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«Furia non mortale»

Giovedì 9 maggio 2024 alle 16.00 nella sede del Centro Studi di via Plebiscito, a Catania, si svolgerà il secondo incontro del ciclo che quest’anno l’ASFU (Associazione Studenti di Filosofia Unict) dedica a filosofia e poesia. Insieme al Prof. Giuseppe Savoca riprenderemo la lettura di Giacomo Leopardi e parleremo dell’opera di Giuseppe Ungaretti. Opera che coniuga una profonda vibrazione esistenziale – la guerra, l’amore, il mito – con la ricerca della parola assoluta che sia «scavata nella vita come un abisso».
Il risultato è pura musica, una musica teoretica che trasforma le passioni in forma e le parole in uno spartito che canta il dolore e la pienezza d’esserci. Un componimento emblematico di tale dinamica è il Recitativo di Palinuro (da «La terra promessa») nel quale i versi strutturano una ripetizione musicale complessa e saggia di sei parole: sonno, pace, mortale, emblema, onde, furia. Parole che ritornano tutte nella terzina finale: «Crescente d’ultimo e più arcano sonno, / E più su d’onde e emblema della pace / Così divenni furia non mortale».

La musica filosofica di Petrarca e Leopardi

Da sette anni l’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU) organizza un ciclo di incontri dedicato a Filosofia e Letteratura. Dopo aver letto Proust (2018), Dürrenmatt (2019), Gadda (2020), Céline  (2021), Manzoni (2022) e D’Arrigo (2023), quest’anno parleremo di filosofia e poesia attraverso l’opera di tre fra i più grandi poeti di tutta la nostra storia letteraria: Petrarca, Leopardi e Ungaretti.
Giovedì 11 aprile 2024 alle 16.00 nella sede del Centro Studi di via Plebiscito, a Catania, avrò la gioia e l’onore di presentare la musica poetica e filosofica di Petrarca e di Leopardi insieme al docente che quando ero studente mi guidò alla comprensione della letteratura europea contemporanea, Giuseppe Savoca, ora Professore emerito dell’Università di Catania.
Nell’oceano della poesia universale, e particolarmente nel mare di quella italiana, l’opera dei poeti più grandi è certamente anche teoretica ed è insieme musicale, è quel «cantar che ne l’anima si sente» (Petrarca, Rerum Vulgarium Fragmenta, CCXIII, v. 6) che in Petrarca, Leopardi, Ungaretti vibra in modo magnifico e costante.
L’opera di Francesco Petrarca è interamente musica, una musica teoretica che diventa sistema del mondo in particolare nei sei Trionfi (1374). La scrittura di Giacomo Leopardi oltrepassa ogni distinzione tra poesia e filosofia, ponendosi come l’inevitabile, oggettivo, sereno strumento e risultato di un esercizio di piena razionalità e non di sterile disperazione. Leopardi pensa e scrive affinché il demone della nascita non prevalga, affinché sulla sua sconfitta si possa stendere la potenza del pensare, lo splendore della materia, della sua entropia, dell’«infinita vanità del tutto» (A se stesso, v. 16). Petrarca e Leopardi confermano che filosofia è anche guardare la Gorgone e non morire.

Leopardi filosofo

Sulla filosofia di Giacomo Leopardi
in Dialoghi Mediterranei
Numero 56, luglio-agosto 2022
Pagine 151-159

Indice
Operette antropologiche e metafisiche
Operette Zibaldone
-Le passioni
-Natura / Biologia
-L’umano come lingua
-Leopardi e Camus
-I limiti di Leopardi e il loro superamento

4526 pagine di scrittura quotidiana, fitta, pensata. E poi progettata come una serie di trattati che avrebbero dovuto, e hanno, delineato la filosofia di Giacomo Leopardi. Perché Leopardi è filosofo tanto quanto è poeta. Questo è chiaro ai suoi studiosi e l’auspicio è che diventi sempre più chiaro anche ai suoi lettori. La filosofia di Leopardi è espressa ed esposta certamente nel capolavoro che si intitola Operette morali; lo è nei suoi Pensieri; lo è nelle composizioni poetiche. E lo è nello Zibaldone di pensieri, che è opera dalla struttura insieme sistematica e aperta, dove la mole imponente dei testi, degli aforismi, degli appunti, dei saggi si rimanda reciprocamente e dalla quale emerge un insieme ben definito di temi che si condensano in trattati, sei trattati esattamente. Quest’opera accompagna e fonda l’intera scrittura di Leopardi e perciò in questo saggio ho tentato di porre in dialogo lo Zibaldone con gli altri scritti del filosofo-poeta.

