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La Madre

Mother, Couch
(Divano di famiglia)
di Niklas Larsson
USA, Danimarca, Svezia 2023
Con: Ewan McGregor (David), Ellen Burstyn (la madre), Rhys Ifans (Guffrud), Taylor Russell (Bella), Lara Flynn Boyle (Linda), F. Murray Abraham (Markus / Marco)
Trailer del film

Per dei mammiferi la madre è tutto. E non soltanto per i cuccioli di Homo sapiens che nascono in una cultura mediterranea, dove la Grande Madre è la vera divinità (la Madonna cattolica è questo) e dove, all’opposto di quanto affermano tesi che rimangono alla superficie delle dinamiche sociali, la struttura delle comunità è sostanzialmente matriarcale (la più parte dei figli di origine siciliana potrà darne conferma). La questione è più profonda: la madre è il legame con la vita stessa (come è ovvio), con il clan, con la casa, con la filogenesi. La madre è tutto.
E lo è anche e soprattutto quando il suo comportamento risulta scostante e l’atteggiamento poco affettuoso, come per la madre di questo film, la quale non aveva desiderato i suoi figli – e apertamente glielo comunica –  e non nutre affetto neppure verso i nipotini. Una madre che ha avuto i suoi tre figli da tre uomini diversi. Il figlio più giovane, David, è il più dedito a lei. E lo rimane anche quando, imprevedibilmente, la signora ultraottantenne non intende alzarsi dal divano di un negozio di arredamento. I figli, uno dopo l’altro, cercano di convincerla ad alzarsi e a tornare a casa. Ma non c’è niente da fare. Prima per delle ore e poi giorno e notte la madre rimane lì, reagendo con furore a ogni tentativo di condurla via. In un momento di quiete, consegna a David la chiave di una cassettiera dicendogli che è giusto che sia lui ad averla e ad aprirla. Questo mobile contiene la spiegazione di molti eventi, di molto dolore. A poco a poco tutta la vicenda assume una dimensione onirica che è l’espressione della interiorità di David. Lo è anche la madre. Il negozio si trasforma in un luogo di passaggio dalla solidità della terra al mistero delle acque, dalla vita alla morte, dal presente alla memoria.
È un film plurale, questo di Niklas Larsson. Un film che è commedia ed è dramma, che è la desolazione di un negozio sperduto nelle lande statunitensi ed è però anche un luogo sacro, i cui proprietari, due fratelli gemelli e la bella figlia di uno di loro, si rivelano assai più che dei commercianti essendo invece figure del destino. Il sogno, l’incubo e la pace mi hanno ricordato Una pura formalità (1994), il capolavoro di Giuseppe Tornatore.
Protagonista di Mother, Couch è il figlio, il quale però vive dentro l’anima della madre. Come molte delle sue simili, essa non tollera concorrenza, competizione, collaborazione. I figli sono suoi, frutto delle sue viscere, portati per mesi nel ventre, dati con dolore alla luce, specchio riflesso della sua natura.
E invece la Madre va uccisa, se vogliamo vivere. Essa deve diventare una persona qualsiasi della famiglia. Non bisogna permetterle di raggiungere il suo scopo: essere la Grande Madre che controlla i tempi, gli affetti, i progetti degli altri. La Grande Madre è la Gorgone che paralizza, è la Vergine Maria che rende ogni Giuseppe un individuo ridicolo e patetico, è l’Angelo del focolare che brucia le anime dei figli, è la Potenza della Terra che si apre a inghiottire nel proprio utero i corpi che da esso sono usciti. Che stritoli i nati nel proprio affetto o che dia loro l’angoscia dell’abbandono, la Grande Madre è la Morte.
Come la madre di Citizen Kane, la Signora di questo film ha abbandonato la prole, anche se lo ha fatto in modo diverso. La dimensione tragica, greca e gnostica del capolavoro di Orson Welles diventa qui una commedia nera. Ma in ogni caso ha ragione Baudrillard: «Fallo vivente della madre, tutto il lavoro del soggetto perverso consiste nell’installarsi in questo miraggio di se stesso e trovarvi l’appagamento del suo desiderio – in realtà appagamento del desiderio della madre. […] Processo identico a quello dell’incesto: non si esce più dalla famiglia» (Lo scambio simbolico e la morte [1976], Feltrinelli 2007, p. 127). Uscire, affrancarsi da lei, dalla Madre, è dunque liberarsi dalla perversione, è vivere. Finalmente lontani dal grembo di tenebra che anche questo film intuisce e comunica.

Cittadino Kane

Quarto potere
(Citizen Kane)
di Orson Welles
USA, 1941
Con: Orson Welles (Charles Foster Kane), Joseph Cotten (Leland)
Trailer del film

Il cittadino Charles Foster Kane ribadisce più volte di essere un americano. Non un ricco, non un imprenditore, non un politico, non un giornalista, ma un americano. E del Geist statunitense quest’uomo ha assorbito l’essenza, quella individuata in modo assai chiaro da Max Weber: il successo mondano come segno della predestinazione alla salvezza.
Ha ricevuto tutto Kane: intelligenza, determinazione, passione, ferocia, danaro. Ma gli è stata tolta la madre, gli è stata tolta l’infanzia. Ciò che cerca è dunque quanto non potrà mai possedere. La passione per gli occhi e la voce di alcune donne è il consueto ed efficace surrogato di questo desiderio, della gioia. Ma la gioia non dipende per gli umani dagli oggetti e dal potere. Gli oggetti che Kane colleziona si moltiplicano nella dismisura di un pieno che è soltanto una somma. Il piacere che gli dà il potere di «far pensare la gente come vuole» si schianta ogni volta nei meandri della guerra collettiva.
Il cittadino Kane conclude il suo percorso nella vita abbracciando un frammento di ciò che avrebbe voluto e gli fu tolto per sostituirlo con casseforti piene, con un fantasma di gaiezza, con il vuoto.
L’arte di Orson Welles racconta questa parabola gnostica attraverso le ombre, i chiaroscuri, i primissimi piani sorretti e contrastati da campi lunghi, le distorsioni ottiche, le riprese a raso e quelle dall’alto. Amplia così gli spazi sino alla follia delle nostre fantasie, del bisogno umano di una carezza che sostituisca ogni altra gloria.

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