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De gli eroici furori

Giordano Bruno
De gli eroici furori
In Dialoghi italiani / Dialoghi morali
A cura di Giovanni Gentile e Giovanni Aquilecchia
Sansoni Editore, 1985
Pagine 925-1178

eroici_furoriLa tonalità mistica viene applicata da Bruno agli oggetti naturali, in primo luogo al sapere stesso, che costituisce l’obiettivo del furore eroico. Il filosofo crede in un «ordine delle cose» che distingue gli umani tra di loro, gli ignobili dai nobili, poiché senza tale ordine gli sembra che si cada nella perversione di «certe deserte ed inculte repubbliche» (Parte II, Dialogo II, p. 1114). Ciò a cui Bruno mira è una forma d’essere nella quale si possa diventare «megliori, in fatto, che uomini ordinario», sino a porsi all’altezza del divino, dimensione nella quale il sapiente «niente teme, e per amor della divinitade spreggia gli altri piaceri, e non fa pensiero alcuno della vita» (Parte I, Dialogo III, pp. 986 e 988).
C’è qui un tratto socratico che da Platone conduce a Plotino e a ogni teologia negativa, per la quale il senso ultimo della conoscenza supera qualunque capacità della mente che apprende. C’è in Bruno soprattutto un profondo distacco, una liberazione non per rinuncia ma per oltrepassamento, nella convinzione che il male e il bene, i piaceri e le pene, il già e il non ancora, sono mutevole manifestazione di una struttura dell’essere della quale l’umano è parte consapevole ma identica a ogni altra. Il platonismo viene dunque attraversato da Bruno senza imitazioni né rigidità ma in una profonda consonanza teoretica e morale: gli oggetti e le passioni umane sono traccia di una verità incorruttibile alla quale l’Eroico indirizza ogni sua energia, sino a diventare un Atteone che trasformi se stesso da cercatore del vero in preda della verità, «onde non più vegga come per forami e per finestre la sua Diana, ma avendo gittate le muraglie a terra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte […]; perché dalla monade che è la divinitade, procede questa monade che è la natura, l’universo, il mondo» (Parte II, Dialogo II, p. 1125).
L’unità dell’essere è la sua stessa molteplicità, la ricchezza incomparabile di una Identità che in ogni istante è la propria Differenza.

Essere è tempo

Past, Present, and Future
A philosophical essay about Time
di Irwin Chester Lieb
University of Illinois Press
Urbana and Chicago 1991
Pagine 260

We are temporal, through and through (p. 40)

Past-Present-and-Future-Lieb-IrwinComprendere il tempo implica la conoscenza della mole di informazioni, di dati, di certezze e di interrogativi che le scienze della natura offrono, coniugandole tra loro mediante un linguaggio e una metodologia che del tempo intendono capire l’essere, la verità, l’identità/differenza.
Il Saggio filosofico sul tempo di Irwin C. Lieb è un esempio assai chiaro di questa metodologia. Il suo titolo è tanto semplice quanto impegnativo: Past, Present, and Future. La tesi fondamentale di Lieb è che passato, presente e futuro esistano. Che esistano davvero, che possiedano una densità ontologica e non soltanto una modalità psichica o epistemologica. Il tempo sarebbe quindi una realtà piena, totale e pervasiva. Il tempo infatti «not derived from anything else and its reality is most evident in the continuous passing in everything that moves, changes, lasts, or even remains the same» (p. 4); c’è «something continuous, steady, and indipendent of other motions, and this can be called time self», questo qualcosa è insieme «in the things themselves and in their relations to one another» (6).
Ciò che per lo più impedisce di intendere tale realtà piena, sostanziale e relazionale del tempo è il riduzionismo ontologico che ritiene esserci una e una sola forma di esistenza reale, identificata con la massa/volume/peso. Contro tale monoteismo metodologico dobbiamo capire che «the distinction we need is not between what is and not real but between kinds of reality. Everything is real, but things are real in different ways» (3). La natura scaturisce infatti da una continua produzione d’essere, da una costante e indefinita generazione del nuovo. Tale potenza creativa produce i due elementi fondamentali dei quali l’esseremondo è composto: Time e Individuals. Entrambe le parole non si riferiscono a degli enti ma a dei processi, i quali rendono possibile l’esistenza degli enti e ne garantiscono la comprensibilità.

