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Mente

È del significato l’essere transeunte, è della verità l’essere nomade. Significati e verità abitano nel corpo che è per sua natura l’effimero e cangiante coagularsi della materia in un ordine temporale destinato sin dal suo apparire alla dissoluzione. Prospettivismo e relativismo non sono tanto e soltanto un’opzione culturale, gnoseologica e neppure esistenziale ma costituiscono, assai più radicalmente, la struttura stessa –paradossalmente costante- del pensare e dell’esserci umani nel tempo/mondo.
Ogni verità che si pone fuori dal tempo, ogni principio che si autocostituisce come variabile indipendente nel cangiare incessante delle sensazioni e delle conoscenze, è solo una labile espressione del bisogno che abbiamo di stabilità in quella transizione incessante che la vita umana –individuale e collettiva- è. La finitudine biologica del corpo fonda il limite ontologico del mondo. Noi siamo questo limite. Pensare il tempo è possibile solo a partire da un processo che esso stesso produce. La mente è tale processo. La mente è un grumo di tempo consapevole del proprio passare, è la consapevolezza che il flusso temporale acquista di se stesso in un’entità biologica che produce significati come il ragno fila la propria tela.

 

Pluralità e interpretazione

Aa. Vv.
GIORNALE DI METAFISICA
Pluralità e interpretazione

Anno XXXIII (2011), nn. 1-2, Gennaio/Agosto
Tilgher, Genova 2011
Pagine 320

Plurale ed ermeneutico è per sua natura il linguaggio. L‘uniformità unificante vorrebbe invece ridurre la pluralità dei parlanti a una «globanglizzazione» (D .Di Cesare, p. 17) sostenuta anche di recente da ministri, funzionari e decisori politici italiani, i quali sono convinti che la lingua sia uno strumento qualsiasi, mentre invece essa è «l’organo che articola il mondo» (20), tanto che «anche il più sottile imporsi di una lingua, non è l’imposizione di uno strumento come un altro, ma è piuttosto, e più profondamente, l’imposizione di un modo di articolare il mondo» (23). È per questo che ogni monismo linguistico uccidendo le lingue consuma le differenze e invece che creare un «paradiso comunicativo» produce «l’inferno culturale e […] il trionfo della stupidità» (26).
Plurale ed ermeneutico è anche il prospettivismo nietzscheano, che non è una banale forma di relativismo proprio perché le opere di Nietzsche «forniscono dei criteri per discernere –ex negativo ed in positivo- il grado di validità delle varie prospettive» (S. Pastorino, 87). Si tratta di un prospettivismo vicino a quello che due fisici come Hawking e Mlodinow sostengono in un articolo pubblicato su Le scienze (dicembre 2010, p. 88), citato da P. Palumbo: «Non esiste un concetto di realtà indipendente da una teoria o dall’immagine che se ne ha. Adottiamo invece un punto di vista che chiamiamo realismo dipendente dal modello: l’idea che una teoria fisica o un’immagine del mondo sia un modello (in genere di natura matematica) con un insieme di regole che collegano gli elementi del modello alle osservazioni. Secondo il realismo dipendente dal modello non ha senso chiedersi se un modello sia reale, ma solo se concorda con le osservazioni. Se due modelli concordano con le osservazioni, nessuno dei due può essere considerato più reale dell’altro. Una persona può usare il modello più adeguato alla situazione che sta considerando» (138). Sono dei fisici, cioè dei veri scienziati, a mostrare l’ingenuità di non pochi filosofi tutti tesi a ‘naturalizzare’ sempre qualcosa: la mente, il linguaggio, la conoscenza. Ma che cosa è natura? Che cosa è realtà? La conoscenza umana passa sempre attraverso il corpomente che costruisce per se stesso percezioni, giudizi, significati. La materia è la materia della mente.

