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Zeus

Piccolo Teatro Studio – Milano
Semidei
Testo e regia di Pier Lorenzo Pisano
Con: Francesco Alberici, Marco Cacciola, Pierluigi Corallo, Michelangelo Dalisi, Claudia Gambino, Pia Lanciotti, Caterina Sanvi, Eduardo Scarpetta
Costumi Gianluca Sbicca
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Sino al 23 febbraio 2025

Cominciano nel buio gli eroi. Cominciano elencando le ragioni del loro pianto. Le lacrime accomunano i guerrieri che combattono sotto le mura di Troia: le lacrime e la paura, che ammettono di sentire. Paura di morire, di lasciare la luce del giorno, di essere scagliati nell’enigma oscuro dell’Ade.
La scena diventa poi una spiaggia nella quale Achille e la madre Teti, Ettore, Andromaca e il piccolo Astianatte, Odisseo, Penelope e il neonato Telemaco, Menelao e Agamennone, tutti prendono il sole in attesa della guerra imminente, delle vele dispiegate verso Ilio o del timore che tali vele appaiano all’orizzonte della Troade. In questa prima parte l’inquietudine è minima e la fiducia è grande.
Sino a che, dopo dieci anni di guerra, gli eroi appaiono coperti e sovrastati da armature incrostate di terra, animali, scudi, bambini, maschere. Armature enormi, come se il tempo avesse accumulato sui guerrieri violenza su violenza. Anche Achille è morto e il figlio Neottolemo è una pura energia di morte. Le donne troiane, Andromaca, Ecuba e Cassandra, elevano il loro canto e il proprio lamento di fronte alla città distrutta, in attesa di essere destinate all’uno o all’altro sovrano acheo.
Nel mezzo, tra le due parti del racconto e anche dentro ciascuna di esse, ci sono gli dèi. Appaiono nell’alto, litigano in modo acceso e soprattutto rumoroso. Sino a quando Zeus li tacita. Il dio è tutto d’oro, si manifesta smerigliante e luminoso, sicuro di sé e potente su ogni cosa. Rimprovera sdegnato gli dèi che intasano di voci e rumori lo spazio della sua natura, ricorda loro che quando il suo fastidio sarà più forte dell’amore che prova per loro, gli basterà aprire la bocca e subito dopo chiuderla per divorarli tutti, per rimanere finalmente in silenzio.
Zeus accenna agli umani, ultima e insignificante manifestazione dell’essere, capaci solo di adorare quei rumorosi suoi figli e morire.
E soprattutto Zeus ammette di non essere il sovrano ultimo del cosmo. Egli è stato capace di gettare nel Tartaro suo padre, il terribile Κρόνος, ma nulla può e mai potrà nei confronti di Ἀνάγκη, la necessità, il fato, il destino, la Μοίρα. Nel frattempo, mentre a lui è dato il dominio secondario sul mondo, il divino si mostra per quello che è: puro potere, assoluto potere. Per permettere a questi umani così convinti e così tristi di sterminarsi tra loro a Troia, Zeus impone ad Agamennone il sacrificio della primogenita Ifigenia. Per quale ragione? Nessuna, «perché un vero dio è assurdo».
Ecco, sta in questa frase, in questo particolare del testo che Pier Lorenzo Pisano ha tratto dall’Iliade e da altre tradizioni sulla guerra di Troia, sta qui l’intuizione che illumina uno spettacolo che sa ironizzare sul mito ma lo fa al modo di Dürrenmatt, cogliendone e mostrandone la forza; che sa riconoscere la potenza della guerra, il terribile amore che gli umani nutrono per essa e che soprattutto sa trasmettere l’enigma del sacro, che è appunto e anche l’assurdo.
I vermi verticali che siamo si alzano di tanto in tanto nella loro ὕβρις e sono convinti di aver compreso il dio, gli dèi. Ma il sacro rimane insoluto e anche per questo nel volgere dei millenni sa suscitare parole antiche che sembrano essere state pronunciate per la prima volta qualche mese fa. Le parole appunto di Semidei.

