Skip to content


Eleusi. Una negazione

Piccolo Teatro – Milano
Eleusi
di Davide Enia
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
10-11 giugno 2023

Dalle ore 21.00 del 10 giugno 2023 alle ore 21.00 del giorno successivo in due delle sedi del Piccolo Teatro di Milano è andata in scena una recitazione collettiva che ha visto al Teatro Studio l’alternarsi di 32 cori mentre una voce registrata raccontava fatti di violenza, senza nomi di persone e di luoghi ma assai probabilmente riferiti ai viaggi dei migranti dall’Africa del Nord all’Europa; al Teatro Grassi a ogni inizio d’ora e per una ventina di minuti sono stati messi in scena alcuni brevi testi dedicati a violenze, torture, sottomissioni.
Che cosa c’entra una simile operazione con il titolo Eleusi? Che cosa hanno a che fare le espressioni della ὕβρις contemporanea con il rito greco? Nulla, non hanno in comune nulla.
I Greci non erano moralmente buoni ma antropologicamente disincantati. I Greci non erano misericordiosi ma feroci. I Greci non erano accoglienti: l’ospite per loro è sacro come individuo, non certo come masse di popolazioni, all’arrivo delle quali rispondevano ovviamente con le armi. I Greci non erano sentimentali ma leggevano gli eventi alla luce del cosmo; il Timeo è una delle più profonde testimonianze di questo atteggiamento ma è l’intera cultura greca a esserne pervasa. I Greci, in una parola, non hanno nulla a che fare con le miserie, la viltà, le ipocrisie, il conformismo e la sottomissione che intridono le società contemporanee e che emergono in modo evidente in operazioni come questa realizzata dal Piccolo Teatro. Il quale è transitato negli ultimi anni da Brecht e da un progetto di emancipazione  politica a una pressoché completa omologazione alle mode morali del presente.
I testi letti mentre i cori cantavano tendono, nella loro crudeltà, a suscitare emozione e, probabilmente, a convincere che i migranti vanno accolti tutti. Ma è proprio questa stolta convinzione una delle principali cause delle crudeltà subite dai migranti. Ne ho parlato in passato anche in questo stesso sito sulla base di testi scientifici ben documentati, come ad esempio l’indagine di grande valore dal titolo La ruée vers l’Europe. La jeune Afrique en route pour le Vieux Continent (Grasset, Paris 2018, tradotta in italiano da Einaudi).
A favorire violenza, annegati e morti sono le ONG che dispongono di grandi risorse finanziarie (provenienti da dove?), che con un sistema di collegamenti satellitari conoscono le rotte delle imbarcazioni prima ancora che esse si mettano in mare, che sono complici degli scafisti, dei trafficanti di persone umane; ONG che sono una delle espressioni contemporanee del colonialismo e dello schiavismo che depauperano il continente africano del ceto medio (i più ‘poveri’ non hanno neppure i soldi per tentare il viaggio) e producono conflitti etnici in Europa. Quei conflitti che poi le stesse ONG e i cittadini ‘solidali, inclusivi e accoglienti’ denunciano con la parola-grimaldello razzismo. A essere ‘razzisti’ sono coloro che ritengono l’Africa un luogo di inferiorità culturale dal quale fuggire. Il colonialismo ha molte forme e le ONG ‘in soccorso dei migranti’ sono una di esse. Più in generale è in atto – mediante televisione, giornali, teatri, social network- una tendenza alla semplificazione emotiva e sentimentale di complessi problemi sociali e politici il cui esito è l’aggravarsi di tali problemi.
Al contrario, se si vuole fare lo sforzo di capire al di là dello spettacolo emotivo, il flusso senza interruzioni di migranti dall’Africa e dall’Asia verso l’Europa conferma le tesi marxiste a proposito dell’«esercito industriale di riserva», la cui disponibilità serve ad abbassare i salari e a incrementare il plusvalore: «Un esercito industriale di riserva disponibile [eine disponible industrielle Reservearmee] che appartiene al capitale in maniera così assoluta come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese. Esso crea per i propri mutevoli bisogni di valorizzazione il materiale umano sfruttabile sempre pronto [exploitable Menschenmaterial]» (Il Capitale, libro I, sezione VII, cap. 23, «La legge generale dell’accumulazione capitalistica», §§ 3-4).
Ma perché porre questa propaganda a favore della globalizzazione capitalistica sotto il titolo Eleusi? Una risposta superficiale consiste nel ritenere che chi ha scelto il titolo non sappia nulla di Eleusi e della società greca o che abbia cercato di trovare un titolo che funga da tipico ‘specchietto per le allodole’. Una risposta forse più profonda potrebbe far riferimento al bisogno di nobilitare la violenza contemporanea ponendola sotto l’egida di una civiltà che viene inconsciamente percepita come superiore. Ma proprio per questo i Greci non possono essere strumentalizzati nel modo sfacciato e miserabile di Eleusi.
«Come a Eleusi, così a Samotracia, Dioniso è dio segreto dei Misteri» (Angelo Tonelli, Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi nella Grecia antica , Feltrinelli 2021, p. 292) durante i quali si venera anche il fallo e ci si immerge in un rito di iniziazione nient’affatto ‘inclusivo’ ma riservato a pochi. In La sapienza greca Giorgio Colli scrive infatti che «l’accesso al peribolo sacro di Eleusi era proibito ai non iniziati, a costo di pene gravissime», un brano citato nel programma di sala (p. 37), così come altri testi (di Mircea Eliade, ad esempio) che però non hanno alcun collegamento con questa operazione teatrale e anzi ne rappresentano la negazione.
I misteri di Eleusi erano volti a rendere l’umano una sola cosa con Γῆ e con Demetra, con la Madre Terra e con il suo perenne rinascere. Che cosa ha a che fare tutto questo con la dismisura contemporanea delle azioni e dei sentimenti? La motivazione data da Davide Enia è la seguente: «Si chiama Eleusi, perché, nell’antica Grecia, quella era la città dove ci si recava in pellegrinaggio rituale, e anche qui ci si sposta tra un teatro e l’altro per accostarsi a un “mistero”» (programma di sala, p. 7). Una motivazione inaccettabile nella sua pura esteriorità analogica. Che lascino in pace i Greci, una buona volta, e chiamino le loro operazioni intrise di ‘accoglienza’ con i nomi contemporanei del dominio e della menzogna.