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Oggetti

Alexius Meinong
TEORIA DELL’OGGETTO
(Über Gegenstandstheorie [1904] – Selbstdarstellung [1920])
A cura di Emanuele Coccia
Quodlibet, Macerata 2003
Pagine 132

Il volume raccoglie il testo fondamentale di Alexius Meinong –Über Gegenstandstheorie, del 1904- e la Presentazione personale da lui redatta nel 1920 in vista di un’opera dedicata all’autopresentazione dei filosofi contemporanei. Nel loro insieme, i due saggi delineano con chiarezza una delle ipotesi più originali e interessanti sul rapporto tra la mente umana e gli altri enti.
Meinong parte dall’intenzionalità per arrivare a una teoria generale dell’oggetto. Non si può conoscere senza conoscere e rappresentarsi qualcosa. La filosofia, nella varietà delle sue articolazioni, è la scienza che si occupa di questi vissuti interni. E sin qui siamo in un ambito sia psicologico sia fenomenologico. Ma l’obiettivo di Meinong è assai diverso e consiste nel delineare una «trattazione teoretica dell’oggetto in quanto tale» (p. 23). Ma che cosa significa “oggetto in quanto tale”? È l’oggetto «indifferente all’esistenza [daseinsfrei]. Ho chiamato teoria dell’oggetto [Gegenstandstheorie] questa scienza dell’oggetto in quanto tale o dell’oggetto puro» (82).
Ponendosi al di là del pregiudizio a favore del reale, tale teoria si occupa di tutti gli enti: quelli ai quali è possibile attribuire un’esistenza nella realtà (Existenz) e quelli che pur non esistendo possiedono in ogni caso consistenza (Bestand). Existieren e Bestehen significano entrambi in tedesco “esistere” ma nell’utilizzo di Meinong -e nella traduzione di Coccia- il primo si riferisce all’esistere empirico, il secondo all’esistere in quanto tale. Tutto ciò che esiste consiste ma non tutto ciò che consiste deve anche esistere.
Quali sono dunque gli oggetti che pur essendoci non esistono? Sono molti. Prima di tutto gli oggetti matematici e geometrici. Numeri e forme geometriche, infatti, non possiedono esistenza empirica, sono non reali: «Non si vorrà certo accusare la matematica di estraneità alla realtà» e tuttavia «l’essere a cui la matematica in quanto tale deve interessarsi non è mai l’esistenza e mai essa si spinge in questo senso oltre la consistenza [Bestand]: una linea retta esiste così poco quanto un angolo retto e un poligono regolare quanto una circonferenza» (25-26). La matematica è dunque sostanzialmente un settore della teoria dell’oggetto. Si può dire che essa costituisca la «teoria speciale dell’oggetto», la quale nella sua forma generale si occupa di numerosi altri oggetti (47). Essa tratta, infatti, anche di  oggetti quali “identità e differenza”, la quantità di libri in una biblioteca, il numero delle diagonali di un poligono, gli antipodi, i significati, gli oggetti impossibili, quelli assurdi, come il quadrato rotondo o la montagna dorata. Essa affronta, inoltre, gli “oggettivi” e cioè i contenuti di molte proposizioni e giudizi. Ad esempio:

Quando dico “è vero, che ci sono antipodi” non è agli antipodi ma all’oggettivo “ci sono antipodi” che la verità è attribuita. Ciascuno comprenderà immediatamente che l’esistenza degli antipodi è qualcosa che certo può consistere [bestehen] ma da parte sua non può esistere. Ciò vale anche per tutti gli altri oggettivi, così che ogni conoscenza che ha per oggetto un oggettivo rappresenta al tempo stesso un caso di conoscenza di un non-esistente. (25)

L’esistenza stessa è un tale oggettivo e quindi essa «non esiste, ma può solo consistere» (87).
Da tutto ciò si comprende che per Meinong l’oggetto appartiene all’ontologia e non alla teoria della conoscenza. La Gegenstandstheorie è dunque una scienza autonoma rispetto alla gnoseologia e a ogni altro sapere. Autonoma anche dalla metafisica, che pure sembrerebbe lo sfondo e l’ambito naturale di un discorso siffatto. Rispetto alla metafisica, la teoria dell’oggetto è a priori, è più ampia e universale. Affermazioni teoreticamente assai forti, queste, ma ben difese da Meinong, il quale scrive che