Foglie

Recensione a:
Pio Colonnello
Fragilità. Una condizione umana
Mimesis 2024, pp. 126

Edipo, le foglie, la condizione umana
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
9 dicembre 2024
pagine 1-5

Le nostre domande, le nostre risposte, sono forse il frutto del vento teoretico ed esistenziale che ci spinge nel tempo e dentro il tempo. E infatti la metafora più antica ed efficace della fragilità umana e di ogni animale è quella che da Omero arriva a Ungaretti e per la quale gli umani sono la fragilità stessa della materia, sono come foglie che «il vento ne sparge molte a terra, ma rigogliosa la selva / altre ne germina, e torna l’ora della primavera: / così anche la stirpe degli uomini, una sboccia e l’altra sfiorisce». Tutte le generazioni rimangono composte da «miserabili, che simili a foglie una volta si mostrano / pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi, altra volta cadono privi di vita».
Nell’autunno nel quale si sta come foglie pronte a cadere dal loro albero, le pagine di Pio Colonnello rappresentano molto più di un conforto teoretico e letterario; esse costituiscono infatti un gesto di comprensione profonda, e dunque di accettazione vera, della fragilità che ci costituisce.

Tra Omero e Bocca di Rosa

EtnaMusa Festival – Bronte/Difesa
Odissea un racconto mediterraneo
Il Ciclope /
Canto IX
Con Mario Incudine
Arrangiamenti, musiche e tastiere: Antonio Vasta
Progetto e regia: Sergio Maifredi
Produzione: Teatro Pubblico Ligure

Nell’ampia e panoramica sede dell’EtnaMusa Festival – da un lato il vulcano, dall’altro il tramonto sui Nebrodi – (e pur con ritardo sull’orario di inizio) sono risuonate ancora una volta le parole fondatrici dell’Europa, le parole del mito, le parole di Omero. Il canto IX dell’Odissea è stato interpretato, riscritto, reinventato dalle musiche e dalla recitazione di Mario Incudine e dalle traduzioni di Ettore Romagnoli, di Luigi Pirandello, di Camillo Sbarbaro. Traduzioni così diverse confermano l’universalità del poema, la sua natura aperta e sempre odierna, nel trascorrere dei millenni. Il limpido classicismo di Romagnoli, il turpiloquio che Pirandello mette in bocca a Polifemo, la musicalità di Sbarbaro si sono alternate alle note di Incudine e Vasta.
Conclusa la lettura del poema, il musicante Incudine e il musicista Vasta (questa la definizione che hanno dato di se stessi) sono passati a un repertorio di canzoni, tra le quali la più coinvolgente è stata la traduzione in siciliano di Bocca di Rosa diventata Vuccuzza di ciuri. 

Più sotto il testo della versione di Incudine e questi i link al brano su:

E qui la canzone di De André nell’esecuzione con la Premiata Forneria Marconi:

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Era chiamata vuccuzza di ciuri
faceva l’amuri, faceva l’amuri
e lu faceva di tutti i maneri
di ‘ncapu, di sutta, davanti e darreri.

Quannu scinniu a la stazioni
Di un paesiddu cca vicinu
Si n’addunarunu vecchi e carusi
Ca ugn’era un monicu né un parrinu

C’e cu lu fa picchì  ‘cci siddia
C’e cu ‘nveci si cci ni preja
Vuccuzza di ciuri ne l’unu ne l’autru
Ppi didda l’amuri è na puisia.

Ma la passioni unni ti fa ghiri
A fari li cosi ca fannu piaciri
Senza capiri su ‘u disgraziatu
È zitu, schettu o maritatu.

Ed accussì ca di oggi a dumani
Vuccuzza di ciuri unn’avi cchiu spassu,
mentri ca tutti ddi cani arraggiati
ci iettanu ‘u Sali a chiuirci ‘u passu.

Ma li cummari d’un paiseddu
Talianu ‘ntunnu e unn’hanu cchi fari
E mentri ca perdunu a corda e lu sceccu
Su rusicanu sulu l’ossa cc’o sali.

Si sapi ca ‘a genti duna cunsigliu
Sintennusi cumu Dominneddiu
Grapunu a’a vucca ma all ‘occurrenza,
un sanu diri mancu piu.

Accussi ‘na vecchia schittusa e acita,
senza né figli e senza cchi’u vogli,
si piglia’u culu a puzzuluna
e ghiva dittannu la so dottrina.

Si la pigghiava ccu li cornuti,
dicennuci a tutti mali paroli:
cu rubba l’amuri avrà punizioni
di carrabbunera e guardi riali.

Currerru tutti a parlari ch’à guardi
Ci dissiru senza menzi paroli
dda tappinara avi troppi clienti
Chiossà  di chidda ca vinni pani
E arrivarru quattru gendarmi
Ccu li cappedda e ccu li pennacchi
Arrivarunu ‘ncapu e cavaddi
ccu li pistoli e li scupetti

ma puru i sbirri e i carrabbunera
un fanu mai u propriu duviri,
ma quannu si misiru l’alta uniformi
l’accumpagnarunu alla stazioni.