Individuals è il termine chiave di questa ontologia poiché con esso Lieb intende qualcosa che esiste nel passato, nel presente e nel futuro. Qualcosa dunque che non c’è soltanto spazialmente ma che possiede perduranza (per usare la definizione/distinzione di D.K.Lewis): «Individuals are conceived to extend from the present into the future and the past, and each state of them is different from the others. […] Individuals are always changing, through and through. Their fundamental change is to reconstitute themselves. […] Not being confined wholly to a moment, individuals are spread through time. Time and individuals are inseparable» (11). Come si vede, individuals non sono degli enti ma della attività, delle strutture ontologiche che esistono perché accadono. Incessantemente accadono. Questo costante accadere è la struttura ontologica di base. È il fondamento. Il mutamento consiste nel diventare passato di qualcosa che continua a esistere anche nel presente, proprio perché «the being of an individual is not wholly present» (191).
Il presente è quindi il tempo degli enti singoli, degli enti astrattamente intesi perché privi di relazione.  Senza questa modalità del tempo non potrebbero naturalmente esserci le altre -«the present is nodal for the other parts of time» (12)- ma non bisogna da ciò concludere che le altre siano soltanto un ricordo, un’attesa. È esattamente tale errore categoriale e ontologico a produrre molti equivoci sulla temporalità, a partire da quelli -fondamentali- della estensione del tempo e dunque sostanzialmente della sua spazializzazione. Il presente non è un punto nel tempo poiché il presente da solo è un’astrazione. Ma anche il passato da solo è un’astrazione, così come il futuro. Il tempo è unitario, sono le azioni nel tempo a poter essere presenti, passate e future. Se l’accadere è possibile è perché il presente, il passato e il futuro sono tutte strutture e modalità reali della natura. In modi diversi, certo, ma tutti reali. Ciò che rende possibile l’identità del tempo e la differenza dei suoi modi è l’intreccio indissolubile di essere e divenire.

There are two fundamental realities and they are together. […] There are beings and becoming; realities that are together are also distinct. There should therefore be a twining of the traditions: because individuals and time are each real and are inseparably together, being and becoming are equally fundamental and, by being so, they ensure that the change of the world. (81)

Dato che le azioni e gli eventi non esistono soltanto come presente e nel presente, la struttura del mondo è assai più complessa, più creativa e insieme più ordinata rispetto a come il monoteismo temporale la immagina. Gli individuals sono eventi singoli e separati nel presente, là dove sono anche parziali. Essi diventano completi nel passato mentre le parti del loro essere non ancora compiute costituiscono il futuro.
Ciò che chiamiamo spazio è questo presente che estrapola dall’intero dell’essere una sua parte e la rende visibile qui e ora. Passato e futuro sono dunque modalità diverse rispetto al presente anche perché è soltanto nel presente che gli enti/eventi (individuals) sono discreti, diventano singoli. Nel passato e nel futuro gli stessi enti/eventi sono coniugati con il tutto -«in the past and future parts of them individuals are merged together»- e costituiscono l’intero. (31) Gli individuals diventano passato mentre stanno diventando presente e anche questo rende il passato del tutto reale. Non soltanto, quindi, perché ciò che accade ora è conseguenza e séguito di ciò che è accaduto prima ma anche e soprattutto per altre due ragioni. La prima è che «what is in the past is like a possibility that that has been affected by being actualized» (115), a conferma della struttura dinamica dell’essere; la seconda è che «the past has mighty effects in the present, not by acting on it -the past has no agency- but in the way in which we shape and form ourselves on it» (255), a conferma della struttura mentale dell’essere.
Il futuro è per Lieb altrettanto reale per due ragioni. La prima riguarda l’apertura degli enti/eventi alle loro stesse possibilità; se il futuro non fosse reale, infatti, non potremmo comprendere che cosa gli enti sono, come possono agire, quali sono le loro possibilità. La seconda ragione concerne la comprensibilità del cambiamento: è evidente che senza la realtà del futuro non potremmo descrivere nessun movimento e mutamento.
L’esistenza in sé di passato, presente e futuro è mostrata per Lieb anche da ragioni assiologiche oltre che da quelle ontologiche ed epistemologiche. Gli eventi possiedono nel futuro un valore estetico, essendo costituiti anche dall’immaginazione come possibilità; nel presente un valore etico, dato che comportarsi significa sempre valutare alternative e scegliere quelle che vengono ritenute buone, le migliori; nel futuro un valore storico, frutto della sedimentazione dell’accaduto nei parametri del tempo in cui è accaduto e in quelli del tempo in cui viene valutato, in modo da trovare e dare loro un significato razionale.
Da ogni punto di vista, dunque, e in ogni struttura del reale l’essere è tempo, «whatever is cannot but be in time» (183) e «our final reality is not something apart from time but is instead the whole of the past, the present, and the future and all the value there is and can be in them» (251).