la metafisica ha senza dubbio a che fare con la totalità di ciò che esiste, ma la totalità di ciò che esiste, con inclusione di quanto è esistito ed esisterà, è infinitamente piccola se paragonata alla totalità degli oggetti della conoscenza [Erkenntnisgegenstände]. Che tutto ciò sia trascurato con tanta leggerezza si deve certamente al fatto che l’interesse particolarmente vivo per il reale, interesse che appartiene alla nostra natura, porta all’eccesso per cui si considera il non-reale come un puro nulla o, più precisamente, a considerarlo come qualcosa che non offrirebbe in alcun modo alla conoscenza dei punti di aggancio, oppure forse alcuni, ma solo scarsamente apprezzabili.
Quanto poco una simile opinione sia dalla parte della ragione lo mostrano facilmente gli oggetti ideali [ideale Gegenstände], che hanno sì una certa consistenza, consistono [bestehen] ma non esistono affatto e perciò non possono essere in nessun modo reali. Uguaglianza e diversità, ad esempio, sono oggetti di questo tipo: essi consistono forse in questa o quella situazione tra realtà fattuali, ma non costituiscono alcun frammento di realtà. (24)

Appartiene alla teoria dell’oggetto tutto ciò che può essere predicato e conosciuto di un oggetto senza tener conto della sua esistenza. È questo un sapere illimitato, universale e a priori, il cui oggetto è  «tutto il dato», mentre la metafisica sarebbe una scienza «a posteriori che del dato sottopone ad analisi ciò che appunto può esser preso in considerazione dalla conoscenza empirica, cioè tutta la realtà», la quale -dovrebbe essere ormai chiaro- non coincide con tutto ciò che è possibile conoscere (55-57).
La logica del non esistente, del fuoriessente [auβerseiend], viene da Meinong espressa con alcune formule efficaci: «ci sono oggetti per i quali vale che siffatti oggetti non ci sono» (28), il che significa che il puro oggetto si pone al di là dell’essere e del non essere. «L’essere (inteso nel suo senso più ampio) che si ha davanti a sé in ogni oggettivo, si rivela o come essere in senso stretto (il paradigma è: “A è”) o come esser-così (“A è B”) o come con-essere (“se A, allora B”)» (87). L’esser così, l’essere in un certo modo dell’oggetto, è un campo di indagine che prescinde dalla questione relativa all’esistere o al non esistere dello stesso oggetto. «Non v’è dunque alcun dubbio: ciò che è destinato ad essere oggetto di conoscenza non deve per questo necessariamente esistere» (27).
In tal modo l’analisi di Meinong si pone anche oltre idealismo e realismo, ed è in ogni caso lontanissima dal soggettivismo che pretende di creare il mondo: «Per questo l’afferrare non può mai creare il suo oggetto o anche solo modificarlo, ma solo sceglierlo per così dire dalla molteplicità di ciò che è già dato (per lo meno come fuori-essente)» (112).
Il pensiero di Meinong affronta anche altri ambiti, quali la teoria del valore, i sentimenti -che il filosofo pone in un ingiustificato rapporto di anteriorità logica rispetto ai desideri-, il libero arbitrio. Per tutti vale un’osservazione significativa e condivisibile formulata nel paragrafo conclusivo della Presentazione personale: «L’arte di rendere quanto è già popolare ancora più popolare e, per ciò stesso, di diventar popolari mi è stata interdetta; e per quanto possa esser utile per introduzioni e digressioni retoriche, la filosofia non è mai stata del resto realmente popolare nell’esercizio della scienza» (126). Questo pensatore rigoroso e inclassificabile enuncia accenti personali di grande intensità quando accenna al tramonto del proprio giorno, al «destino di tutto ciò che è umano, la caducità […]. Tra non molto lo stesso destino esigerà da me in modo ancor più evidente un tributo personale. Spero che il mio sforzo e le mie aspirazioni siano riuscite ad accrescere durevolmente le generazioni future nel sapere o per lo meno nella speranza del sapere, non importa se in misura modesta» (79).
È parte di tale caducità dell’umano il fatto che «la ricerca scientifica è destinata solo eccezionalmente a condurre a risultati permanenti e definitivi: ciò che essa porta alla luce ha espletato il suo compito se è divenuto punto di partenza per nuove e migliori elaborazioni», che altri -continua- potranno e dovranno «proseguire in forma autonoma» (120). Ed è in questo spirito che sarebbe da porre una domanda sullo statuto del tempo all‘interno della Gegenstandstheorie. Il tempo, infatti, è un oggetto intessuto di molteplicità. Esso esiste certamente nella fisicità dei movimenti naturali e nel divenire del cosmo. Ma anche consiste nella sua dimensione più interiore di ritmo matematico, di significato sonoro, di percezione della durata, di temporalità sociale e di convenzione strumentale. E ritorna a essere esistente nei corpi che vivono e che quindi vanno verso la propria dissoluzione. In questa sua natura plurale e irradiante, il tempo è forse l’oggetto per eccellenza, il quale è e consiste, sta e diviene, trasforma ogni altro ente ed è in se stesso il suo proprio mutare.