Alla stazioni c’eranu tutti
dai guardi riali o sagristanu
Alla stazioni c’eranu tutti
Ccu l’occhi vagnati e ‘u cori in manu
A salutari cu ppi tanticchia
Senza pritenniri e senza aviri
A salutari cu ppi du jorna
Purtà l’amuri ne ddu quarteri

c’era un cartellu ranni
e l’occhi chini ‘i pena
dicivunu addiu vuccuzza di ciuri
ccu ti si ni và la primavera.

Ma na notizia di sta purtata
Un’avi bisugnu di carta stampata
Cumu lu metri e lu pisari
Fici lu giru di lu quartieri.
Alla stazioni ca veni d’appressu
C’è chiossà  genti di chidda ca lassu
C’e cu s’asciuca l’occhi di chiantu
Cu si prenota p’un momentu.

E puru u parrinu ca murmuriava
Si dici mutu ‘na santa orazioni
E sta Madonna china ‘i biddizzi
a voli accanto pp’a procissioni.
E cu la Vergini in prima fila
Vuccuzza di ciuri manu ccu manu
Si porta appressu ppi lu paisi
L’amuri sacru e chiddu buttanu!

Metafore

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Ditegli sempre di sì
di Eduardo De Filippo
con Carolina Rosi, Tony Laudadio, Andrea Cioffi, Antonio D’Avino, Federica Altamura, Vincenzo Castellone, Nicola Di Pinto, Paola Fulciniti, Viola Forestiero, Vincenzo D’Amato, Gianni Cannavacciuolo, Boris De Paola
regia Roberto Andò
produzione Elledieffe – La Compagnia di Teatro di Luca De Filippo, Fondazione Teatro della Toscana

Eduardo De Filippo innesta sulla greve serietà dell’umorismo pirandelliano la dirompente forza del comico partenopeo, ereditato dal padre, dal teatro dell’arte, dalla inesauribile vita napoletana fatta di un linguaggio che è impastato con l’assurdo e con la pienezza del sole.
Di questo innesto che lo ha reso grande, Ditegli sempre di sì è paradigmatico. Si tratta infatti di una tipica situazione ‘pirandelliana’ nella quale il protagonista, Michele Murri, torna a casa dopo un anno di cure in manicomio. I medici garantiscono alla sorella Teresa che Michele è guarito, anche se «non del tutto». E infatti quest’uomo tende a prendere ogni parola e ogni situazione alla lettera, crede a ogni enunciato, pensiero, figura, scherzo, iperbole che gli si comunica. Gli effetti di tale atteggiamento non possono che essere travolgenti e generano una serie assai divertente, e plausibile, di equivoci. Sino a che, e qui si svela il dispositivo profondo del testo, Michele prende per pazzo un giovane aspirante attore, sentendogli dire – pirandellianamente – che la vita è più teatrale del teatro e il teatro più vivo della vita.
Come tutti i testi, anche questo può essere messo in scena in molti modi. La regia di Roberto Andò mostra ancora una volta i suoi limiti scegliendo una tonalità farsesca che in realtà nuoce al comico che intrama l’opera. La quale è, alla fine, una riflessione dolorosa e ironica sulla comunicazione. Prendendo ogni parola alla lettera, Michele Murri annulla gli strati profondi, molteplici e sfavillanti del linguaggio umano. La sua ossessione per la precisione, per la certezza, è la stessa follia del metodo galileiano che innalza il linguaggio della matematica a unico idioma del mondo.
Il linguaggio, invece, come l’esistenza, è fatto di ambiguità, sfumature, polisemanticità, immersione nelle situazioni e nei contesti. In ciò che Morris ha chiamato «pragmatica», al di là della sintassi e della stessa semantica. Della comunicazione va compreso il non detto, che ne costituisce la condizione stessa, assai più che l’esplicitamente pronunciato. Chi invece vuole ricondurre ogni formulazione, frase, espressione, parola, soltanto al suo significato letterale è davvero un folle. Anche per questo è così difficile comunicare. E anche per questo è così meraviglioso parlare e scrivere. «La lingua degli uomini è sciolta, ne sgorgano tante parole (μῦθοι) / diverse, ricca pastura di frasi da entrambe le parti. / Ogni cosa che dici, ne senti un’altra appropriata» (Iliade, XX, 248-250, trad. di Giovanni Cerri) e in modo appropriato devi rispondere, consapevole che dall’altro non arrivano dei suoni ma l’intero suo mondo, alla fine inattingibile nella sua trasparenza, e splendente invece di metafore.