Migranti

[Il testo è più ampio rispetto a quelli che di solito pubblico in questa sede. Ma la questione è talmente complessa e delicata da dover essere affrontata nella molteplicità dei suoi aspetti. Per una lettura più comoda, ho preparato anche una versione pdf del testo]

«Wer Menschheit sagt, will betrügen», ‘chi dice umanità vuole ingannare’, non è una massima di Carl Schmitt bensì di uno dei fondatori dell’anarchismo moderno: Pierre-Joseph Proudhon. Schmitt la cita e la fa propria. Questo non deve stupire, visto che in entrambi i casi si tratta di menti capaci di comprendere la complessità delle strutture sociali e del loro divenire. La fecondità dell’avvertimento di Proudhon è confermata da quanto accade nei Social Network (e in tutto il resto della comunicazione contemporanea), dentro i quali problemi complessi e difficili come quello delle migrazioni dall’Africa all’Europa vengono affrontati con grave superficialità -per non dire in modi sempre più beceri, umorali e volgari- sia sul versante degli ‘accoglienti’ sia su quello dei ‘respingenti’. Si tratta invece di un tema fondamentale che va compreso con gli strumenti che la storia e le scienze sociali offrono.
Un argomento difficilmente eludibile sul tema dei migranti è quello marxiano dell’esercito industriale di riserva, concetto classico e sempre attuale. È infatti chiaro che un’apertura indiscriminata ai migranti è ben vista dal padronato, che può utilizzare persone disposte a lavorare per pochi euro all’ora e senza nessuna garanzia. La sinistra accogliente favorisce in questo modo pratiche di schiavizzazione.
Alcuni dati sono utili a comprendere la dimensione internazionale della questione, certamente non limitabile alle vicende del Mediterraneo. Ad esempio, in Australia ottenere la cittadinanza è molto difficile ed è di fatto riservata ai ‘migranti culturali’, intesi come professori, giornalisti, intellettuali. In Giappone delle 19.628 domande presentate nell’anno 2017, soltanto 20 furono accettate. Avete letto bene, venti. Per venire all’Europa, il governo spagnolo -che pure un anno fa accolse in modo spettacolare 600 migranti a Valencia– minaccia ora le ONG di multe sino a 900.000 euro se i salvataggi si verificheranno fuori dalla «zona di search and rescue (Sar) di responsabilità nazionale», azioni che dovranno svolgersi «comunque sempre sotto il coordinamento delle autorità»1.