Il cinema, l'essere

Terrence Malick
The Tree of  Life
Con: Brad Pitt (il signor O’Brien), Sean Penn (Jack da adulto), Jessica Chastain (la signora O’Brien), Hunter McCracken (Jack da ragazzo)
India-Gran Bretagna, 2011
Trailer del film

 

Ha filmato la memoria, ha filmato il dolore.
La memoria di un uomo adulto la cui mente trascorre dal lavoro a Manhattan all’età in cui era ragazzo, una madre ingenua e affettuosa lo accudiva, un padre autoritario e incerto lo vessava, due fratelli più piccoli condividevano il tempo e le azioni. Jack desiderava la morte del padre, la chiedeva a Dio.
Il dolore di una madre per un lutto senza fine, per il morire del figlio in guerra. Straziata, chiede conto al divino di questo evento, simile a milioni di altri. La risposta è la frase che fa da epigrafe al film: «Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? Mentre gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio?». È la non riposta che Jahvè dà a Giobbe nel capitolo 38, un testo del quale questo film sembra la dettagliata epifania. Su tutto, infatti, domina l’elemento liquido e cosmico, ispirato a parole come queste:

Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando erompeva uscendo dal seno materno? Da quando vivi, hai mai comandato al mattino e assegnato il posto all’aurora? Sei mai giunto alle sorgenti del mare e nel fondo dell’abisso hai tu passeggiato? Ti sono state indicate le porte della morte e hai visto le porte dell’ombra funerea? Per quale via si va dove abita la luce e dove hanno dimora le tenebre? Sei mai giunto ai serbatoi della neve? Per quali vie si espande la luce? Puoi tu annodare i legami delle Plèiadi o sciogliere i vincoli di Orione?

Eventi su eventi. Dal tempo cosmico che plasma gli astri, le sfere, i colori, all’apparire della luce tra gli alberi; dal pianeta dei dinosauri alle strade del Texas negli anni Cinquanta; dall’emergere di un bimbo nel mondo ai suoi giochi violenti con i coetanei.
Diventato adulto, questo bambino si muove tra grattacieli, deserti, rive di oceani. Ricordando parole ascoltate, parole dette, parole incarnate. Un film anche di iniziazione che si conclude con quella che i cristiani chiamano «la comunione dei santi», l’incontro di tutti finalmente al di là del dolore.
Terrence Malick ha insegnato filosofia ed è un maestro della tecnica cinematografica. Come il monolite di 2001, in questo suo film appare con regolarità una pura forma dinamica e dal cangiante colore, sulla quale l’opera si chiude. Ha filmato il sacro.