D’Arrigo

Il mare e la morte nell’opera di Stefano D’Arrigo
in Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre-ottobre 2022
pagine 147-151

Indice
-Il mare, la morte
-Omero / Heidegger
-L’Orca, la materia
-La potenza della femmina
-Un lessico arcaico, splendente e magico
-Il mare della Nonsenseria

Dentro le spire dello spazio e i gorghi del tempo; dentro una lingua antica, espressionistica e lontana, «quell’isola macerata e persa, la Sicilia» ha generato lungo i secoli eventi, parole e umani sorridenti e solitari. Alla fine ha generato il mare, ha generato la morte. La morte e il mare che sono la stessa cosa, il secondo rende visibile la prima.
Alla fine la Sicilia ha generato l’Orca di Stefano D’Arrigo, emblema fisico e materico dell’essenza del vivente, che è appunto il morire, il quale comincia sin dal primo istante dello stare al mondo.
Horcynus Orca è un romanzo omerico e heideggeriano. Omerico per il mare e per i nomi, per la struttura epica che tutto lo pervade, perché romanzo marino e occidentale. Romanzo heideggeriano perché incentrato sull’«essere che passa per la Morte», sulla morte come necessità del vivente e destino cosmico.
Horcynus Orca è soprattutto una macchina linguistica che senza requie inventa la propria strada e la percorre con gli strumenti della parola, delle parole inventate, ricreate, rese una cosa sola con il reale. Un lessico arcaico, splendente e magico nel quale un siciliano ritrova suoni, verbi, avverbi, aggettivi della propria storia, quali: incantesimato, scandaliare, pìccio, per la madosca, tappinara, nisba; nel quale i costrutti e il vocabolario sono a ogni pagina inventati, creati, reinventati, metabolizzati, metamorfizzati. Parole dentro le quali si sprofonda: «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro più dentro dove il mare è mare».

[La foto di D’Arrigo è di Ferdinando Scianna (1988)]

Odissea

Umanità irrequieta, nel mare e nel sole di un viaggio rapsodico
il manifesto
21 gennaio 2022
pagina 11

Il personaggio e la persona di Odisseo sono una delle incarnazioni più emblematiche dell’ermeneutica, del fatto che la vera storia di una figura letteraria, di un’opera, di un concetto sono i suoi effetti nel tempo. E questo conferma la potenza degli antichi canti dei Greci che vennero selezionati, messi per iscritto e ai quali si diede il titolo di Iliade, la guerra, e di Odissea, i viaggi e i ritorni. Vale a dire i due archetipi della letteratura universale perché modello e forma delle esistenze di tutti noi: i conflitti, la casa, gli affetti, lo spazio, l’inquietudine, la morte.

Come le foglie

Il titolo è del tutto ed efficacemente esplicativo dei contenuti del libro: Nel laboratorio di Omero (Vincenzo Di Benedetto, Einaudi 1994). Uno dei suoi obiettivi è infatti andare oltre l’enigma omerico per scomporre e analizzare la tecnica e la poetica dell’Iliade come entrando nel laboratorio, appunto, di Omero. Laboratorio che appare in tutta la sua ricchezza di invenzioni, varianti, soluzioni innovative e assai creative, in tutta la sua «altissima elaborazione formale» (p. VIII), della quale fanno parte i rapporti del narratore con il personaggio. Al quale il narratore fa da spalla, con il quale gioca e dissente, il cui impeto spesso frena, i cui livelli di conoscenza articola in modo differente, al quale parla, che fa entrare in contraddizione con se stesso e con altri personaggi: «Le differenti versioni sono tutte vere, anche se incongruenti tra di loro. Ciò che conta per Omero è la realtà del segmento narrativo che egli volta per volta costruisce e di fronte a questa realtà anche una eventuale incongruenza appare un dato secondario» (79); «Lo stesso evento è visto dunque in modo diverso, a seconda del personaggio che ne riferisce e della situazione in cui egli si trova» (81).
Il poeta dell’Iliade ama e costruisce di continuo delle corrispondenze simmetriche e delle strutture parallele che emergono nella concordia discors fra Achei e Troiani, nella «corrispondenza/incontro […] in atti e situazioni che vanno al di là della guerra che li contrappone gli uni agli altri» (94) e che toccano il loro culmine nelle numerose e intense corrispondenze dell’ultimo libro del poema, nell’episodio che vede il confronto duro e alla fine solidale tra Achille e Priamo, al quale l’eroe ha ucciso il figlio. Numerose e assai significative sono le corrispondenze interne fra episodi e stilemi che si trovano e ritrovano anche a grande distanza tra le parti del poema. Un sistema di corrispondenze a distanza che è di tali dimensioni da costituire per Di Benedetto «uno dei segni più eloquenti di un’organizzazione del poema secondo un disegno preciso dell’autore, fin nei minimi particolari. Dato questo sistema di corrispondenze, si può escludere con tranquilla coscienza una composizione estemporanea del poema. E invece attraverso il gioco delle corrispondenze a distanza siamo in grado di cogliere tutta una serie di snodi di primaria importanza nella organizzazione del racconto» (178), a cominciare dalle profonde corrispondenze tra la parte iniziale e quella finale dell’opera.
Anche per questo è opportuno andare al di là della questione – discussa, studiata e celebrata – della oralità del poema. Sarebbe infatti «improprio delegare alla modalità della trasmissione del testo tutta una serie di questioni attinenti alla composizione dell’opera, al suo articolarsi in parti interrelate tra di loro, alla diversità dei registri espressivi» (104).
La pluralità delle relazioni tra il narratore e i suoi personaggi; le corrispondenze e riprese interne; la simmetria e insieme gli scarti consapevoli, giustificano la tesi di fondo di questo libro, vale a dire  «che c’era nella mente del narratore un piano ben preciso, un piano che garantisce dell’unità del poema» (265). 

