucia Lavia.
Emma si annoia nella casa di campagna del padre e coglie la prima occasione per andarsene, sposando il medico di famiglia da poco vedovo, simulando a se stessa un amore che non c’è. Emma, la Finta.
Alla noia si aggiunge la delusione per una vita di provincia che non le regala niente di quanto aveva immaginato. Inizia così a odiare Charles Bovary e la figlia che ne ha avuto, Berthe, sino a gesti estremi di distanza e di disprezzo verso entrambi, sino a condurre Charles alla «rassegnazione dei dolori infiniti» (Madame Bovary, trad. di O. Del Buono, Garzanti 1965, p. 290). Emma, la Feroce.
Comincia a credere alle parole dei maschi squallidi e vuoti che le girano intorno, a farsi ingannare, a essere poi abbandonata. Per loro acquista, si veste, spende, in misura tale da mettersi nelle mani di un usuraio e da rovinare la casa. Si fida persino del farmacista Homais, uno dei personaggi più disgustosi che siano mai apparsi. Emma, la Fessa.
Ma il piacere di tradire l’uomo al quale attribuisce le proprie sciagure è troppo grande, ripetuto, voluttuoso. Emma, la Fedifraga.
Alla fine però non riesce più a tenere insieme il desiderio, la rispettabilità, le forme, l’orgoglio, le parole, le notti, e dentro di lei comincia a gorgogliare la tenebra. Emma, la Folle.
Il mondo le precipita sulle braccia, sui genitali, sulla testa, nello spazio, nel tempo. Non le rimane che il veleno. «L’aveva fatta finita, pensava invece lei, con tutti i tradimenti, le bassezze, gli innumerevoli desideri che l’avevano torturata. Non odiava più nessuno, adesso, un confuso crepuscolo calava sulla sua mente: di tutti i rumori del mondo, Emma ascoltava ormai soltanto l’intermittente lamento di quel povero cuore, dolce e indistinto, come l’ultima eco vanente d’una sinfonia» (p. 266). Emma, la Fallita.
Il suo inventore la racconta, la disseziona, la ama come poche volte è accaduto a un autore nella letteratura universale. Perché Emma (come egli ammise in una formula efficace anche se apocrifa), «c’est moi». Emma, la Flaubert.
«Così per gli uomini mortali un male, le donne (κακόν θνητoῖσι γυναῖκας), / Zeus alto tonante fece, partecipi d’opere / moleste, e un altro male diede in cambio di un bene» (Esiodo, Teogonia, vv. 600-602, trad. di G. Arrighetti). Emma, la Femme.

L’inverno del nostro contento

Mosè Bianchi. La Milano scomparsa
GamManzoni – Milano
Sino al 26 giugno 2016

No, non è scomparsa la Milano dipinta con saggezza e affetto da Mosè Bianchi (1840-1904). Molti luoghi sono gli stessi; identica è soprattutto l’armonia e la nascosta forza di una città pensante. Disincantata, certo, ma piena di energia. Sfilano sulla tela questi luoghi e questa Stimmung.
Nel Tram del Carrobbio la luce sembra scatutire dal tram, mentre tutto intorno è pioggia e ombre. La Piazza del Verziere rappresenta una teoria di edifici grigi, riscattati dal bianco dei cavalli e dal rosso di una gonna. La Darsena di Porta Ticinese è uno spazio panoramico fatto di acque, carrozze, umani, alberi. Porta Ticinese d’inverno a Milano appare ancora esattamente così come il pittore la descrive. Nelle Colonne di San Lorenzo emergono due macchie di giallo e di rosso, corpi vivi dentro il tempo grigio. Non è indicato l’esatto luogo di un Giorno di pioggia a Milano ma mi è sembrato di aver intravisto un angolo del Cordusio. Il Carrobbio è un perfetto rettangolo di vita, un archetipo. Universale è anche Milano di notte, un quadro intessuto della potenza e dell’enigma della città, di tutte le città d’Europa. Soggetto ricorrente è Neve a Milano, un bianco che si confonde e fonde con il rosso dell’Occidente.
La mostra presenta anche opere di argomento non milanese: alcuni ritratti, episodi e momenti della vita di Chioggia (ancora una città), campagne e paesaggi. Coinvolgente Il lavoro della terra, nel quale trionfa un giugno di spighe, colline, architetture, luce.
La Milano di Mosè Bianchi è l’inverno del nostro contento, l’istante nel quale lo spazio si fa pensiero, memoria, sorriso.