Partito da una serie numerosa e serrata di interrogativi essenziali -ad esempio: «Why, how, when, and in what ways do they change, and is their having to change connected with each moment’s having to be new?» (9-10)-, l’analisi di Lieb si pone in modo franco e coraggioso contro le risposte di moltissimi filosofi. Non soltanto di coloro che hanno negato esplicitamente il tempo; non soltanto contro la lunga tradizione parmenidea che intesse il pensiero occidentale; non soltanto contro le prospettive riduzionistiche -antiche o contemporanee che siano- volte a confinare la temporalità dell’essere alla misurabilità dei tempi della fisica; ma anche contro numerosi fra coloro che vengono di solito ritenuti sostenitori della realtà del tempo, i quali pensano il tempo come flusso in cui soltanto il presente è davvero reale e il resto è realtà degradata, derivata, seconda.
A tali prospettive Past, Present, and Future oppone una peculiare forma di platonismo e di spinozismo dinamico, per il quale «the passage of time and the activity of individuals are strands of process inside the unchanging totality of the real» (12). Il mondo delle forme e dei paradigmi non sta, come Platone ritiene, al di là del tempo e separato dal tempo. È piuttosto l’accadere senza posa e ordinato del mondo a produrre le forme, i paradigmi e il loro intreccio. Infatti, «the most general idea in this essay is that what is real is an unchanging totality; there can be no additions to it, and nothing can be taken from it. This does not mean, however, that things do not change and that there are no novelties. It means that all processes and the passage of time itself take place inside the otherwise unchanging totality» (257).

In tale profonda e feconda compresenza di essere e divenire traluce la struttura metafisica e gnoseologica che sola permette di comprendere ciò che è perché di ciò che è costituisce la forma naturale e il riflesso mentale: la dinamica di identità e differenza. Se la capacità che il corpomente umano e animale ha di riconoscere regolarità e identità nel mondo «depends on our ability to remember what has occurred and to recognize important kinds of similarities» (216), è perché «the natures of individuals also change; they are modified but remain the same. These natures are the general ways in which individuals change and act» (193). Essere, verità, identità/differenza, tempo vengono così coniugati nel profondo delle loro relazioni costituenti la natura. È anche questo che fa della metafisica la più radicale e profonda conoscenza che del tempo sia possibile nel tempo maturare.

