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Per l’Europa, contro l’Occidente

Che cosa accadrebbe se una qualsiasi potenza politica massacrasse centinaia di bambini con le loro madri, distruggesse le loro case e città, li rinchiudesse dietro e dentro un muro con scarsa acqua, pochi farmaci, nel totale abbandono? Ma se a fare tutto questo -un genocidio- è Israele, la stampa ‘occidentale’ minimizza, nasconde, sopisce e tronca.
Che cosa sarebbe accaduto sulla stampa italiana -e in genere filostatunitense- se più di quaranta persone fossero state bruciate vive in Ucraina da militanti filorussi? Ma poiché a compiere un simile massacro sono stati dei «sostenitori del governo di fatto ucraino -che, caso strano, nessun giornalista definisce ‘di destra’, malgrado il colore di chi lo sostiene politicamente o con le armi, per non pregiudicarne la reputazione presso la componente più progressista della schiera dei ‘difensori dei diritti dell’uomo’», questi e altri eventi sono stati «sottaciuti, relegati a breve di cronaca» (M. Tarchi, in Diorama letterario 319, 2014,  p. 3).
Un evento così atroce sul quale si è steso il silenzio dimostra quale sia il livello di autonomia della ‘libera stampa occidentale’, un livello quasi nullo. Quando qualcuno si rallegra che alcuni giornali chiudano -e io sono tra costoro- è perché una stampa asservita sino a questo punto non è inutile, è dannosa. Essa dà infatti l’illusione di una libertà che non esiste. E in Occidente non esiste poiché in realtà la Guerra fredda non è mai finita: «La fine del sistema sovietico non ha minimamente modificato i dati fondamentali della geopolitica. Li ha, viceversa, resi più evidenti. Dal 1945 in poi, gli Stati Uniti hanno sempre cercato di impedire l’emergere di una potenza concorrente nel mondo» (A. de Benoist, p. 4). E a tale fine stanno accerchiando quanto più possibile la Russia. La guerra civile in Ucraina -voluta e finanziata dalla Nato, vale a dire dagli USA- è funzionale al disegno di «un mondo unipolare soggetto all’ideologia dominante rappresentata dal capitalismo liberale» (Ibidem).
In questo quadro l’Europa non esiste più. L’Europa è completamente asservita agli interessi degli USA e della loro economia. Emblematico è il cosiddetto Trattato di Partenariato Transatlantico su commercio e Investimenti (TTIP), del quale la stampa si guarda bene dal parlare e che rappresenta invece l’evento economico e sociale più importante per il presente e il futuro dell’Europa.
Per un europeista come me è doloroso leggere che «Putin sa che l’Unione europea non ha alcun potere, alcuna unità, alcuna volontà. […] Putin sa che l’Europa è in decadenza, che ormai è capace solo di gesticolazioni e provocazioni verbali e che gli stessi Stati Uniti la considerano un’entità trascurabile (‘Fuck the European Union!’ come ha detto Victoria Nuland)» (Id., p. 5).
L’unica strategia della quale gli Stati Uniti d’America sono capaci è la guerra tecnologica, vale a dire la guerra che a loro non costa vite umane e agli altri porta sterminio. Tale guerra è ammantata -e qui la funzione della comunicazione giornalistica e televisiva è fondamentale- da ideali umanitari, dietro i quali stanno sia il più esasperato cinismo sia le più fanatiche convinzioni etico-politiche. Rispetto alle Paci di Vestfalia (1648) che hanno posto fine alle guerre di religione con un nuovo jus ad bellum il quale «ammetteva che anche chi era combattuto poteva avere le sue ragioni. Era il nemico ma non era il Male», la guerra umanitaria inaugurata negli ultimi decenni del XX secolo ha posto il nemico fuori dall’umanità legittimando in tal modo ogni ferocia, ogni distruzione, ogni macello.

A partire dal 1945, essendo stata di nuovo posta fuorilegge la guerra di aggressione, ci si è affrettati a trovare dei modi per aggirare quel divieto. Una delle astuzie cui si è ricorsi è stata il concetto di «legittima difesa preventiva», di cui gli Usa e Israele si sono fatti teorici. Ma la trovata più importante è stata decretare che è lecito fare la guerra quando le motivazioni sono di ordine eminentemente morale: ristabilire la democrazia, salvare le popolazioni civili, eliminare una dittatura. (Id., p. 23)

Si dispiega così un Occidente che è il nemico dell’Europa. Un Occidente fatto di danaro e basta, l’Occidente del pensiero unico e del libero scambio senza limiti a vantaggio dei più forti: «Ex Oriente lux, ex Occidente luxus» (Stanislaw Jerzy Lec, p. 25). Persino Allan Greenspan -per lungo tempo presidente della Federal Reserve– in una deposizione del 2008 al Congresso USA ha ammesso i limiti e gli errori del modello liberista: «Ho trovato una pecca nel modello che consideravo la struttura di funzionamento cruciale che definisce come va il mondo. […] Proprio per questo sono rimasto sconvolto, perché per oltre quarant’anni ho creduto vi fossero prove inconfutabili che funzionasse eccezionalmente bene» (cit. da G. Giaccio, p. 31). E invece funziona eccezionalmente male.