 

«Forêts de symboles»

Il Simbolismo. Arte in Europa dalla Belle Époque alla Grande Guerra
a cura di Fernando Mazzocca e Claudia Zevi in collaborazione con Michel Draguet
Palazzo Reale – Milano
Sino al 5 giugno 2016

VonKeller_AuCrépuscoleNei simboli si raggruma la facoltà che la nostra specie ha di vedere ciò che non appare immediatamente percepibile. Anche per questo il simbolo è di per sé un concetto. Tutto ciò che chiamiamo cultura ha una struttura simbolica. Perché dunque denominare Simbolismo una particolare temperie artistica? La motivazione principale sta nel fatto che tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo molti artisti fecero propria la definizione del mondo data da Baudelaire, per il quale «la Nature est un temple où de vivants piliers / Laissent parfois sortir de confuse paroles; / L’homme y passe à travers des forêts de symboles / Qui l’observent avec des regards familiers» (Correspondances, vv. 1-4). Simboli che attingono la loro potenza dalla forze profonde, pulsanti, estreme della vita.
All’interno della formula unitaria Simbolismo convivono in realtà espressioni e posizioni diverse come la Secessione viennese, i Nabis parigini, il Divisionismo. Le opere dei numerosi artisti che si riconobbero sotto questa formula indicano in modo assai chiaro due verità, una di natura generale e un’altra riguardante la storia.
La prima verità è che un eccesso di razionalità non è diverso da altri eccessi e dunque è pronto a capovolgersi nel suo opposto. I successi del positivismo, la convinzione di poter tutto ricondurre e ridurre alle metodologie della scienze dure, generarono un mondo fatto di segni inquieti, di sogni angoscianti, di incubi esoterici.
È questo che esprimono le opere raccolte nella ricca e suggestiva mostra di Palazzo Reale.
Malczewski-Thanatos-IThanatos di Jacek Malczewski (1898) ha l’implacabile freddezza della pura ferocia. Al chiaro di luna di Albert von Keller (1894) consiste nello stridente contrasto tra il corpo sensuale di una donna e la sua posa crocifissa. Parsifal di Leo Putz (1900) è il sogno del guerriero che immagina splendide creature nude pronte ad accogliere il suo ritorno. Si potrebbe continuare a lungo nell’indicare opere nelle quali il sogno si fa reale e la realtà assume i contorni onirici delle profondità interiori. Almeno un altro quadro va comunque ricordato: L’isola dei morti di Arnold Böcklin (1880-1896); e va ricordato non soltanto per la sua struttura e il suo contenuto davvero emblematici del Simbolismo -colori forti e insieme spenti, paesaggio lugubre e geometrico, centralità del morire- ma anche e soprattutto perché si tratta di un dipinto che fu molto amato da personaggi che apparentemente sembrano assai lontani tra di loro come Lenin, Hitler, Strindberg, D’Annunzio, Freud. Tutti costoro, in un mondo o nell’altro, non credevano più nella Ragione, nella sua autorità sulle vicende umane individuali e collettive. La ricorrente presenza di figure come Orfeo e Medusa indica l’estrema volontà di fare dell’arte una barriera contro l’orrore. Ma per far questo l’arte stessa assume i caratteri della paura.
La seconda verità è che queste opere mostrano in modo lancinante come l’Europa fosse pronta al trionfo della morte che afferrò il continente tra il 1914 e il 1918. Si moltiplicano infatti i segni della violenza, della distruzione e del demoniaco, seppur trasportati su piani allegorici.
A margine ma non tanto: la grandezza di Nietzsche sta anche nell’essere stato immerso in tali atmosfere ed esserne rimasto di fatto immune. Perché Nietzsche era un greco, lontano da ogni decadenza.