Vedere il tempo

Ontologie del tempo e nichilismi atemporali
in Giornale di Metafisica
1/2013 Scrittura ed esistenza – Estate 2014
Pagine 31-48

Pdf del saggio

GdM_2013:1Abstract

The essay deals with some of the analytical and phenomenological proposals related to ontology of time and neo-platonic theology. About such opinions bedrock, it criticizes some kinds of timelessness nihilism, reaching the conclusion that – in opposition to neo-eleaticism, Ricoeur’s third aporia of time, and sometimes to hard sciences – not only time exists and can be analysed from a metaphysical perspective, but it is also visible, then investigating from a phenomenological perspective.

Heidegger / Wittgenstein


Venezia_finitezza

Recensione a:
La misura della finitezza. Evento e linguaggio in Heidegger e Wittgenstein
di Simona Venezia
(Mimesis 2013, pp. 250)
in Discipline Filosofiche (aprile 2014)

Per l’Autrice quello tra Heidegger e Wittgenstein è «il vero confronto della filosofia del Novecento», perché è il confronto in cui la filosofia interroga il proprio statuto, le possibilità e i limiti. Questo studio dà conto con puntualità e rigore dei testi nei quali i due si sono incrociati ma va poi molto oltre, disegnando un geroglifico composto da una varietà di segni, i più importanti dei quali sono l’angoscia, la teoresi, la prassi, il linguaggio, il mostrare, il silenzio.

Bianco / Ontologia

Piero Manzoni 1933-1963
Palazzo Reale – Milano
A cura di Flaminio Gualdoni e Rosalia Pasqualino di Marineo
Sino al 2 giugno 2014

Piero Manzoni cominciò con cupe opere «nucleari», dense e scurissime, dalla quali sembra gorgogliare una profonda angoscia. Poi, intorno al 1957, l’epifania del bianco, i magnifici Achrome. Opere dinamiche e luminose, realizzate con una grande varietà di supporti, tutti fissati con il caolino. Achrome di carta, pelli, paglia, cloruro di cobalto, fibra artificiale, peluche, panini (le milanesi michette), polistirolo, ovatta, cotone idrofilo, panno, sassolini. Insieme a queste opere le Linee tendenti all’infinito dello spazio e del tempo ma intanto inscatolate in cilindri e numerate (in esse, scrisse Vincenzo Agnetti, «finalmente il tempo si è fatto visibile»).
Ancora: Uova con sopra le impronte digitali di Manzoni, uova che dai partecipanti alle sue serate venivano mangiate (eucaristia) o, da qualcuno, conservate (reliquia). La Base magica, saliti sulla quale si diventava automaticamente delle opere d’arte con tanto di certificato da parte dell’autore; ma lo si rimaneva solo fintanto che si stava là sopra. Cominciò a firmare i corpi di alcune modelle rendendole Sculture viventi e a soffiare in dei palloncini, creando il Fiato d’artista.
Nel 1961 l’editore Jan Petersen gli propose di pubblicare una monografia a lui dedicata. Manzoni la intitolò Vita e opere e la fece consistere in una serie di fogli di plastica traslucida. Vuoti.
Vuoti? No, riempiti della pienezza semantica della quale l’opera di Manzoni è forse la più radicale testimonianza nell’ambito delle arti figurative. Manzoni_Sculture_viventiManzoni infatti scrisse che «un quadro vale solo in quanto è essere totale», che le immagini devono risultare «quanto più possibile assolute» e cioè non debbono valere per ciò che esprimono o che spiegano «ma solo in quanto sono: essere». Il gioco serissimo dei significanti va molto oltre Duchamp, va oltre tutto. L’opera è un puro significare senza alcun significato. Soltanto in questo modo si può raggiungere l’obiettivo al quale Manzoni si dedicò con lucidità: «La trasformazione dev’essere integrale» e radicata sul terreno universale dell’essere, la temporalità. «Consumato il gesto, l’opera diventa dunque documento dell’avvenimento di un fatto artistico». Sul significante assoluto -il tempo e il suo procedere- la mostra infatti si chiude: «Non c’è nulla da dire: c’è solo da essere, c’è solo da vivere».