Alcune delle principali ragioni e forme del fenomeno migratorio sono analizzate da un sociologo progressista e politicamente corretto come Stephen Smith, docente di Studi africani alla Duke University (USA), per molto tempo collaboratore dei quotidiani francesi Libération e Le Monde, corrispondente dall’Africa (dove ha vissuto a lungo) per numerose agenzie, autore de La ruée vers l’Europe. La jeune Afrique en route pour le Vieux Continent (Grasset, Paris 2018) che significa La corsa verso l’Europa e non il ben diverso Fuga in Europa, con il quale Einaudi ha deciso di tradurre il titolo.
Questo studioso rileva come in Africa esista una middle class suddivisa in due fasce. I membri della prima -costituita da 150 milioni di persone, pari al 13% della popolazione africana- «dispongono attualmente di un reddito quotidiano tra i 5 e i 20 dollari, incalzati da oltre 200 milioni di altri, il cui reddito giornaliero oscilla tra i 2 e i 5 dollari. Insomma: un numero in rapida crescita di africani è in ‘presa diretta’ con il resto del mondo e dispone dei mezzi necessari per andare in cerca di fortuna all’estero»2. Si tratta di un elemento chiave in quanto «la prima condizione» per progettare l’abbandono del proprio Paese «è il superamento di una soglia di prosperità minima» poiché «attualmente, in relazione al luogo di partenza e al precorso previsto», la cifra necessaria al perseguimento di tale obiettivo «oscilla fra i 1500 e i 2000 euro, ossia almeno il doppio del reddito annuo in un paese subsahariano» (83-84).
Quella che arriva dall’Africa in Europa è quindi una collettività, scrive Smith, «sincronizzata con il resto del mondo, al quale è ormai ‘connessa’ tramite i canali televisivi satellitari e i cellulari – la metà dei paesi [a sud del Sahara] ha accesso al 4G, che consente streaming e download di video e di grandi quantità di dati; ma anche mediante Internet, via cavi e sottomarini di fibra ottica» (XIII). Gli altri, vale a dire la grande parte della popolazione africana, «non hanno i mezzi per migrare. Non ci pensano neppure. Sono perennemente occupati a mettere insieme il pranzo con la cena, e quindi non hanno il tempo di mettersi al passo con l’andamento del mondo e, meno ancora, di parteciparvi» (87).
Solo una minoranza fugge da persecuzioni e guerre, tanto è vero che nel periodo di massima virulenza delle guerre in Africa, gli anni Novanta del Novecento, l’arrivo di migranti era incomparabilmente minore rispetto a quello che si sta verificando negli anni Dieci del XXI secolo. Ragionando in termini sociologici e storici e non sentimentali e morali -come va sempre fatto di fronte a fenomeni di tale portata– Smith ne deduce che «sarebbe tuttavia aberrante riconoscere in blocco lo status di vittima a chi fugge davanti alle difficoltà e magari non a chi le affronta» (86).

Riflettendo sui 1500 dollari mediatamente necessari per raggiungere la Libia dalla Nigeria, il vescovo cattolico di Kafanchan, Joseph Bagobiri, osserva che «se ognuna di queste persone avesse investito questa somma in modo creativo in Nigeria in imprese realizzabili, sarebbero diventati datori di lavoro. Invece sono finiti soggiogati alla schiavitù e ad altre forme di trattamento inumano da parte dei libici. […] In questo Paese vi sono ricchezze e risorse immense. I nigeriani non dovrebbero diventare mendicanti lasciando la Nigeria alla ricerca di una ricchezza illusoria all’estero»; un altro vescovo, Julius Adelakun, invita i nigeriani a non sprecare il proprio danaro, offrendolo ai mercanti di vite umane, e utilizzarlo invece allo scopo di «sviluppare il nostro paese per renderlo attraente e favorevole alla vita, in modo che siano i cittadini stranieri a voler venire da noi»3. Un simile autolesionismo che uccide le persone e impoverisce il Paese d’origine ha molte spiegazioni, due tra queste sono: la visione distorta che si ha dell’Europa come luogo di ricchezza assicurata; i finanziamenti dei quali godono le ONG cosiddette ‘umanitarie’ allo scopo di raccogliere quanta più possibile forza lavoro a basso costo da immettere nelle economie europee.
Anche il progetto sintetizzato nella formula «aiutiamoli a casa loro» ha poco senso. Si tratta infatti di un obiettivo contraddittorio sia in via di diritto sia di fatto. Smith lo definisce un vero e proprio paradosso:

«I paesi del Nord sovvenzionano i paesi del Sud sotto forma di aiuto allo sviluppo, affinché i deprivati possano migliorare le loro condizioni di vita e, sottinteso, restino a casa loro. In questo modo, i paesi ricchi si danno la zappa sui piedi. Infatti, almeno in un primo momento, premiano la migrazione aiutando alcuni paesi poveri a raggiungere un certo livello di prosperità grazie al quale i loro abitanti dispongono dei mezzi economici per partire e insediarsi all’estero. È l’aporia del ‘cosviluppo’, che mira a trattenere i poveri a casa loro mentre nello stesso tempo ne finanzia il sradicamento. Non c’è soluzione, perché bisogna pur aiutare i più poveri, chi ne ha più bisogno…» (86).

