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Omero

Teatro Musco – Catania
Iliade
da Omero
Progetto, regia e interpretazione di Corrado d’Elia

Sulla scena del Teatro Musco abbiamo ascoltato Omero, il suo canto tradotto nella prosodia contemporanea, le urla dei guerrieri, il pianto e la notte. Il ritmo ripetuto e potente dell’Iliade è diventato voce, musica, percussione e slancio nel corpo di Corrado d’Elia.
Agamennone è sprezzante verso Achille perché, se questi è l’eroe, Agamennone è il sovrano. La risposta di Achille è colma di risentimento e di odio. Per i Greci la guerra volge verso l’oscuro, la distruzione e la catastrofe. Neppure il discorso suadente e razionale di Odisseo riesce a smuovere la determinazione di Achille a vedere puniti gli Achei. Sino a quando però l’amicizia perde i troiani, li perde l’amore di Achille per Patroclo, li perde l’urlo straziato alla notizia della sua morte, li perde Ἀνάγκη che aveva deciso da sempre, li perde la forza divina di Achille, il solo a poter colpire l’invincibile Ettore, li perde la stoltezza che fa entrare il cavallo tra le mura che nessun esercito per decreto di Apollo avrebbe mai potuto atterrare. L’urlo di Achille si placa soltanto al gesto di Priamo che non si vergogna di baciare la mano che gli ha spento il figlio pur di riavere il corpo di Ettore ancora da onorare.
Questi i momenti che d’Elia ha scelto di raccontare al modo degli aedi elleni, con la sua voce inframmezzata da ritmi musicali tribali e ossessivi, antichi. A ogni svolta decisiva del racconto il flusso delle parole si ferma, si sofferma e si installa in una parola soltanto, che emerge come uno scoglio nel mare impetuoso: male. «Questo è male». Male è il dolore d’esistere, che sia la passione per Briseide, il pianto senza luce di Achille, la furia verso il corpo ormai morto di Ettore.
Narrare senza sentimentalismi, compassioni e salvezze questo gorgo dell’umana esistenza è la gloria dei Greci. Nell’Iliade non c’è neppure un briciolo della decadenza nazarena e coranica. Per questo l’esistenza che vi si narra è epica, per questo il suo canto è così vero e d’Elia lo ha concluso ricordando quanto miserabili siano le stirpi degli umani «che simili a foglie una volta si mostrano / pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi, / altra volta cadono privi di vita» (XXI, 464-466).
Sino a quando cadrà l’ultima foglia, il canto di Omero sarà ancora un’eco di questo destino, sarà la sua luce.

La carne umana

Dunkirk
di Christopher Nolan
USA, Gran Bretagna, Francia 2017
Con: Fionn Whitehead (Tommy), Aneurin Barnard (Gibson), Jack Lowden (Collins), Tom Glynn-Carney (Peter), Mark Rylance (Dawson), Kenneth Branagh (comandante Bolton)
Trailer del film