Su Leopardi

Recensione a:
Rosalba Galvagno
Giacomo Leopardi tra antico e moderno
(Sinestesie 2019, pp. 102)
in L’immaginazione, n. 320, novembre–dicembre 2020, pagina 50

Un materialismo meditato a fondo; una cosmologia dell’infinito; un’antropologia disincantata e realistica; un’ironia sottile, sorridente, sarcastica; un pensiero sempre lucido. Sono anche questi gli elementi che fanno di Giacomo Leopardi uno dei maggiori filosofi del XIX secolo.
Il denso e vivace libro di Rosalba Galvagno segue alcuni dei percorsi di Leopardi dentro il mondo: le metamorfosi della materia e del mito; la sociologia della moda; la questione delle illusioni; lo schema ermeneutico del «velo»; la centralità del linguaggio.
Riporto qui un brano della recensione riferito proprio al linguaggio e al velo:
«Questo idolo del linguaggio è destinato allo squarcio e alla rivelazione. Un’epifania che ha esiti assai diversi in Leopardi e in Proust. Nel secondo la natura temporale degli enti di linguaggio che alla fine sono tutti gli umani, le relazioni, gli amori, (lo hanno ben chiarito anche i Fragments d’un discours amoureux di Roland Barthes) diventa la jouissance suprema, il disvelarsi del tempo ritrovato e quindi della pienezza aionica del corpomente. In Leopardi il velo trattiene sin che può e a stento la natura nichilistica degli amori, del divenire, degli eventi: “L’idolo insomma è sempre rappresentato come un oggetto sommamente idealizzato e quindi velato. Ma può accadere che il velo che proietta e/o protegge l’idolo, rischi di cadere o di lacerarsi e di svelare così l’oggetto supposto prezioso, come un oggetto deludente, derisorio, degradato e abietto o addirittura assente: un niente” (pp. 22-23).
Un niente. La radicalità di Leopardi, che questo libro mostra sino in fondo, conferma ancora una volta la natura teoretica della sua poesia».

Wille zum Leben

Life
di  Daniel Espinosa
Usa, 2017
Con: Olga Dihovichnaya (Kat), Rebecca Ferguson (Miranda North), Jake Gyllenhaal (David Jordan), Ariyon Bakare (Hugh Derry), Hiroyuki Sanada (Sho Kendo), Ryan Reynolds (Roy Adams)
Trailer del film

La prima prova che c’è vita anche su altri pianeti arriva sotto forma di un minuscolo organismo unicellulare proveniente da Marte. L’equipaggio in orbita terrestre lo chiama Calvin. L’entità evolve velocemente, si mostra fisicamente forte e molto intelligente. Si muove, agisce, sfugge, insegue, divora per vivere e sopravvivere. Dietro e dentro la sua forma tentacolare si mostra l’implacabile verità della vita, una struttura che esiste per assorbire altra vita, per distruggere ed essere distrutta. La vita -non gli umani- è in quanto tale bellum omnium contra omnes. «Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?» Alla domanda semplice e radicale di Leopardi nessuno risponde (Dialogo della Natura e di un Islandese, in «Operette morali»).
Assai più luminosa della vita è la materia. La materia che in un suo intervallo sarà stata anche protoplasmatica, vegetale e animale, sarà stata materia artificiale e macchinica. Ma quando la vita -questo straziante ed effimero intervallo nell’oggettività e nella potenza del cosmo- sarà scomparsa anche dal nostro insignificante pianetino, rimarrà la materia minerale e cosmica, la sua potenza. Rimarrà la materia e basta. Non più gli umani, entità miserrima dentro l’universo, e neppure soltanto gli altri animali, vertebrati o invertebrati, di terra o di mare, volatili e insetti. Nemmeno le piante, i fiori, il grano. Rimarrà soltanto la materia, le rocce, le lave. E le stelle. La pura luce, la loro luce. Le trasformazioni elettromagnetiche che invadono di fulgore lo spazio silenzioso nel quale di tanto in tanto la materia si raggruma in polvere, pianeti, astri. Qui non c’è sofferenza. Non c’è mai stata. Nulla nasce e nulla muore ma tutto diviene. Tutto è perfetto.

Il materialismo antiumanista di Leopardi

Il giovane favoloso
di Mario Martone
Italia, 2014
Con Elio Germano (Giacomo), Michele Riondino (Antonio Ranieri), Massimo Popolizio (Monaldo), Valerio Binasco (Pietro Giordani), Paolo Graziosi (Carlo Antici), Sandro Lombardi (precettore di casa Leopardi), Isabella Ragonese (Paolina Leopardi), Anna Mouglalis (Fanny Targioni Tozzetti), Federica De Cola (Paolina Ranieri)
Trailer del film