Il tempo in un arazzo

Storia di un arazzo
POLLICE VERSO
Arte e industria nella Milano di fine Ottocento
A cura di Fausta Squatriti
Nardini Editore, 2015
Pagine 192

Un libro dedicato a un finto arazzo -esattamente un telo figurato- costruito con telaio Jacquard nel 1898, sulla base di una xilografia pubblicata nel 1874 su un numero dell’Illustrazione universale. Xilografia che riproduceva il dipinto di un artista totalmente avverso alle avanguardie nascenti, Jean-Léon Jérôme (1824-1904), il quale nel 1872 raffigurò La morte del gladiatore, poi universalmente noto con il titolo di >Pollice verso. Un libro quindi ultraspecialistico, per esperti d’arte ottocentesca e cultori della tecnologia applicata? No, per quanto sorprendente possa apparire, questo libro è altra cosa: è un’enciclopedia. In esso, infatti, convergono prospettive, suggestioni, conoscenze che coniugano saperi assai diversi: estetica, sociologia, storia dell’arte, critica letteraria, narrativa, storia politica, storia della tecnologia, filosofia, storia sociale.

Pollice verso è prima di tutto la storia di una famiglia, la vicenda di patrimoni accumulati con tenacia e dilapidati con leggerezza e incoscienza da personaggi che potrebbero ben apparire in una saga romanzesca come I Buddenbrook, il romanzo nel quale Thomas Mann racconta in quegli stessi anni (1901) l’apogeo e il declino (Verfallen) di una famiglia di agiati commercianti di Lubecca. La vicenda della famiglia Angioletti è ricostruita con grande rigore e vivacità nel contributo di Dario Generali; in essa si alternano e si susseguono figure ben consapevoli della durezza della vita e altre assolutamente velleitarie; personalità solidamente borghesi e avventurieri di vario genere; zie religiosissime e cantanti liriche che vanno a cercar fortuna in Sudamerica; rigorosi imprenditori ed ex prostitute molto attente a rubare la fortuna accumulata dagli altri.

Di questa ascesa e declino degli Angioletti fu ed è simbolo un manufatto, il grande arazzo il cui stesso titolo riflette le ambiguità dei segni e delle vicende umane. Non è infatti del tutto accertato, come chiarisce nel suo saggio Sandro Scarrocchia, se il pollice verso significasse una sentenza di condanna o no. «Si continua a discutere ancora oggi se il gesto indichi verdetto di morte» poiché secondo alcune ipotesi è possibile che i romani «si servissero del pollice chiuso nel pugno, come una spada rinfoderata, per indicare la concessione di grazia e il pollice in alto, che indicherebbe la spada sguainata, per il verdetto di morte e, quindi, se non usassero affatto il pollice in giù, tanto meno per decretare verdetto di morte» (p. 98). Il significato fatale del pollice verso il basso si deve proprio al quadro di Gérôme, un gesto ripreso di continuo nell’immaginario artistico e cinematografico sino, ad esempio, al film Il Gladiatore di Ridley Scott (2000). Anche per tale ermeneutica di un gesto decisivo -un atto che può significare vita o può decretare morte- si comprende l’importanza di questo libro.

Ma il dipinto e l’arazzo non si limitano a tale gesto. Il gladiatore mirmillone che ha atterrato il gladiatore reziario preme il proprio piede sul collo dello sconfitto, nell’attesa che imperatore e folla stabiliscano la sentenza. Ebbene, «rimaniamo molto colpiti quando anche membri delle forze dell’ordine fanno ricorso ancora oggi a questa posizione di immobilizzazione a terra, enfatizzando il fatto di avere in mano, anzi nei piedi, cioè sotto gli stivali anfibi, la vita altrui, e simboleggiando così la potenza della repressione» (Scarrocchia, p. 95).

Questo insieme di persone, di eventi e di simboli si incarna e diventa figura nell’opera d’arte che Pollice verso è. Opera nella quale modelli greco-romani, forme neoclassiche, inquietudini romantiche sembrano fondersi in un soggetto nel quale l’immaginario storico declina e si estenua, sino a esprimersi anche come sadismo e culto della morte. Una sensibilità che lungo tutto il Novecento sembrava irrimediabilmente finita, sconfitta, oltrepassata e della quale invece -nella sua splendida e avvincente lettura- Fausta Squatriti mostra la particolare vitalità, oggi.

Già quando furono realizzati, sia il quadro sia l’arazzo, l’arte accademica esalava i suoi ultimi respiri e Cézanne stava lavorando a distruggere quel mondo di deliri romantici, di velleitarie buone intenzioni metaforiche, immagini letterarie non sempre di prima qualità, per dare inizio alle avanguardie del Novecento (40).