La carne umana, come quella di ogni altro vivente, fa di tutto per esistere ancora, per superare gli scogli del tempo e approdare ogni volta all’istante che viene. Durante un’operazione di guerra questo istante, che è sempre precario anche in pace, diventa il tesoro da rabbiosamente difendere rispetto agli eventi e ad altra carne. Che vuole vivere anch’essa. Il tempo si contrae e si dilata in relazione alla possibilità di morire che il corpomente sente avvicinarsi o allontanarsi per lasciare ancora spazio agli eventi. Da tale intuizione, o da qualcosa di analogo, un cultore del tempo come Christopher Nolan in questo film ha tratto tre ritmi.
La spiaggia dura una settimana e raffigura centinaia di migliaia di soldati inglesi e francesi stretti da ogni parte dal ‘nemico’, che li spinge verso il mare e li colpisce dal cielo. Le riprese dall’alto della grande battigia ricordano a volte quelle di Ivan il terribile di Ėjzenštejn
Il molo dura un giorno e descrive i preparativi e l’andare delle barche civili britanniche, sequestrate per portare salvezza ai soldati in trappola al di là della Manica. Il viaggio circadiano si dilata a ritmi più lunghi, a quanto sulla spiaggia precede l’arrivo.
Il cielo dura un’ora ed è la battaglia aerea tra i caccia tedeschi che colpiscono il facile bersaglio sul mare e sulla riva e i velivoli inglesi che cercano di evitare la strage.
L’ambizione ancora una volta assai grande di Nolan è fondere questi tre tempi in uno soltanto. E qui ci riesce, trasmettendo l’energia, l’angoscia, la disperazione, l’immensa tenacia della carne in guerra che non vuole morire e fa di ogni istante il piolo al quale aggrapparsi per salire ancora la vita.
Strumento di tale riuscita è naturalmente il montaggio, cuore e significato del cinema stesso, che dunque si mostra in Dunkirk per quello che è sempre: tempo in immagini e per ciò, come intuisce Deleuze, immagine-movimento.
Quasi sino alla fine il film è questo: pura e magnifica tecnica visiva al servizio di un pensiero profondo. Negli ultimi venti minuti, hélas, si trasforma invece in una banale opera di propaganda patriottica, arrivando a citare ampiamente un discorso di Winston Churchill, della cui gesta a Dresda (13-15 febbraio 1945) aspettiamo ancora che un regista abbia il coraggio storico e civile di parlare, dopo che lo ha fatto Céline: «Parlano mai, ed è un torto, come che i propri fratelli loro, furono trattati arrostiti in Germania sotto le grandi ale democratiche… c’è ritegno, non se ne parla… avevano solo da non stare lí!… è tutto!» (Da un castello all’altro, in «Trilogia del Nord», trad. di G.Guglielmi, Einaudi 2010, p. 205).
«Avevano solo da non stare lí» è quello che certamente passa per la mente dei soldati inglesi a Dunkirk nel maggio del 1940 mentre fanno di tutto per non rimanere più lì, al cospetto della «Furia, del Tumulto, della Morte funesta» (Iliade , XVIII, 535; trad. di G.Cerri, Rizzoli 2003), non rimanere un’ora di più dentro la guerra che dà «a tutti un tremore […] / e si studiava ognuno da che parte sfuggire a morte immediata» (Il., XIV, 506-507).
A dominare ogni istante sono «il lamento e il tripudio degli uomini / che uccidevano ed erano uccisi, grondava di sangue la terra» (Il., IV, 450-451 e VIII, 64-65). Qui gronda di sangue e di carne anche il mare.

La mente in Omero

Uno dei testi studiati nell’ambito del corso di Filosofia della mente dell’attuale anno accademico è il libro di Antony A. Long La mente, l’anima, il corpo. Modelli greci.
Metto a disposizione su Dropbox la registrazione audio della lezione nella quale abbiamo in particolare discusso dello statuto della mente nei poemi omerici. Si tratta della seconda parte della lezione del 22 marzo 2017: La mente in Omero
La durata è di 45 minuti.

«Così fanno i pagani»

«Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come  è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt, 5, 43-48).
Quanti cercano di seguire davvero queste massime di Jeshu-ha-Notzri perdono una delle gioie della vita. Essa consiste nel vedere soffrire chi ci ha fatto soffrire; nel gustare la caduta di quanti produssero in noi lacrime, umiliazioni o tristezza; nel godere sino in fondo e con un sorriso della malattia, dell’abbandono, della rovina che afferra chi ci ha procurato dolore. A coloro che mi hanno ingannato, tradito, voluto del male -come costui, come uomini e donne che non hanno meritato il mio amore e la mia amicizia, come alcuni indegni soggetti incontrati in contesti professionali-, io auguro ogni sofferenza.
Ma in realtà i cristiani provano di frequente la gioia che qui sto cercando di descrivere. Loro che ben lontani dall’“amare i nemici” sono sempre stati i primi a massacrarli. Guerre di religione, roghi (Giordano Bruno sarà per sempre la maledizione dei papisti e Michele Serveto lo sarà per i protestanti), persecuzioni di streghe ed eretici, colonialismo, benedizione di tutte le guerre, complicità con i mafiosi e i pedofili, conflitti interni per il potere, sostegno a ogni sorta di tiranni, crimini vasti e di varia natura, costituiscono il contrappasso che condanna tali ipocriti. I cristiani negano la natura umana e però la praticano (e che altro potrebbero fare?), i pagani la seguono senza mentire, in primo luogo a se stessi:
«καὶ τὸ τοὺς ἐχθροὺς τιμωρεῖσθαι καὶ μὴ καταλλάττεσθαι (e vendicarsi dei nemici è più bello anziché riconciliarsi)»
(Aristotele, Retorica A, 9, 1367 a, 24).
«Ma ho forse torto a lamentarmi… la prova, io sono ancora vivo… e perdo dei nemici tutti i giorni!… di cancro, … di apoplessia, di ludreria… è un piacere come che si svuota il sacco!… non insisto… un nome!… un altro! ci sono dei piaceri nella natura…»
(Céline, Da un castello all’altro, in «Trilogia del Nord», Einaudi 2010, p. 24).
«οὐκοῦν ἐπὶ μὲν τοῖς τῶν ἐχθρῶν κακοῖς οὔτ᾽ ἄδικον οὔτε φθονερόν ἐστι τὸχαίρειν (gioire dei mali dei nemici non è né ingiusto né invidioso)»
(Platone, Filebo, 49 D).
«εἰ κεινόν γε ἴδοιμι κατελθόντ’Ἄϊδος  εἴσω / φαίνην κε φρέν ἀτερπου ὀιζύος ἐκλελαθέσθαι» [Se lo vedessi discendere dentro i recessi di Ade, / direi che un brutto malanno avrebbe scordato il mio cuore]. Questo dice Ettore di Paride, suo fratello, in Iliade, VI, 284-285.
Così fanno i pagani.

νόστος

Il 20 ottobre 2016 ho partecipato a un Convegno organizzato dalla Struttura didattica speciale di Lingue e Letterature straniere dell’Ateneo di Catania. Convegno voluto e introdotto da Nunzio Zago e dedicato ad alcuni Aspetti dell’ulissismo intellettuale dall’Ottocento a oggiLa sede è stata la magnifica città di Ragusa Ibla.
Ho partecipato per quello che sono, un dilettante di letteratura, e ascoltando i colleghi specialisti ho sentito l’orgoglio e l’onore di far parte di una comunità di ricerca umanamente coinvolgente e scientificamente feconda. Ho infatti imparato da tutti. Ricordo alcuni degli interventi, alla fine dei quali ho chiesto ai relatori la loro opinione sulla lettura che Horkheimer e Adorno hanno dato di Ulisse come emblema anche del borghese che persegue lucidamente i propri scopi in una logica utilitaristica. Chiarisco che quanto scrivo qui non costituisce una sintesi delle tesi enunciate dai colleghi ma si tratta soltanto di alcune mie riflessioni che partono dai loro eccellenti contributi.

Andrea Manganaro ha parlato dei personaggi di Verga e della loro corsa verso la morte. Ascoltandolo ho pensato al fatto che Ulisse torna da solo a Itaca, tutti i suoi compagni sono morti. Forse Ulisse è anche il potente di cui parla Canetti, è colui che differisce la propria morte attraverso il morire degli altri, a cominciare dalla distruzione imposta agli abitanti di Ilio.
Antonio Sichera analizzando l’opera di Pavese si è riferito alle motivazioni per le quali Ulisse rifiuta la straordinaria proposta di Calipso di renderlo immortale e sempre giovane, invece che tornare da una moglie umana. Forse il motivo di tale rifiuto sta nel fatto che Ulisse ha compreso l’infelicità di Calipso. La dea non si è conciliata con il tempo. Non il tempo Χρόνος, naturalmente, essendo lei divina, ma il tempo Aἰών. E invece Ulisse con il tempo si è conciliato, è stato capace di fare del futuro -dei propri desideri, ambizioni, aspirazioni- il suo stesso presente.
Fernando Gioviale ha raccontato di D’Arrigo. Non soltanto di Horcynus Orca ma anche dell’ultimo romanzo darrighiano, Cima delle nobildonne, un testo dedicato alla placenta. Anche Giuseppe Traina parlando di Bufalino ha accennato al ritorno all’utero.
Ascoltandoli mi sono ricordato di uno dei più grandi narratori del Novecento, Elsa Morante, forse troppo trascurata. Nell’ultimo suo romanzo, il figlio di Aracoeli si rivolge alla memoria della madre dicendole: «Ma tu, mamita, aiutami. Come fanno le gatte coi loro piccoli nati male, tu rimàngiami. Accogli la mia deformità nella tua voragine pietosa» (Aracoeli, Einaudi, 1982, p. 109). Ulisse è forse anche il desiderio del ritorno al luogo nel quale tutto era caldo, liquido, sicuro. Il luogo nel quale ogni voce, contatto, movimento, erano pura luce. Tornare a Itaca la madre, tornare a Itaca la Terra. Tornare all’intero da cui proveniamo.