Il problema sono le biografie. Le quali possono essere a volte utili alla comprensione ma che nel caso di artisti, filosofi, scienziati costituiscono per lo più un equivoco. L’equivoco della dipendenza dell’opera dal fattore biografico. È evidente che le esistenze di tutti gli esseri umani -compresi coloro che hanno lasciato qualcosa di duraturo, di fecondo, di bello nel tempo- sono segnate anche da contraddizioni e da miserie. Poiché sono segnate dal limite. Il problema è la riduzione dell’opera a tale limite. Il film di Martone cade in questo errore. E dire che ne è consapevole. Uno dei momenti chiave del film è infatti l’incontro di Leopardi con dei letterati in un caffè di Napoli. Alcuni di costoro criticano il tono eccessivamente «malinconico» delle sue composizioni. Qualcuno cerca di difenderlo ricordando i problemi di salute del poeta e facendo dipendere da questo elemento tale tono. Leopardi risponde con determinazione che questo non c’entra nulla, che -se riescono- debbono smontare i suoi ragionamenti e non le sue malattie, che non debbono ridurre a una questione di salute o di umore ciò che è frutto «del mio intelletto». Esatto. Ma il film naviga in direzione opposta. E lo fa anche esagerando, inserendo scene -come l’incontro con le prostitute- del tutto superflue e tendenti solo a titillare l’inevitabile voyeurismo di ogni biografia.

Giacomo Leopardi non c’entra nulla con tutto questo. Leopardi è uno dei più importanti filosofi europei dell’Ottocento. Un pensatore che come Kierkegaard, Schopenhauer, Heidegger, Cioran sa che l’esistere umano è un oscillare tra il dolore e la noia, il cui ultimo esito è l’essere per la morte. «Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono» (Cantico del gallo silvestre, in «Operette morali», Garzanti 1982, p. 287). La metafisica di Leopardi è radicalmente  materialistica. Egli vede nel mondo un continuo aggregarsi e sciogliersi di enti, in cui ciò che rimane costante è solo la quantità di energia e di sostanza. Nel Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco leggiamo che «le cose materiali, siccome elle periscono tutte ed hanno fine, così tutte ebbero incominciamento. Ma la materia stessa niuno incominciamento ebbe, cioè a dire che ella è per sua propria forza ab eterno» (p. 294).
La logica conseguenza è il lucido e costante rifiuto di ogni antropocentrismo. L’infantile pretesa che il mondo sia stato fatto a esclusivo uso di una specie, che il volgere delle galassie e della materia sia finalizzato al progresso della vicenda umana, la dismisura antropocentrica -insomma- è deprecata da Leopardi con giusta ironia e a volte con ferocia. Prometeo riconosce di aver perduto la sua scommessa, di aver fatto un errore nell’esaltare le capacità dell’animale uomo, dato che il genere umano è sì sommo ma «nell’imperfezione» (La scommessa di Prometeo, p. 112). Nella chiusa del Dialogo di un folletto e di uno gnomo quest’ultimo splendidamente osserva che dopo la scomparsa degli umani «le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie» (p. 69). Leopardi si inserisce, così, in quella linea della filosofia europea che da Spinoza a Heidegger sottolinea la finitudine dell’ente uomo, il suo essere effimero in un mondo che si muove e vive in assoluta indipendenza rispetto alle sue componenti. La Natura risponde, gelida, all’Islandese che «se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvederei» (Dialogo della natura e di un Islandese, p. 155). Questa antica e sempre argomentata concezione teoretica si riduce nel film di Martone alla Natura che assume il volto della madre di Leopardi. Banale psicoanalisi, insomma.

Il primo a respingere con decisione il riduzionismo biografico è stato naturalmente lo stesso scrittore, il quale fu perfettamente consapevole della propria strategia ermeneutica e dei suoi fini e rifiutò con grande lucidità la tesi che voleva fare delle sue opere la mera conseguenza dei suoi malanni: «E sentendo poi…dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d’infermità, o d’altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso…poi tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi» (Lettera a De Sinner, 24.5.1832). A chi gli vorrebbe negare la qualità teoretica e l’oggettività dell’analisi, Leopardi così risponde: «Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera» (Dialogo di Tristano e di un amico, in «Operette morali», p. 377).
Una filosofia dolorosa, ma vera. Leopardi non fu un uomo che soffriva, fu un corpomente che pensava. Ha quindi ragione Jaspers quando afferma che «un’opera deve essere valutata esclusivamente sulla base del suo contenuto spirituale: la causalità sotto il cui influsso qualcosa è creato, non dice nulla sul valore della creazione stessa» (Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia 1996, p. 104).
In questo film sono certamente suggestive la forma, il taglio delle inquadrature, la luce. Suggestivo e ben trovato è soprattutto il titolo. E però di questo «giovane favoloso» non si comprende in che cosa consista la meraviglia, lo splendore, la favola. La vicenda si conclude con la lettura di alcuni versi della Ginestra da parte di Leopardi di fronte allo «Sterminator Vesevo». Una lettura che però si interrompe insensatamente prima dei versi finali, che avrebbero potuto esprimere meglio l’ironia e l’antiumanesimo del pensiero leopardiano: «Ma più saggia, ma tanto / Meno inferma dell’uom quanto le frali / Tue stirpi non credesti / O dal fato o da te fatte immortali» (vv. 314-317).

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