E tuttavia il postmoderno -vale a dire la trasformazione dei grandi modelli rivoluzionari delle avanguardie moderne in un corpus di citazioni da rileggere di volta in volta alla luce del presente- ha prodotto il singolare ma del tutto comprensibile risultato che<

a distanza di un secolo e mezzo, l’interesse per quel periodo di passaggio è forte, l’innamoramento per le avanguardie, diluite nel loro lento defluire nel vasto estuario del contemporaneo, appare sfumato e tutto diventa citazione, memoria, cultura, ripensamento. […] L’eccesso di artisticità permea di malinconia il semi-brutto che ci offre, più docilmente del bello, indizi narrativi che lasciano spazio allo spirito conservatore, che non muore mai (49).

Lo spirito conservatore che non muore mai, questa formula con la quale Squatriti conclude il suo saggio può essere spiegata anche alla luce di quanto Scarrocchia afferma a proposito del dipinto di Gérôme in quanto emblema del «segreto del potere imperiale. Giusta la teoria di Elias Canetti, secondo la quale ‘il segreto sta nel nucleo più interno del potere’» (111). Uno dei concetti fondamentali di Massa e potere è la spina. Forse quel pollice -indirizzato che sia verso l’alto o verso il basso- ha in ogni caso la stessa struttura verticale della spina come parte della morte che viene dall’alto, una spina che si conficca in chi la riceve, che non si potrà dimenticare e da cui ci si potrà liberare solo trasmettendo a un altro lo stesso identico comando. Questo dipinto-arazzo è anche un simbolo dell’angoscia del comando, del suo dare la morte e poterla sempre ricevere, al minimo capovolgersi delle sorti e del tempo.

Il tempo è dunque il vero nucleo di questo libro e degli eventi che narra, descrive, mostra, documenta. Che cosa sono le fotografie di cui è intessuto, a partire dalla grande immagine che a p. 21 mostra la famiglia Angioletti in vacanza nel 1895 sul Lago Maggiore? Che cosa sono i testi d’archivio che sin dai primi decenni del XIX secolo narrano la storia degli istituti che accoglievano i bambini ‘esposti’? Che cosa è questo grande arazzo/telo figurato? Tutto questo è il tempo. È negli oggetti e nei corpi che sin dall’inizio e finalmente il tempo diventa visibile, lo diventa in ciò che Marcel Proust nelle pagine conclusive del Tempo ritrovato  descrive come un teatrino di marionette «baignant dans les couleurs immatérielles des années, des poupées extériorisant le Temps, le Temps qui d’habitude n’est pas visible, pour le devenir cherche des corps et, partout, où il les rencontre, s’en empare pour montrer sur eux sa lanterne magique». (À la recherche du temps perdu, Èdition publiée sous la direction de J.-Y. Tadié, Paris, Gallimard, 1999, p. 2307).

Uno dei problemi comuni al moderno e al postmoderno è quello che inevitabilmente e giustamente in questo libro emerge a più riprese: il significato dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Un’epoca la quale, nota giustamente Squatriti, «vede sfumare i confini tra vero e falso, tra originale e riproduzione o copia» (38). Con il Pollice verso della manifattura di Angelo Angioletti siamo davvero «di fronte ad un esempio di riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, non riconducibile alla fotografia, come vuole l’ermeneutica benjaminiana, ma all’arte tessile. Con implicazione di un processo ideativo e realizzativo di grande rilievo» (Scarrocchia, p. 93). E quindi «il concetto di unicità dell’opera d’arte comincia a vacillare a fronte della sua riproducibilità in forma seriale, anche se bisognerà attendere parecchio per avere riproduzioni a colori, più prossime all’originale» (Squatriti, p. 40).

Esattamente. E ciò ha implicazioni estetiche di fondamentale importanza. Ad esempio -per quanto oggi ci sembri singolare- ancora nei primi decenni del Novecento tutte le riproduzioni artistiche erano monocromatiche. Ma è stata anche questa difficoltà nel vedere il colore -nota giustamente Eleonora Marangoni in Proust. I colori del tempo (Electa, 2014)- a rendere possibile il particolarissimo modo in cui Proust parla dei pittori e la continua creazione dei colori di cui la Recherche è fatta. Il bianco e nero aiuta infatti la memoria a ricreare il mondo, gli eventi, gli spazi, gli umani.

Il gesto del gladiatore vincente, il gesto del gladiatore sconfitto, il gesto della folla, il pollice verso, rappresentano il tempo dinamico e insieme immobile della morte, l’istante della fine, l’istante opposto al καιρός. E credo che sia questo a costituire il fascino e la potenza dell’arazzo.