 

Stanley Kubrick

di Aa.Vv.
A cura di Hans-Peter Reichmann
Giunti Arte Mostre Musei, Firenze-Milano 2007
Pagine 382

Plato is Philosophy and Philosophy is Plato. L’affermazione di Emerson potrebbe essere volta in questa forma: Kubrick is Cinema and Cinema is Kubrick. La perfezione tecnica, la forza delle immagini, l’unitarietà del percorso che da Day of the Fight (1951) conduce a Eyes Wide Shut (1999), la continua innovazione e un classicismo fuori dal tempo, sono alcune delle ragioni che giustificano l’identificazione tra Stanley Kubrick e l’arte cinematografica.
«Lettore vorace, interessato a ogni argomento» (A. Frewin, p. 170), radicato nella cultura europea –i nonni paterni provenivano dalla Mitteleuropa-, Kubrick assorbe, rielabora, esprime e ricrea temi e domande filosofiche. E lo fa con la forza dirompente delle immagini, dei significanti e dei significati non verbali, di icone e simboli che non possono né devono essere spiegati. Il senso dei suoi film è evidente e nello stesso tempo inaccessibile anche perché essi vogliono descrivere la realtà del mondo e della psiche ma lo fanno con un atteggiamento di radicale disincanto nei confronti del potere comunicativo delle parole: «In a film, however, I think the images, the music, the editing and the emotions of the actors are the principal tools you have to work with. Language is important but I would put it after those elements» (cit. da R.M. Fischer, p. 230).

L’opera di Kubrick è una filosofia non verbale, iconica, sorretta da una logica lucida e da una matura antropologia. Non solo per i numerosi e più o meno espliciti riferimenti –la War Room del Dr. Strangelove è la Caverna platonica; HAL 9000 e il monolito sono simboli del pensiero tecnico e cosmico, della potenza e della fragilità di ogni «ragione strumentale» (V. Fischer, p. 157)…- ma soprattutto per la potenza di uno sguardo fenomenologico che non giudica bensì mostra, che esclude ogni psicologismo nella analisi e comprensione delle azioni umane, per attingere invece alle strutture biologiche, storiche, archetipiche della nostra specie. La caratteristica filosofica più importante del cinema di Kubrick è il suo profondo rispetto nei confronti della realtà e cioè degli enti, degli eventi e dei processi. Per questo «non esiste uno stile kubrickiano. Il Kubrick cineasta si caratterizza proprio per il fatto che il suo modo di procedere creativo si adatta al soggetto in questione e si sviluppa a partire da quest’ultimo» (C. Appelt, p. 317).
Il cosiddetto “perfezionismo” non è altro che una espressione di tale completa aderenza al reale, testimoniata dalle parole di Ken Adams a proposito di Barry Lindon, molto più che un aneddoto: «Facemmo ricerche sugli spazzolini da denti del periodo, sui contraccettivi, su una quantità di cose che alla fine non sono apparse sullo schermo» (R.M. Fischer, p. 223). Chi vuole descrivere il mondo deve infatti cominciare col rispettarlo e con l’averne cura in ogni sua componente.

È tale riconoscimento filosofico della complessa unitarietà del reale a fare dell’opera kubrickiana una delle più riuscite espressioni di superamento dei dualismi che impediscono di comprendere l’essere. Kubrick, infatti, nel descrivere l’uomo e il suo mondo coniuga in modo inestricabile ragione e sentimento, tragedia e ironia, comicità e disperazione, maschera e autenticità, “bene” e “male”. Davvero «il pubblico rimane privo di una morale della favola» (Ivi, p. 230).
Kubrick filosofo sa da subito e conferma ogni volta che la lotta costituisce una condizione ineliminabile della corporeità, che bìos e thanatos, desiderio e guerra sono tra di loro intrecciati. Dagli scontri fra boxeur delle prime pellicole, passando per le guerre di Fear and Desire, Spartacus, Paths of Glory, Dr. Strangelove, Barry Lindon, attraversando la violenza estrema delle relazioni personali, familiari, sessuali e sociali di Lolita, A Clockwork Orange, The Shining, si arriva al culmine di Full Metal Jacket, «forse il film di guerra più radicale che sia mai stato girato. Nel film di Kubrick (…) l’opposizione tra guerra e umanità si rivela illusoria» (G. Seesslen, p. 276), illusione confermata da Eyes Wide Shut, il cui tema principale è probabilmente il proustiano “essere di fuga” che ogni umano rappresenta per l’altro, una impossibilità di possedere che trasforma le relazioni in una guerra e fa dell’amore un sogno e un incubo, maschera suprema del niente.