 

Riscoprire Husserl

Husserl
di Vincenzo Costa
Carocci, 2009
Pagine 232

 

Costa_HusserlLa fenomenologia fu dal suo fondatore sempre concepita e praticata come un metodo, anzi «come il metodo stesso della filosofia», in grado di «abbracciare la totalità dei problemi filosofici» (p. 24).
Il rifiuto del naturalismo non è soltanto metodologico ma è anche metafisico e consiste nella critica a ogni forma di ingenuo realismo che ritiene di poter cogliere un mondo indipendente dal fenomeno, vale a dire da come la soggettività trascendentale (non quella empirica) costruisce la realtà stessa mentre la percepisce, la valuta, la vive. Il contenuto di qualsiasi percezione può costituire un errore ma il fatto che io veda ciò che vedo non può essere mai un inganno, proprio in quanto è ciò che la mia coscienza sta in questo momento vivendo. Come anche Meinong sostiene, gli enti possono consistere (Bestehen) anche quando il loro correlato fisico ed empirico non esiste: «L’albero che vedo forse non esiste, ma non vi è dubbio che io vedo un albero» (27). Se «posso essere colpito da oggetti che non esistono» questo significa che a costituire il mondo della coscienza, e dunque il mondo, non sono le cause empiriche bensì le motivazioni intenzionali poiché -scrive Husserl- «la relazione reale viene meno quando la cosa non esiste, la relazione intenzionale invece sussiste» (134). La riduzione fenomenologica è quindi il darsi del mondo senza presupporne l’esistenza al di là del suo apparire, della sua radicale fenomenizzazione. Possiamo essere certi dell’immanenza degli enti, del modo in cui ci appaiono, non della loro trascendenza, del mondo in cui sarebbero al di là del loro apparire. È esattamente questo il luogo della certezza filosofica. Esso si chiama intenzionalità ed è fatto della materia sensibile che appare (hyle), del modo in cui appare -come percezione, immaginazione, credenza, calcolo o altro- (noesi), del contenuto di tale apparire in quanto apparire, dell’ente/evento come viene percepito, immaginato, creduto, calcolato (noema).
Materia, noesi e noema sono sempre semantici e temporali; sono «il senso che lega in unità una molteplicità di sensazioni» (46); sono « la forma che essi delineano» (90); sono l’insieme degli enti, degli eventi e dei processi per noi colmi di significato. E tutto questo è possibile perché questo senso e tale forma costituiscono se stesse come strutture temporali, essendo la temporalità «una forma di ordinamento senza della quale niente potrebbe apparire» (51). Non, però, come struttura esterna ed estranea agli enti, agli eventi e ai processi ma come il modo stesso della loro manifestazione, che in fenomenologia equivale al modo stesso del loro costituirsi ed essere.
È anche a motivo di questo nostro percepire il tempo che intesse le cose e le loro relazioni che «noi vediamo costantemente più di quanto ci è dato sensibilmente» (82), poiché ciò che Aristotele e Kant hanno chiamato ‘categorie’ non viene soltanto pensato ma ci è dato intuitivamente attraverso la capacità che il nostro corpomente possiede di collocare ogni singolo ente e ogni evento in un tessuto semantico e temporale che non sta evidentemente nella materia ma abita nel modo in cui essa si costituisce nella coscienza, sta -appunto- nel fenomeno.
Un radicale teleologismo della ragione sta al cuore della rigorosa presentazione che Vincenzo Costa ci offre del filosofo. Dalle Ricerche logiche alla Crisi delle scienze europee e alla mole sterminata di manoscritti, la fede -non c’è altro modo di definirla- di Husserl consiste nella convinzione che «storia non significa semplicemente cambiamento, ma sviluppo guidato da un’idea infinita, orientato verso un telos» (178) che affonda nel Wille zum Leben inteso non come volontà senza senso e senza scopo ma in quanto «nucleo di assoluta razionalità in via di dispiegamento, in corso di manifestazione» (203). Non dunque l’accoglimento dell’umano come finitudine consapevole di se stessa ma come vita di un io trascendentale che -scrive Husserl- «è la vita di un essere finito diretto verso l’infinità» (cit. a p. 206).