Forse è anche per questo che Odisseo -come l’Ettore di Foscolo- vivrà «finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane» (Dei Sepolcri, 294-295), vivrà nelle nostre parole, nei nostri studi, nel nostro tendere al luogo da cui proveniamo. Vivrà in quel νόστος che è l’intera esistenza.

Iliade

Le passioni che conducono gli Achei nella piana di Troia, a vendicare l’offesa recata da un figlio di Priamo a Menelao sovrano, saranno «anche in futuro, / per la gente di là da venire, materia di canto» (Iliade, trad. di Giovanni Cerri, VI, 358).

Che cosa narra tale canto? Narra degli umani che sono incapaci «di vedere insieme il prima e il dopo» (II, 343) mentre sapienza e saggezza consistono anche nel sapere «le cose che furono, sono e saranno (I, 70). Gli umani sono la fragilità stessa della materia, sono come foglie che «il vento ne sparge molte a terra, ma rigogliosa la selva / altre ne germina, e torna l’ora della primavera: / così anche la stirpe degli uomini, una sboccia e l’altra sfiorisce (VI, 147-149). Tutte le generazioni rimangono composte da «miserabili, che simili a foglie una volta si mostrano / pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi, altra volta cadono privi di vita» (XXI, 464-466). Ciò accade perché «gli dei stabilirono questo per gl’infelici mortali, / vivere in mezzo agli affanni; loro invece sono sereni» (XXIV, 525-526). E dunque «non c’è niente di più miserevole di tutti gli uomini fra tutti gli esseri / quanti respirano e arrancano sulla faccia della terra» (XVII, 446-447).
Di tale condizione affannata, effimera e miserabile, l’Iliade mostra forme, ragioni e struttura. Esse si condensano nel  πόλεμος, nel conflitto che -afferma Eraclito- è padre di tutte le cose, di tutte è signore (fr. 53). La guerra intride qui tutto. È uno dei due archetipi che fondano la letteratura europea, l’altro è il viaggio, è l’Odissea.

La guerra. Rovinosa (κακοιο, II, 284). Terribile (κακόν, XIII, 225). Che fa ribollire il fiume Xanto «di spuma, di sangue e di morti» (XXI, 325), che eleva al cielo e ovunque «il lamento e il tripudio degli uomini / che uccidevano ed erano uccisi, grondava di sangue la terra» (IV, 450-451 e VIII, 64-65). In questo poema i guerrieri muoiono a frotte, con estrema facilità, in poco tempo colpiti e annientati da chi è più abile di loro, vale a dire da coloro la cui mano è guidata dalla volontà di qualche dio. Guerrieri che non vorrebbero morire, che arrivano a temere la fine sino a fuggire, mandando in malora onori e obiettivi, «a tutti un tremore prese le membra, / e si studiava ognuno da che parte sfuggire a morte immediata» (XIV, 506-507). Morire, infatti, vuol dire andare nell’Ade, «dimora umida, spaventosa, di cui pure gli dei hanno orrore» (XX, 65)
Guerrieri la cui psyche facilmente li abbandona, uscendo dalle ferite aperte dal bronzo, lasciando soltanto una tenebra. Perché qui psyche non vuol dire per nulla anima o qualcosa di simile ma significa, semplicemente, la vita, l’indistinta unità del corpomente che esiste nello spazio e nel tempo. Guerrieri che piangono spesso, con voluttà, senza alcuna vergogna, come accade anche nel conclusivo dialogo tra Priamo e Achille: «Immersi entrambi nel ricordo, l’uno per Ettore massacratore / piangeva a dirotto prostrato ai piedi di Achille, / mentre Achille piangeva suo padre, ma a tratti anche Patroclo: il loro lamento echeggiava per la casa» (XXIV, 509-512). Un pianto che tutti accomuna e dopo il quale l’uccisore del figlio e il padre dell’ucciso gustano infine «il piacere di guardarsi l’un l’altro» (XXIV, 633).
Il conflitto è ovunque. Non soltanto tra nemici di stirpe e di terre ma anche all’interno delle stesse comunità, famiglie, tribù. Il risentimento e l’ira di Achille verso Agamennone sono ben noti. Meno lo è quanto Ettore dice a proposito del fratello Alessandro Paride, fonte per Ilio di tante sciagure: «Se lo vedessi discendere dentro i recessi di Ade, / direi che un brutto malanno avrebbe scordato il mio cuore» (VI, 284-285). Odio e vendetta sono per queste culture realtà del tutto ovvie e naturali. E questo vale per l’intera Grecità, da Omero ad Aristotele, secondo il quale «vendicarsi dei nemici è più bello anziché riconciliarsi» (Retorica A, 9, 1367 a, 20).