Lo sguardo teoretico di Kubrick va ancora oltre e arriva a cogliere due cardini della comprensione filosofica: il determinismo, la verità nomade. In The Killing (Rapina a mano armata) l’intreccio di caso e necessità produce un perfetto meccanismo di eventi dal quale è impossibile uscire, così come il vero tema di Arancia meccanica è il condizionamento biologico di ogni essere umano. La sottile e inspiegabile impressione di “innocenza” che nonostante tutto promana da Alex si fonda su questa inevitabilità del suo comportamento, per la quale non serve la rozza tecnologia della “cura Ludovico” e che invece acquista senso alla luce del principio deterministico enunciato da Schopenhauer: «operari sequitur esse, ergo unde esse inde operari» (La libertà del volere umano, Laterza, p. 118). Concezione che ha una sua profonda espressione metaforica nell’annotazione scritta da Kubrick in una bozza di sceneggiatura del progettato film su Napoleone: «forse è proprio così: il grande campione di scacchi non può battere il peggiore dei giocatori in meno di un determinato numero di mosse. A un osservatore casuale può sembrare che il dilettante possa tenergli testa, ma un vero scontro non c’è mai stato» (citato da E.M. Magel, p. 208); un “vero scontro” tra il singolo e la necessità “non c’è mai stato”, davvero.

L’essere, il tempo, appaiono così per quello che sono: labirinti della mente. Il dedalo su cui Jack Torrance si sofferma e dentro il quale trova la morte è il labirinto temporale e interiore nel quale l’immobilità spaziale della figura congelata di Jack è identica all’immobilità temporale che fa di lui da sempre il custode dell’Overlook Hotel, come conferma la foto su cui il film si chiude: una festa del 1921. Il centro immobile del Tempo coincide con il suo eterno ritornare. Un’eternità che colloca 2001. A Space Odissey al centro geometrico del pensiero di Kubrick, una centralità che rende profondamente unitaria la sua opera, un percorso nel quale ciascun film si collega a ogni altro attraverso una serie ricchissima di rimandi, temi, citazioni intertestuali, obiettivi, crescita sapienziale.
L’occhio dello Starchild che chiude 2001 diventa nella prima immagine del film successivo l’occhio di Alex, così come l’avanzatissima intelligenza tecnologica di Hal -fattasi nemica dell’umano- apre alla intelligenza biologica dell’Overlook Hotel, un vero e proprio animale che divora la mente di chi lo abita fino a inglobarlo in sé. Lo scimmione preistorico diventa umano nel momento della violenza, il grande e grosso Palla di lardo diventa uomo anch’egli quando uccide il sergente suo aguzzino. Il peregrinare di David nel tempo diventa sia il cammino di ascesa e crollo sociale di Barry Lindon sia il viaggio del Dottor Harford nel labirinto del desiderio e della paura…Un vagabondare che caratterizza tutti i film e i personaggi di Kubrick e che si dispiega come nomadismo di una verità che riserva sempre nuovi luoghi, dimensioni e significati.