Tolstòj, la storia, gli umani

Lev Nikolajevic Tolstòj
GUERRA E PACE
(Vojna i mir, 1865-1869)
Traduzione di Enrichetta Carafa d’Andria
Con un saggio di Thomas Mann
Prefazione di Leone Ginzburg
Einaudi, 1990 (1942)
Pagine XXII-1425

Si comincia a leggere e, per chi ama Proust, Mann, Kafka, sembra di tornare a una narrativa solida ed elegante, a una introspezione psicologica che però -rispetto a quegli autori- appare troppo prudente. Poi, mano a mano che si continua a leggere, il libro afferra per la forza dei personaggi, affascina per la vastità e complessità della trama, produce stupore di fronte alle sculture di sentimenti, passioni, innamoramenti e dolori che appaiono plastici, tridimensionali, magnifici in tutta la loro potenza: «…e da quella porta socchiusa a un tratto spirò e investì Pierre quella felicità da tempo dimenticata alla quale, specialmente ora, egli non pensava. Spirò, lo avvolse, lo sommerse; quando poi ella sorrise, non ci poterono più essere dubbi: era Nataša, ed egli l’amava» (pag. 1302).
L’apice è la morte del principe Andréj, bellissima e lenta, complicata e romantica, appassionata, mistica. Andréj sente «quello straniarsi completo da ogni cosa umana che è tremendo per un uomo vivo» (1145) e si schianta nel momento in cui la felicità sembra di nuovo possibile: «“Sì, era la morte. Sono morto: mi sono svegliato. Sì, la morte è un risveglio”. A un tratto l’anima sua s’illuminò»…(1152). Il dolore che rimane in chi lo ama è paragonabile solo a quello descritto in Albertine disparue e tuttavia in Tolstòj la felicità è un desiderio troppo grande, è la meta stessa a cui tende ogni cosa e sempre essa rinasce dalle ceneri di qualunque tragedia: «Ma una piena, assoluta tristezza è altrettanto impossibile come una piena, assoluta gioia» (1259) e in Nataša, nella principessina Marja, in ognuno e in tutti risorge la vita.
Il romanzo è intessuto di magnifiche similitudini e di potenti metafore. I personaggi squallidi e meschini sono assai numerosi e sul loro sfondo meglio si stagliano le figure non tanto positive o forti quanto pure: il conte Pierre Bezúchov è certo il migliore. La sua ingenuità, l’allegria e la serietà, la generosità e l’orgoglio costituiscono alcuni dei caratteri di quell’anima russa che Tolstòj vuole più di ogni altra cosa rappresentare. Non a caso essa si esprime in due personaggi assai lontani per condizione sociale, cultura, autorità: il maresciallo Kutúzov -capo supremo delle forze armate russe- e il giusto Platòn Karatàjev, contadino prigioniero dei francesi, compagno di Pierre, vittima rassegnata della follia della guerra. Entrambi usano non la ragione ma il sentimento, affidano a Dio le loro sorti e quelle della Russia, affondano nel suolo di una civiltà arcaica, rurale, immutabile.
Allo spirito popolare di Kutúzov e di Karatàjev si oppone l’individualismo di Napoleone. Egli è certamente presente in ogni pagina del romanzo, è l’attore che ha affascinato le corti e le masse, è l’ambizione immensa del potere. Egli si illude di guidare la storia e i popoli «mentre invece» -quasi manzonianamente- «una invisibile mano lo conduceva» (1330), la sua cieca arroganza suscita persino compassione e disprezzo. Tolstòj condanna come un volgare alibi il progetto napoleonico inteso a fare dell’Europa «un même peuple» e di Parigi «la capitale du monde» (959). Contro questo empio emblema della hybris il pacifista Tolstòj scrive una vera e propria apologia della guerriglia, esaltando il popolo russo che nel momento supremo ha gettato la spada impugnando il randello per colpire con tutte la possibile forza «finché nella sua anima il sentimento dell’offesa e della vendetta si muti in disprezzo e in pietà» (12)
In generale, Tolstòj si mostra un lucido (anche se sempre di parte) ed efficace analista di questioni strategiche e militari. La descrizione delle battaglie ci fa entrare nel vivo non solo dell’azione ma della percezione stessa di chi le combatteva. Costante è l’analogia fra le leggi della storia e quelle della fisica, fra la strategia militare e i teoremi geometrici anche se la posizione complessiva oscilla fra un peculiare storicismo e la negazione della sua stessa possibilità. “Che cos’è la storia?” è la vera domanda da cui si genera il romanzo. La guerra nazionale russa del 1812, con ciò che la precedette e quanto ne seguì, rappresenta per Tolstòj il laboratorio nel quale tentare una risposta.
Sembra che Tolstòj creda a una astuzia della ragione che muove gli individui ai propri fini anche quando essi ritengono di agire liberamente e soltanto per sé:

In ogni uomo vi sono due aspetti della vita: la vita personale, che è tanto più libera quanto più astratti sono i suoi interessi, e la vita elementare, la vita di sciame, dove l’uomo obbedisce inevitabilmente a leggi che gli sono prescritte. L’uomo vive consciamente per sé, ma serve come uno strumento inconscio per il conseguimento dei fini storici dell’umanità in generale. […] La storia, cioè la vita incosciente e comune, la vita di sciame dell’umanità, si avvantaggia per sé di ogni momento della vita dei re, come di un mezzo per raggiungere i propri fini. (709-710)

La storia è fatta non dagli individui, qualunque sia la loro forza apparente e il loro grado nel mondo, ma dalle masse o meglio dall’insieme sterminato degli uomini che transitano nel tempo. Essa ha delle leggi ma non sono quelle che la storiografia crede di aver individuato. Per quanto deterministiche siano (e Tolstòj ritiene che davvero lo siano) esse rimangono enigmatiche. Il problema chiave diventa quindi il libero arbitrio dei singoli nella infinità dei casi, delle volontà, delle relazioni. È comunque chiaro che non esistono eroi e i cosiddetti grandi uomini sono anch’essi -come ogni altro- determinati da qualcosa che li supera, nettamente li oltrepassa. «Negli avvenimenti storici gli uomini così detti grandi sono etichette che dànno il titolo all’avvenimento e, come le etichette, meno che mai hanno rapporto con l’avvenimento stesso. Ogni loro azione, che a essi sembra volontaria, nel senso storico è involontaria, e si trova legata a tutto il corso della storia ed è determinata da sempre» (711).
A segnare il corso degli eventi a volte sembra essere la divinità, altre la somma delle vite e delle volontà singole, altre ancora qualcosa in cui dio e gli uomini sono compresi ma che li trascende. L’enigma rimane. In ogni caso, una storiografia che voglia essere scientifica dovrebbe porsi l’impossibile scopo di descrivere non l’uno o l’altro avvenimento, non le vicende di singoli personaggi ma «la storia di tutti, di tutti, senza esclusione, gli uomini che hanno partecipato a un dato avvenimento» (1390). Sono alcune delle stesse critiche che Popper rivolge alla “miseria dello storicismo”.
Ma è sul tema del libero arbitrio che la posizione di Tolstòj si complica e anche si confonde. Egli cerca di tenere fermi entrambi i lati del problema. Esclude una assoluta libertà come l’assoluta necessità. La prima è in gran parte un’illusione dovuta all’ignoranza di tutte le cause che concorrono a un certo fenomeno e alla sua vicinanza temporale rispetto a chi lo osserva. Quanto più ci si allontana da un’azione, tanto meno libera appare la scelta di chi l’ha compiuta. La fisicità stessa, la trama spaziale nella quale siamo intessuti ci determina in qualche modo. Posso certo decidere di sollevare e abbassare la mia mano ma lo farò nella direzione in cui essa incontra meno ostacoli: «Per rappresentarci un uomo libero dobbiamo rappresentarcelo fuori dello spazio, il che evidentemente è impossibile» (1417). D’altra parte «rappresentarsi un uomo che sia privo di libertà non è possibile, se non rappresentandoselo privo di vita» (1409). L’enigma, ancora una volta, rimane ed è efficacemente riassunto da Tolstòj:

Così, per rappresentarci l’azione di un uomo sottomesso alla sola legge di necessità, senza libertà, dobbiamo ammettere la conoscenza di una infinita quantità di condizioni spaziali in un infinito periodo di tempo e per un’infinita serie di cause. Per rappresentarci un uomo assolutamente libero, non sottoposto alla legge di necessità, dobbiamo rappresentarcelo fuori dello spazio, fuori del tempo e indipendente dalle cause. (1419)