Chi invece sostiene l’accoglienza più o meno universale, dovrebbe riflettere su altri dati di fatto, da Smith esposti con grande chiarezza:

«Nel 2017, tra gennaio e la fine di agosto, hanno attraversato il Mediterraneo 126.000 migranti, di cui 2428 dichiarati dispersi, cioè l’1,92%; dato leggermente inferiore alla mortalità post-operatoria di un intervento di chirurgia cardiaca nell’Europa occidentale (2%). Nonostante il rischio sia, per fortuna, limitato, ci si chiede perché non smetta di aumentare nonostante gli occhi del mondo siano puntati sul Mediterraneo e i soccorsi dovrebbero essere sempre più efficienti. La risposta è che le organizzazioni umanitarie rasentano la perfezione! In effetti, le imbarcazioni di soccorso si avvicinano sempre di più alle acque territoriali libiche e, in caso di pericolo di naufragio, non esitano a entrarvi per prestare soccorso ai migranti. Dal canto loro, i trafficanti stipano un numero sempre maggiore di migranti in imbarcazioni sempre più precarie. […] In cambio di una riduzione tariffaria, un passeggero è incaricato della ‘navigazione’ e di lanciare l’Sos non appena entri in acque internazionali: a tal fine gli viene consegnata una bussola e un telefono satellitare del tipo Thuraya. […] Lasciando i migranti alla deriva…per essere prima o poi soccorsi dalle navi delle organizzazioni umanitarie che sanno fare molto bene il loro mestiere, con l’inconveniente, però, che i migranti, sapendo di essere soccorsi, badano assai poco all’efficienza delle imbarcazioni messe a disposizione dai trafficanti. […] Occorre, tuttavia, arrendersi all’evidenza: per arrivare in Europa i migranti africani corrono un rischio calcolato simile ai rischi che corrono abitualmente nella vita che cercano di lasciarsi alle spalle» (107-108).

Di fronte a tali eventi e dinamiche, Smith afferma lucidamente che è necessario «de-moralizzare il dibattito» sull’emigrazione. I sentimentalismi costituiscono infatti in casi come questi i migliori alleati della violenza degli schiavisti e di quella dei razzisti. Anche lo scrittore Emmanuel Carrère sostiene la necessità di non trasformare la questione migratoria «in un eterno affare Dreyfus»4. Come ha insegnato Max Weber, l’etica impolitica della convinzione deve sempre confrontarsi con l’etica politica della responsabilità, la quale deve fare i conti con «tutte le conseguenze prevedibili dei propri atti, al di là del narcisismo morale» (Smith, p. 146). Cercando di delineare le possibili conseguenze di quanto sta accadendo tra Europa e Africa, Smith individua per il prossimo futuro cinque scenari.
Il primo è l’Eurafrica, che «consacrerebbe l’ ‘americanizzazione’ dell’Europa» (145) e implicherebbe «la fine della sicurezza sociale. […] Lo Stato sociale non s’adatta alle porte aperte, donde l’assenza storica di una sicurezza sociale degna del nome negli Stati Uniti, paese d’immigrazione per eccellenza. Insomma, sopravviverà in Europa unicamente lo Stato di diritto, il vecchio Leviatano di Hobbes -che dovrà darsi un gran daffare per impedire la ‘guerra di tutti contro tutti’ in una società senza un minimo di codice comune» (146-47).
Il secondo scenario è la fortezza Europa, alimentato anche dalle reazioni che suscita «una stampa che si preoccupa più della fiamma del proprio umanitarismo che delle sue conseguenze sulla collettività»; Smith ammette che «la fortezza Europa è forse meno indifendibile di quanto non sembrasse. […] Ciò nondimeno, se si tiene conto della sollevazione di massa prevista da questo libro, qualsiasi tentativo esclusivamente sicuritario è votato al fallimento» (148-149).
Il terzo scenario è la deriva mafiosa, una vera e propria «tratta migratoria» il cui rischio è «che i trafficanti africani facciano combutta o entrino in guerra con il crimine organizzato in Europa» (149); una conferma sta nel fatto che l’80% delle donne soccorse nel Mediterraneo «erano oggetto di un traffico a fini di sfruttamento sessuale. […] Gli intrecci fra prossenetismo e ‘passatori’, troppo spesso presentati come individui soccorrevoli che praticano una forma di commercio solidale, non è che la parte visibile di un’attività criminale assai più importante» (150).
Un quarto scenario è il ritorno al protettorato, per il quale in cambio di privilegi e danaro ai ceti dirigenti, alcuni Paesi africani accetterebbero una «sovranità limitata in maniera proporzionale alle esigenze di difesa dell’Europa» (151).
Il quinto e ultimo scenario è secondo Smith il più probabile e consiste «in una politica raffazzonata» che «consisterebbe nel mettere assieme tutte le opzioni che precedono, senza mai realizzarle sino in fondo: insomma, ‘fare un po’ di tutto ma senza esagerare’» (151).
A decidere quale di questi scenari prevarrà non saranno probabilmente gli europei ma gli stessi africani. In questi casi, infatti, il numero diventa decisivo.