La mobile verità del mondo genera il nomadismo della mente ed è da essa prodotto. In questo cammino, la possibilità è l’itinerario verso lo svelamento dell’enigma, il rischio è il precipitare verso la follia, verso le tenebre…ed è a questo punto che si mostra la radice filosofica e gnostica del pensiero di Kubrick. Il familiare diventa mostruoso, la Heimat –la dimora, la solida terra che ben si conosce- si trasforma nello unheimlich, nell’inquietante che non dà più punti di riferimento e dentro la cui oscurità ci si può perdere per sempre.  Ci sono due luoghi visuali in cui tenebre e luce sembrano trapassare l’uno nell’altro e fondersi: il primo è la scena conclusiva di Dr.Strangelove nella quale «accompagnato dall’idea che il mondo segua una legge matematico-divina, il cerchio di luce diventa l’immagine simbolica della forma di un cosmo irradiante/irradiato, infuocato e morente che, nella notte del cosmo, muore con la stessa rapidità con cui era nato» (B. Hars-Tschachotin, p. 116); il secondo è il duplice esito del labirinto di Shining: «dal momento che il labirinto combina due motivi collegati con l’infinito, uno dei quali è un motivo ornamentale che porta ad un vicolo cieco, chiuso, inguaribilmente pessimistico (l’eterno ritorno collegato a Jack), mentre l’altro, la spirale, è un motivo positivo, aperto, ottimistico (l’eterno divenire collegato a Danny), il labirinto simboleggia alla fine il trionfo del figlio sul padre, del “figlio della luce” sull’oscura violenza» (M.Ciment, cit. in U. von Keitz, p. 240).

Dentro il cinema ma anche molto al di là di esso, il pensiero di Kubrick riconosce l’indistruttibilità del male e del dolore: Hal 9000/l’albergo della scintillanza/Jack Torrance e i suoi fantasmi/la pervasività del conflitto e della distruzione…sono la potenza delle tenebre. Ma l’occhio della mente cinematografica e filosofica può guardare la Medusa e non morire: gli occhi chiusi su questo mondo di sogno si aprono col cinema ad altre visioni perché –afferma Kubrick- «il vero scopo di un film è fare luce» (cit. da G. Seesslen, p. 278). Una foto di Weegee ritrae il giovane regista «misteriosamente ammantato nella materia stessa del cinema: luce e ombra» (D. Kothenschulte, p. 137). La stessa materia dei suoi pensieri.

Metafisica. Classici contemporanei

A cura di Achille C. Varzi
Laterza, Roma-Bari 2008
Pagine XI-536

Nel suo importante saggio del 1953 On What There Is, Quine sosteneva che «l’ontologia è fondamentale per la costituzione dello schema concettuale con cui si interpretano tutte le esperienze, anche le più comuni» (qui a p. 33). La svolta ontologica e metafisica che intride la filosofia analitica in questo inizio del XXI secolo ha quindi radici antiche, che la densa antologia curata da Varzi ben testimonia. Dalla sua lettura si comprende facilmente che in ambito analitico non si è mai voluto cancellare la metafisica o dichiarare irrilevante la sua tradizione ma si è inteso modificare alla radice il mondo di affrontarne i temi, che qui vengono riassunti e raccolti in sei grandi ambiti: Esistenza, Identità, Persistenza, Modalità, Proprietà, Causalità.

Molti autori sembrano non tener conto dell’avvertimento per il quale il mondo si dice in molti modi, rendendo invece esclusivo un approccio logico-formalistico che non di rado cade nella pedanteria o precipita in oscure inconcludenze. E tuttavia alcune analisi e tematiche risultano di grande interesse e fecondità. Un punto di partenza decisivo è la distinzione elaborata da Frege e ripresa da Quine tra Sinn e Bedeutung, senso e riferimento, connotazione semantica e semplice denotazione oggettiva. I significati non sono soltanto «idee contenute nella mente» (Quine, 32) ma costituiscono la materia con la quale le menti costruiscono il mondo e se stesse in esso. E sta anche qui la ragione della persistenza degli universali nel discorso filosofico. Perché, semplicemente, «senza di essi non sarebbe possibile parlare, ed il pensiero si ridurrebbe a ben poco» (Quine, Identity, Ostension, Hyposthasis, 1950, qui a p. 203). Russell si spinge sino ad abbracciare esplicitamente il platonismo riconoscendo l’esistenza ante rem degli universali:

«[Certe] entità quali le relazioni fra le cose sembrano avere un’esistenza in certo modo diversa da quella degli oggetti fisici, e diversa anche da quelle delle menti e dei dati sensibili (…) È un problema molto vecchio, introdotto in filosofia da Platone. La platonica “teoria delle idee” è appunto un tentativo di risolverlo, e a parer mio uno dei tentativi più riusciti fra quanti ne siano stati fatti sinora (…) Nessuna frase può essere costruita senza una parola almeno che indichi un universale (…) Così tutte le verità implicano un universale, e ogni conoscenza di verità implica la conoscenza degli universali» (The World of Universals, 1912, qui a pp. 333-335).