Nell’Iliade la ferocia è continua. Non è davvero possibile definire i Greci ‘umanisti’ quando qui si descrivono come del tutto comuni i sacrifici umani -Achille sgozza sulla tomba di Patroclo dodici ragazzini troiani fatti da lui prigionieri a tale scopo: «Con me rallegrati, Patroclo, sia pure in casa di Ade: / perché manterrò tutto quello che poco fa t’ho promesso, / di trascinare Ettore qui e darlo crudo in pasto ai cani, / di sgozzare davanti al tuo rogo dodici figli scelti / dei Troiani, perché sono adirato che t’abbiano ucciso» (XXIII, 19-23)-, quando non c’è nessun rispetto per il cadavere di Ettore, che non soltanto viene trascinato ogni giorno da Achille nella polvere ma che gli altri guerrieri colpiscono ridendo -«eppure nessuno s’accostò senza colpirlo. / E così ciascuno diceva rivolto al vicino: ‘Ehilà, adesso a toccarlo è molto più morbido Ettore, di quando applicava alle navi il fuoco vorace!’» (XXII, 371-374; 1133), Ettore che da parte sua vorrebbe di Patroclo ucciso «issarne / la testa mozzata dal tenero collo sulla punta d’un palo» (XVIII, 176-177).

Non si può comprendere nulla di questo mondo distante e disumano se non si ricorda a ogni istante che tutti i personaggi dell’Iliade sono in mano al volere degli dèi. Tutti. La presenza e il potere dei Numi sono pervasivi e assoluti. A loro vengono ascritti meriti, colpe, esiti. Della sua ingiustizia verso Achille Agamennone afferma di non essere colpevole, poiché i responsabili sono «Zeus e la Moira e l’Erinni che vaga nel buio» (XIX, 87). Presaghi della fine del loro padrone, i cavalli di Achille dicono al loro signore che «certo, ti salveremo anche stavolta, Achille potente / ma t’è vicino il giorno fatale; e non siamo noi / i colpevoli, ma un grande dio e la Moira invincibile» (XIX, 408-410).
Moira ed Erinni, θάνατος καί μοῖρα κραταιή (XXIV, 132), ‘la morte e il duro destino’, sono i veri signori del poema. Più di Zeus, più di tutti gli altri immortali. Più di «Afrodite che ama il sorriso» (III, 424 e XXI, 40). Più di «Dioniso, gioia dei mortali» (XIV, 325). Più di tutti «gli dei che vivono lieti» (θεοί ῥεῖα ζῶοντες, VI, 138), «gli dei beati che vivono eterni» (θεοί ἀιεν ἐοντες, XXIV, 99). Signore della materia, della psyche e del mondo sono la Moira e «l’Erinni che vaga nel buio / […]  col suo cuore spietato» (IX, 571-572).

Chi combatte, domina e trionfa nella pianura sconfinata di Ilio? I guerrieri troiani e gli achei certo. Ma «erano in campo con loro la Furia, il Tumulto, la Morte funesta» (XVIII, 535).

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