Nell’affrontare per quello che possono la questione, gli europei dovrebbero ragionare sine ira et studio sulla natura e sulle conseguenze del liberalismo capitalistico che prima ha prodotto l’imperialismo in Africa e poi, di rimbalzo, la corsa impetuosa di molti africani verso l’Europa. Uno dei fondamenti teorici del liberalismo, infatti, è la distruzione di corpi intermedi tra il singolo essere umano e l’umanità in quanto tale. In questo senso il liberalismo è l’opposto della democrazia, la quale pone al centro dello scenario sociale non l’individuo ma le citoyen, il cittadino, vale a dire una persona radicata in un contesto collettivo consolidato, frutto di condizioni geografico–economiche ben precise e di eventi storici condivisi. Ed è sempre in questo senso che la sovranità del popolo è cosa ben diversa dalla difesa dei diritti dell’uomo.
Uomo è infatti un concetto astratto, per i Greci ad esempio del tutto marginale. Al centro della vita collettiva si pone invece l’abitante della πόλις, con i suoi diritti e con i suoi obblighi. Per la democrazia i territori, le culture, le organizzazioni collettive non costituiscono soltanto la somma di individui isolati e tra loro irrelati ma sono il risultato della contiguità spaziale e della comunanza temporale. Si è prima di tutto abitanti di un certo luogo e soltanto per questo si può diventare cittadini del mondo. È qui che il concetto di border mostra la propria funzione di delimitazione della dismisura, di κατέχον rispetto alla dissoluzione.
La critica superficiale e pregiudiziale al concetto di frontiera , che pervade innumerevoli pagine della Rete e gli articoli di molta stampa, è dunque anch’essa una forma di ignoranza spettacolare, nel molteplice senso di questo aggettivo. Nella storia del XXI secolo il contrario di frontiera non è chiusura, il contrario della frontiera è il mercato, è il capitale, che sin dall’inizio ha avuto come fondamento la massima liberista «Laissez faire, laissez passer».
Applicare questo principio in modo assoluto e irrazionale, come tende a fare il liberismo contemporaneo significa, tra le altre conseguenze, scrive Smith, «fare i conti senza l’ospite», vale a dire fare i conti senza coloro che nel territorio europeo risiedono da secoli e che cominciano a sentirsi stranieri nel proprio Paese (passeggiare ad esempio in via Padova a Milano mi ha dato esattamente questa impressione) o persino ‘invasi’. «L’arrivo di stranieri può importunare, la loro presenza può disturbare. Pretendere che non sia così mi sembra una petizione di principio idealistica e pericolosa» (112). Affrontare una simile realtà in termini psicologici o addirittura moralistici è sterile, per non dire anche pericoloso. De-moralizzare il problema è necessario anche perché

«né lo straniero, né l’ospite sono a priori ‘buoni’ o ‘cattivi’, ‘simpatetici’ o ‘egoisti’. Vengono a trovarsi, insieme, in una situazione che occorre cercar di capire al pari delle circostanze, ovviamente differenti per l’uno e per l’altro. La mancata assistenza a un persona in pericolo è un reato, a condizione di potere prestare aiuto senza esporsi a pericoli (ultra posse nemo obligatur). […] La preoccupazione dell’equità internazionale non può confondersi con l’apertura delle frontiere a titolo di perequazione planetaria. Non è incoerente essere favorevoli all’equità internazionale e contrari alla totale apertura delle frontiere» (112-113).