Una specialissima forma di platonismo è anche il concetto di designatore rigido proposto da Kripke. Su queste tematiche i filosofi analitici si incontrano e scontrano in modo anche assai duro, accusandosi di formulare enunciati che non hanno senso. Così Quine nei confronti di Carnap (quasi a contrappasso della stessa accusa rivolta da quest’ultimo a Heidegger), il quale risponde per le rime deplorando «il fatto che alcuni nominalisti contemporanei denominino “platonismo” l’ammissione di variabili di tipo astratto. Quanto meno, questa terminologia è priva di significato, conducendo all’assurda conseguenza che la posizione di chiunque accetti il linguaggio della fisica con le variabili numeriche reali (…) risulterebbe denominabile platonica» (Empiricism, Semantic, and Ontology, 1950, qui a pp. 56-57); rincarando poi la dose con queste affermazioni: «Decretare dogmatiche proibizioni di certe forme linguistiche, invece di sottoporle a controllo sulla base del loro successo o fallimento nell’uso pratico, è più che futile; infatti, ciò potrebbe ostacolare il progresso scientifico», equiparando i “pregiudizi” di Quine a quelli di matrice religiosa e irrazionale (Ivi, p. 64).

Anche in tali diatribe la filosofia analitica somiglia alla tradizione alla quale meglio la si può accostare: quella delle Disputationes medioevali: «I tre principali punti di vista a proposito degli universali, vengono designati dagli storici come il realismo, il concettualismo e il nominalismo. E, praticamente, queste stesse dottrine riappaiono nelle ricerche di filosofia della matematica del ventesimo secolo sotto i nuovi nomi di logicismo, intuizionismo e formalismo» (Quine, On What There Is, qui a p. 37).

Il tema metafisico fondamentale anche in ambito analitico è il tempo. Lewis ha proposto di distinguere il significato dei verbi Endure e Perdure, che in inglese indicano genericamente la durata temporale di qualcosa. Col primo verbo si sostiene dunque il permanere tridimensionale degli enti che persistono nella loro interezza spaziale, col secondo il loro perdurare quadridimensionale di parti temporali successive. Lewis sostiene la necessità di abbandonare la permanenza a favore della perduranza. Arriviamo così alle soglie di una comprensione del mondo come evento (l’Ereignis heideggeriano tanto rifiutato e non compreso da molti analitici) e quindi come insieme dinamico di enti, azioni, processi, proprietà, relazioni. Se «non vi è niente di più importante, credo, che il riconoscere che le proprietà e le relazioni sono tra i costituenti fondamentali della realtà» (Armstrong, Properties, 1992, qui a p. 389), allora la questione ontologica è ben riassunta dal rompicapo platonico (Fedone 58A) della Nave di Teseo (lentamente ma integralmente sostituita dagli ateniesi nelle sue componenti) .

A questo e a simili problemi (come “il carro di Socrate”) si risponde in due modi:
A) La nave o il carro non sono soltanto i materiali dei quali sono composti ma i materiali più il significato a essi attribuito, sono il senso con il riferimento, la connotazione insieme alla denotazione.
B) Navi, carri, mattoncini sono entità temporali, sono quark, atomi, molecole, macrostrutture in continuo dinamismo, sono entità/eventi ai quali è l’osservatore a conferire un’identità sempre provvisoria, cangiante e insieme perdurante; temporale, quindi.
Il mondo è fatto di enti permanenti, eventi perduranti e significati che nascono, si distendono, mutano nello spaziotempo. Non possiamo bagnarci nelle medesime acque ma possiamo ben immergerci nello stesso fiume, perché le acque sono elementi materiali che scorrono, un fiume è un significato mentale che perdura. La cronosemantica può coniugare il discorso ontologico con quello linguistico, mostrando in tal modo la fecondità della metafisica.

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