Qui la differenza con Heidegger è chiara e fu anche esistenzialmente drammatica nel passaggio dalla formula «la fenomenologia siamo io e Heidegger» (anno 1916) al netto distacco testimoniato da una lettera a Ingarden del dicembre 1929: «Sono giunto alla conclusione che non posso inquadrare l’opera [Sein und Zeit] nell’ambito della mia fenomenologia, e purtroppo, anche dal punto di vista del metodo e addirittura nell’essenziale, dal punto di vista del contenuto (sachlich), la devo rifiutare» (pp. 211 e 213).
E tuttavia -e pur nella differenza- Husserl e Heidegger condivisero sempre e sino in fondo lo sguardo fenomenologico verso enti eventi e processi, pur diversamente declinato. Il logicismo si declina -nei manoscritti che via via vengono pubblicati- anche come metafisica fenomenologica che ha nella soggettività trascendentale e nel richiamo all’esperienza i propri fondamenti, qualcosa di non così dissimile e così lontano dall’analitica esistenziale: «Non si tratta più di comprendere perché appare un mondo, ma che cosa caratterizza la struttura profonda dell’essere, e questa è accessibile appunto interrogando quell’essere che noi stessi siamo. Mentre la metafisica classica (compresa quella di Spinoza e Schopenhauer), almeno agli occhi di Husserl, cercava di accedere alle strutture dell’essere oltrepassando il fenomeno, per Husserl non si tratterà di niente di simile, bensì di scavare all’interno della vita del soggetto per mettere in luce ciò che ha permesso e permette ogni storia e ogni movimento dell’essere. Per accedere alle strutture profonde della realtà e dell’essere bisogna cioè interrogarsi e interrogare quella vita trascendentale che costituisce ogni mondo, che permette al mondo di apparire» (193).
Sarebbe stato davvero possibile per Heidegger soffermarsi così a lungo e così genialmente sul Dasein senza avere dietro e a fondamento il primato della coscienza genetica e del Leib? Il primato di quel corpo isotropo per il quale «lo spazio si organizza a partire da un luogo privilegiato, quello di volta in volta occupato dal mio corpo vivo, cioè dal mio qui […] cioè dal mio corpo vivo che funge da punto centrale o centro dello spazio» (128-129). Il primato di una «vita dell’io» che «precede il suo sapersi» (186) prima ancora che esso diventi consapevole di se stesso (e qui sembra di vedere il proto-Sé di cui parla Antonio Damasio). Il primato di una volontà non intellettualistica ma neppure irrazionale, per il quale «la genesi della volontà, e di ciò che chiamiamo soggetto del volere, coincide in primo luogo con la formazione di un soggetto padrone dei movimenti del proprio corpo vivo» (195-196).
L’essere avrebbe potuto coincidere con il tempo senza la convinzione husserliana [Ms. A V 21/61a]  che quanto viene «descritto in termini puramente statici è incomprensibile, e non si sa a questo proposito mai che cosa sia radicalmente significativo e che cosa non lo sia» (192) e che dunque «l’assoluto stesso si dispiega in un processo che è temporale da parte a parte» (199)?
Per entrambi, Husserl e Heidegger, la filosofia si genera dalla differenza tra il dato e il significato. Ontologia e fenomenologia sono due modi radicali di pensare questa differenza. L’ontologia di Heidegger è sempre rimasta radicalmente fenomenologica e la fenomenologia husserliana si è sempre posta nell’orizzonte di un’ontologia genetica. Fu facile profeta di se stesso Edmund Husserl quando nel 1935 scrisse a Ingarden che «le generazioni future mi riscopriranno» (214). Riscoprire Husserl significa infatti scoprire ogni volta la filosofia, il dono di un significato radicale che essa offre alla vita.

 

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