Della giustizia è parte fondamentale anche la difesa di se stessi, in caso contrario si tratta non di solidarietà ma di autodistruzione. Se è doloroso ma inevitabile che una potenza meglio armata e determinata ne sottometta o distrugga un’altra, è assai meno comprensibile che i soggetti sottomessi collaborino attivamente alla propria distruzione. L’Impero Romano, ad esempio, non venne certo cancellato dai cosiddetti barbari ma si dissolse per ragioni interne, alle quali le popolazioni del nord e dell’est aggiunsero soltanto la propria presenza, invocata da molti cristiani come purificatrice della decadenza latina. «La verità è che i barbari hanno beneficiato della complicità, attiva o passiva, della massa della popolazione romana. […] La civiltà romana si è suicidata»5.
Qualcosa di analogo sta avvenendo nell’Europa contemporanea, uscita sconfitta e miserabile dalle due guerre mondiali del Novecento, vale a dire dalla più distruttiva guerra civile della storia moderna. L’Europa sta infatti implodendo su se stessa per una manifesta incapacità di gestire il proprio presente, affidato al capitalismo globalista sotto la guida statunitense e ai flussi religiosi provenienti dal mondo islamico. Invece di nutrire ed esercitare prudenza rispetto a queste complesse dinamiche, la più parte degli europei si divide tra i sostenitori di un’accoglienza totale e indiscriminata e i difensori di una pregiudiziale chiusura. Posizioni entrambe inadeguate a comprendere ciò che sta avvenendo. Gli accoglienti, in particolare, praticano comportamenti dettati dal sentimentalismo umanistico e romantico e dall’universalismo cristiano. Due posizioni antropologiche assai rischiose e che contribuiranno alla fine dell’Europa come sinora è stata conosciuta.
Il futuro degli europei è sempre meno in mano agli europei anche a causa del fatto che «la gioventù africana si precipiterà nel vecchio continente, perché è nell’ordine delle cose. […] Secondo le previsioni dell’Onu (United Nations Populations Division 2000, p. 90), l’arrivo di 80 milioni di migranti nel corso di cinquant’anni porterebbe a una popolazione immigrata di prima e seconda generazione corrispondente al 26% di quella presente nell’Unione Europea […]. Oggi vivono nell’Unione Europea (compreso il Regno Unito) 510 milioni di europei a fronte di 1,3 miliardi di africani sul continente vicino. Entro trentacinque anni, questo rapporto sarà di 450 milioni di europei a fronte di 2,5 miliardi di africani, ossia il quintuplo» (Smith, pp. XII–XIV).
Sottovalutare la demografia è scientificamente insensato6. Il rapporto tra gli umani e l’ambiente si fonda infatti, come quello di qualsiasi altra specie, soprattutto sul dato quantitativo. Il numero e la giovinezza dei popoli africani molto probabilmente prevarranno. E alla fine sarà giusto così, di fronte al pervicace cupio dissolvi che sempre più caratterizza l’Europa.


Note
1. il Fatto Quotidiano, 6.7.2019
2. Stephen Smith,
Fuga in Europa. La giovane Africa verso il vecchio continente, trad. di P. Arlorio, Einaudi, Torino 2018, pp. XII–XIV. Sulla giovinezza dell’Africa si legga l’intero secondo capitolo del libro, dal significativo titolo L’isola-continente di Peter Pan, pp. 29-53. I riferimenti ai numeri di pagina delle citazioni da questo volume saranno indicati nel corpo del testo, tra parentesi.
3. Africa/Nigeria – “Le somme pagate ai trafficanti per finire schiavi in Libia avrebbero potuto creare posti di lavoro in Nigeria”, nota dell’agenzia di stampa cattolica Fides, 15.12.2017.
4. Emmanuel Carrére, A Calais, trad. di L. Di Lella e M.L. Vanorio, Adelphi, Milano 2016, p. 16.
5. Jacques Le Goff, La civiltà dell’Occidente medievale, trad. di A. Menitoni, Einaudi, Torino 1983, pp. 22–23.
6, Lo mostra con ricchezza di argomenti anche Olivier Rey nel suo Dismisura (il significativo titolo originale è Une question de taille [Éditions Stocks, Paris 2014], «un problema di dimensione») trad. di G. Giaccio, Controcorrente, Napoli 2016.