Omero è completamente immerso nel suo mondo, sia dal punto di vista ideologico sia stilistico, ma va anche al di là di esso, mettendo in discussione la materia stessa del suo poetare e riuscendo «a realizzare poesia – e grandissima poesia – in quanto egli va al di là di questo sistema e si crea, come Achille di fronte ad Agamennone, uno spazio a sé» (358).
Queste parole conclusive del libro arrivano alla fine di un’analisi le cui strutture ho cercato di indicare e che entra nel dettaglio di una miriade di specifiche tematiche, tra le quali – solo per citarne alcune – la stoltezza/accecamento degli umani di fronte agli eventi; la progressiva costruzione di una ψυχή, di una mente consapevole della propria esistenza, anche mediante monologhi e riflessioni su quanto accade e su ciò che il personaggio sente come propria reazione all’accadere; un antropomorfismo molto lontano da quello dei monoteismi poiché fondato anch’esso sull’identità/differenza tra il divino e l’umano.

L’esito ermeneutico complessivo di queste analisi complesse, raffinate, erudite e assai chiare è che nella costruzione del poema e nel racconto delle sue vicende Omero sia andato consapevolmente al al di là della guerra, che pure dell’Iliade è pervasiva sostanza: «La grandezza di Omero (e anche ciò che rende difficile capire appieno la sua opera) consiste nel fatto che egli fa un poema che racconta una guerra, e questo racconto è realizzato con pieno gusto del narrare e con un prodigioso senso del fattuale; e nello stesso tempo, però, il poeta svela una fascia di realtà profonda, che va al di là della guerra, come svuotandola. Nel mentre fa poesia, il poeta dell’Iliade ha il coraggio di mettere in discussione quella che in origine appare come la base stessa del suo poetare (251-252). Dentro e oltre la guerra, il poeta ha colto il potere della morte come dato fondante dell’esistenza, un Sein-zum-Tode  che ha nella metafora degli umani/foglie una sua limpida e concreta espressione.

O Tidide coraggioso, perché chiedi della mia stirpe?
Quale è la stirpe delle foglie, tale anche degli uomini.
Le foglie il vento le sparge a terra, e altre la selva
fiorente ne genera, e arriva il tempo di primavera;
così la stirpe degli uomini ora germoglia e ora svanisce.
(VI, 145-149, parole di Glauco rivolte a Diomede, qui a p. 319)

O scuotitore della terra, non potresti dire che saggio
io sono se contro di te combatterò a causa degli uomini
infelici, i quali simili alle foglie alcune volte
sono pieni di ardore, loro che mangiano il frutto della terra,
e altre volte periscono esanimi. Ma immediatamente
cessiamo di combattere. La guerra la facciano loro.
(XXI, 463-466, discorso di Apollo a Poseidone, qui a p. 321)

Coerentemente, il poema si chiude con la celebrazione del rito funebre in onore di Ettore, in emblematica corrispondenza con quello in onore di Patroclo, da lui ucciso.
Oἳ φύλλοισιν, simili a foglie.

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