Chi dunque può conoscere la storia, sia come libertà che come necessità? Soltanto un dio. Tolstòj prende atto della rivoluzione storiografica che non vede più gli eventi come determinati dalla volontà di un singolo, ne condivide in parte le posizioni ma rifiuta che da questi presupposti discenda la negazione dell’anima, della legge morale e di dio. E lascia aperto il suo romanzo non soltanto nella sua dimensione teoretica ma anche in quella narrativa. I personaggi finalmente sereni, di quell’unica felicità concessa agli umani, trascorrono le loro esistenze e intessono i loro rapporti in un modo che potrebbe far continuare il libro all’infinito. Esso si deve fermare. Ma solo dopo aver in un contrappunto continuo di pubblico e privato, di storico e di personale, di guerra e di pace, creato un’epopea, descritto un mondo, scolpita la gioia.

Pollice verso

15-VI-2015 - Locandina present arazzo Crociera Alta
 
 
 
Lunedì 15 giugno 2015 alle 16,30 parteciperò alla presentazione del volume Pollice verso: storia di un arazzo. Arte e industria nella Milano di fine Ottocento, a cura di Fausta Squatriti, Firenze, Nardini 2015.

L’incontro si terrà nello spazio della Crociera Alta, presso l’Università degli Studi di Milano, Via Festa del Perdono 7.

 

Mimesis

Segantini
Palazzo Reale – Milano
Sino al 18 gennaio 2015

Segantini-Il-Naviglio-a-Ponte-San-MarcoMimesis. Il realismo nella letteratura occidentale è il titolo del grande libro che Erich Auerbach dedicò a questo tema. E tuttavia il sottotitolo della prima edizione era Eine Geschichte des abendländischen Realismus, als Ausdruck der Wandlungen der Selbstanschauung der Menschen, vale a dire una storia del realismo occidentale come espressione delle trasformazioni dell’autorappresentazione umana. Neppure per Auerbach, insomma, il realismo è separabile dal modo in cui la mente individuale e collettiva percepisce di volta in volta il mondo.
Su questo punto non possiamo più permetterci di essere ingenui. La realtà assoluta non esiste, semplicemente. È probabilmente anche a causa di questa consapevolezza che il mio sguardo è sempre critico nei confronti di tutto ciò che intende rappresentare la ‘realtà’. Nella sua opera Giovanni Segantini sembra stare stretto dentro il reale, sembra ogni volta voler uscire da un figurativismo che tuttavia lo attraversa e rinchiude dall’inizio alla fine. I suoi quadri, per quanto un po’ uniformi nei temi e nell’ambiente, rappresentano anche una sorta di riepilogo dell’arte europea dal Rinascimento (Mantegna) al Divisionismo, passando per il Naturalismo. Nelle nature morte, nei crepuscoli, nelle madri, nelle mandrie, nelle montagne dell’Engadina, diagonali di luce separano la tela in una molteplicità di spazi o sembrano vibrare dai corpi animali e umani.
L’ispirazione è panica, sacra, panteistica. «Ciascuno di noi è parte di Dio, come ciascun atomo è parte dell’universo», scrisse. E aggiunse che «tutto si deve fondere in un solo pezzo, in una commozione profonda di Vita vera vita palpitante». Intenzioni del tutto condivisibili ma che già alla fine dell’Ottocento non potevano più essere realizzate rimanendo ancorati alla figura. Il simbolismo di Segantini è -insieme a quello di altri artisti a lui contemporanei, compreso lo stesso Klimt– forse l’ultima possibile espressione di una imitazione del reale che aveva ormai perduto ogni referente. Da questo tramonto sarebbe nata la grande arte del Novecento, quella che ormai non vuole descrivere un modello che non esiste ma fa della forma stessa il proprio oggetto.
La mostra di Palazzo Reale permette di attraversare per intero questo itinerario dentro l’impossibilità della mimesis. Tra le tante opere esposte, mi ha particolarmente attratto un dipinto di Segantini poco più che ventenne –Il naviglio a ponte San Marco (1880)- e non soltanto perché descrive un luogo milanese. Soprattutto perché qui l’imitazione va dissolvendosi: umani, palloncini, architetture, acque sono la pura luce del corpomente, il suo desiderio di una gioia che nessuna realtà può dare.

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