 

Umanitarismo e Spettacolo

In mondovisione la società dello spettacolo -giornalisti e televisioni, i mediatiques come li chiama Guy Debord, che hanno «toujours un maître, parfois plusieurs» (Commentaires sur la société du spectacle, Gallimard, 1992, § VII, p. 31)- accoglie 600 migranti a Valencia. Niente di paragonabile a tale dispiegamento c’è stato quando Sicilia e Italia hanno accolto in tutti questi anni e quasi ogni giorno migliaia di migranti. Spagna la quale, in base alle sue norme, ne rimpatrierà in Africa una buona parte. Accolgono sapendo già che respingeranno. È questa l’essenza dell’umanitarismo spettacolare di una società intramata di ipocrisia.
Altra distorsione mediatica: come dimostra la prima pagina della Repubblica del 29.6.2017 -meno di un anno fa- anche il precedente governo a guida Partito Democratico e con ministro degli Interni Marco Minniti aveva dichiarato la necessità di chiudere i porti.
Chi finanzia la labile memoria della stampa?
Chi finanzia le organizzatissime strutture (ONG) che rappresentano un anello indispensabile nella moderna tratta degli schiavi?
Chi finanzia il flusso verso l’Europa, la quale deve rimanere sempre aperta mentre gli Stati Uniti d’America chiudono i loro confini e, con i dazi, la loro economia?
Il 4 giugno del 2015 commentavo in questo sito alcuni brani di Karl Marx. Ripropongo parte di ciò che scrissi allora perché mi sembra che gli eventi ne abbiano confermato la sostanza.

============
«Un esercito industriale di riserva disponibile [eine disponible industrielle Reservearmee] che appartiene al capitale in maniera così assoluta come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese. Esso crea per i propri mutevoli bisogni di valorizzazione il materiale umano sfruttabile sempre pronto [exploitable Menschenmaterial], indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione. […]
Alla produzione capitalistica non basta per nulla la quantità di forza-lavoro disponibile che fornisce l’aumento naturale della popolazione. Per avere libero gioco essa ha bisogno di un esercito industriale di riserva che sia indipendente da questo limite naturale [Sie bedarf zu ihrem freien Spiel einer von dieser Naturschranke unabhängigen industriellen Reservearmee]. […]
L’esercito industriale di riserva preme durante i periodi di stagnazione e di prosperità media sull’esercito operaio attivo e ne frena durante il periodo della sovrappopolazione e del parossismo le rivendicazioni [hält ihre Ansprüche während der Periode der Überproduktion und des Paroxysmus im Zaum ]. […]
Il sedimento più basso della sovrappopolazione relativa alberga infine nella sfera del pauperismo. Astrazione fatta da vagabondi, delinquenti, prostitute, in breve dal sottoproletariato propriamente detto, questo strato sociale consiste di tre categorie.
Prima, persone capaci di lavorare. Basta guardare anche superficialmente le statistiche del pauperismo inglese per trovare che la sua massa si gonfia a ogni crisi e diminuisce a ogni ripresa degli affari [seine Masse mit jeder Krise schwillt und mit jeder Wiederbelebung des Geschäfts abnimmt].
Seconda: orfani e figli di poveri. Essi sono i candidati dell’esercito industriale di riserva e, in epoche di grande crescita, come nel 1860 per esempio, vengono arruolati rapidamente e in massa nell’esercito operaio attivo».
(Karl Marx, Il Capitale, libro I, sezione VII, cap. 23, «La legge generale dell’accumulazione capitalistica», §§ 3-4)

Aver dimenticato analisi come queste (decisamente poco ‘umanistiche’) è uno dei tanti segni del tramonto della ‘sinistra’, la quale vi ha sostituito le tesi degli economisti liberisti e soprattutto vi ha sostituito gli interessi del Capitale contemporaneo, interessi dei quali i partiti di sinistra sono un elemento strutturale e un importante strumento di propaganda.
Negli anni Dieci del XXI secolo l’esercito industriale di riserva si origina dalle migrazioni tragiche e irrefrenabili di masse che per lo più fuggono dalle guerre che lo stesso Capitale -attraverso i governi degli USA e dell’Unione Europea- scatena in Africa e nel Vicino Oriente. Una delle ragioni di queste guerre -oltre che, naturalmente, i profitti dell’industria bellica e delle banche a essa collegate- è probabilmente la creazione di tale riserva di manodopera disperata, la cui presenza ha l’inevitabile (marxiano) effetto di abbassare drasticamente i salari, di squalificare la forza lavoro, di distruggere la solidarietà operaia.
È anche così che si spiega il sostegno di ciò che rimane della classe operaia europea a partiti e formazioni contrarie alla politica delle porte aperte a tutti. Non si spiega certo con criteri morali o soltanto politici. La struttura dei fatti sociali è, ancora una volta marxianamente, economica. Tutto questo si chiama anche globalizzazione
.
============

Chi finanzia dunque l’esercito industriale di riserva che nell’immaginario collettivo sostituisce la lotta di classe con i diritti umani?
Le anime belle invece non le finanzia nessuno. Fanno tutto da sole.

 

Schiavitù

Libya: A Human Marketplace -­ Narciso Contreras
Milano – Palazzo Reale
Sino  al 13 maggio 2017

31 fotografie di grande formato, distribuite in tre spazi e intervallate da pannelli/didascalie. È sufficiente osservarle e leggere. È sufficiente ascoltare e guardare la testimonianza di Narciso Contreras. Non sarebbero state necessarie le denunce di alcuni parlamentari o la notizia di inchieste da parte della Procura di Catania. Le immagini e le informazioni di questo reportage dalla Libia rendono chiara la condizione di schiavitù di milioni di esseri umani; rendono chiaro il fatto che tale schiavitù è stata creata e viene alimentata da una varietà di istituzioni e di soggetti.
Il primo di essi è la potenza che volle e realizzò la distruzione della Libia e la morte di Gheddafi, vale a dire l’amministrazione Obama con il suo Segretario di Stato Hillary Rodham Clinton, che si impegnò personalmente e con tenacia affinché Gheddafi venisse assassinato. In nome della Democrazia, of course. Da allora la Libia non esiste più, si è dissolta dando inizio a una infinita guerra fra le tribù che si contendono il controllo del territorio posto tra il Niger, il Ciad e il Mediterraneo. In questo conflitto senza posa i migranti sono utilizzati come una preziosa risorsa, come una preda di guerra, come  merce di scambio.
Contreras_Lybia
Il secondo soggetto sono le cosiddette ‘autorità libiche’ le quali -scrive Contreras- «invece di cercare di risolvere il problema, dirigono e approfittano di questo traffico di esseri umani»; «Piuttosto che una tappa di transito per i migranti e i rifugiati, la Libia è un luogo propizio di traffico di esseri umani e di commercio di schiavi, organizzati per le milizie al potere e legati alle reti mafiose».
Il terzo soggetto sono i trafficanti africani e il loro corrispettivo criminale in Sicilia, vale a dire la mafia. Trafficanti che hanno fatto della ferocia, degli stupri, della schiavizzazione, la loro normale attività quotidiana. Contreras ha visitato e fotografato le carceri e i campi gestiti da questi gruppi e sostiene che «qui non c’è dignità, regna un tanfo misto di sudore, urina ed escrementi che toglie il fiato».
Il quarto soggetto sono le «Organizzazioni non governative» (ONG), le quali costituiscono l’ultimo anello della catena. Al di là della evidente buona fede di molti loro membri, le ONG sono indispensabili ai trafficanti africani, ai mafiosi europei, alle autorità libiche, ai loro finanziatori (come il miliardario magiaro-statunitense George Soros) per raggiungere l’obiettivo di praticare affari sulla pelle, la vita, i corpi di milioni di schiavi.
Che dietro tutto questo possa esserci un progetto di impoverimento e di scontro sociale a danno dell’Europa è soltanto un’ipotesi. Certo è invece il fatto che quando -a conclusione di un viaggio che comincia dall’Africa profonda, attraversa il Sahara, si ferma nei lager libici, rischia la morte nel Mediterraneo- una percentuale di questi schiavi sopravvive e arriva in Sicilia, in Italia, in Europa, l’effetto lucidamente analizzato da Marx è di ingrossare «l’esercito industriale di riserva», a tutto vantaggio delle imprese e del Capitale.
Che le ONG siano o meno in accordo con i trafficanti è una questione giudiziaria  che non ho strumenti per poter valutare. Ciò che invece è del tutto evidente è la funzione politico-economica del loro umanitarismo, che si pone come una delle condizioni di prosperità dell’ultraliberismo finanziario e della sottomissione sociale.
La schiavitù greca e romana costituiva una struttura misurata e regolamentata, se posta a confronto con lo schiavismo bianco degli Stati Uniti d’America e con il sadismo e l’ipocrisia che caratterizzano la pratica della schiavitù contemporanea, della quale le Organizzazioni umanitarie sono oggettivamente parte.
La mostra di Narciso Contreras alza il velo su tale orrore.

Vai alla barra degli strumenti