 

La montagna incantata

(Der Zauberberg, 1924)
di Thomas Mann
Trad. di Bice Giachetti-Sorteni
Dall’Oglio editore, Milano 1980
Due volumi – Pagine 379 e 406

Un libro immenso e inquietante, che descrive lo spazio della storia in un luogo e in un istante particolari i quali però assumono una dimensione metatemporale. Il tempo è al centro dell’opera, come in Proust. Ma diversamente da Proust non c’è qui alcuna tensione verso la memoria. Piuttosto, c’è l’ambizione di un tempo puro, di un tempo altro. Il tempo non vi è calcolato ma viene esperito nella sua neutra immediatezza, per la quale «anni densi di avvenimenti trascorrono molto più lentamente di altri poveri, vuoti, leggeri, che il vento soffia via. […] Una uniformità ininterrotta abbrevia grandi periodi di tempo in un modo incredibile e spaventoso» (Vol. I, p. 116). Nonostante secoli di cristianesimo, la rappresentazione del tempo torna a farsi circolare e soprattutto diventa rispettosa del suo enigma, del suo essere «un mistero privo di essenza, inafferrabile e potente» (II, 5).
In questa temporalità senza tempo si svolge l’iniziazione di Hans Castorp alla vita. Uomo semplice, borghese senza eccessivi conflitti e aspirazioni, Castorp si trova a partecipare al grande spettacolo della conoscenza e della morale. Il mondo in cui si muove è un teatro tutto letterario e proprio per questo veramente reale. Una pervasiva ironia e una scettica ambiguità danno voce e carne ai grandi princìpi, agli archetipi, ai concetti. E tutto ciò senza che i personaggi nei quali idee, archetipi e concetti prendono corpo e forma risultino minimamente artificiosi.
Il romanzo è immerso in un’atmosfera nichilistica ben riassunta dalle parole di Clawdia Chauchat: «Il nous semble qu’il est plus moral de se perdre et même de se laisser dépérir que de se conserver» (I, 376; il corsivo e il francese sono dell’Autore). Nell’incontro e nel conflitto tra Occidente e Oriente, pensiero e natura, ragione e magia -conflitto che attraversa l’intero romanzo- Hans Castorp catalizza intelletto e corporeità, si fa testimone e vittima della dissoluzione di un mondo, dell’Europa alle soglie del suicidio, alla vigilia della Prima guerra mondiale.
Insieme a lui vivono altre allegorie: la mediocrità volgare della signora Sthör; la regalità dionisiaca di Peeperkorn «sacerdote danzante» (II, 254); la lucidità umanistica di Settembrini, per il quale la parola è civiltà; il radicalismo religioso e comunistico di Naphta, che unifica Gregorio Magno e la dittatura del proletariato in una palingenesi millenaristica; il militarismo obbediente e devoto alla bandiera di Gioachino; il bonario ed eccentrico dottor Behrens. È un universo di comportamenti e di caratteri che rendono il sanatorio di Davos una metafora del mondo, con tutto il suo male, la sua stoltezza, la sua violenza.
Il «monte del peccato» (II, 402) è una piovra continuamente tesa ad afferrare altre vittime tra i suoi tentacoli, è un trionfo della morte nella morte del tempo. Non a caso l’improvviso ritorno di Castorp in pianura a causa della tragedia bellica acquista quasi un senso di rinascita dopo la costante dissoluzione vissuta sulla montagna incantata. Al di sopra, eppure, sembrano rimanere incontaminati, dietro l’apparenza di un’intima partecipazione al male, la misteriosa antica bellezza di Clawdia e la calma tollerante di Hans. I dialoghi tra loro due e Peeperkorn sono singolari e perturbanti ma testimoniano di una lucida razionalità, di uno sceverare l’interiorità fin nei più reconditi meandri, di un amore verso la «forma» che non è «pedanteria» ma umana civiltà (I, 377). Clawdia rimane tuttavia una venere tartara e indolente, Hans un preoccupante figlio della vita troppo facilmente attratto dall’ambigua grandezza della morte, dell’amore, della malattia. Una triade costante nella poetica di Thomas Mann, per il quale il corpo è a volte una cosa sola con il Geist, altre è invece principio di dissolutezza.
Der Zauberberg è intriso di una palpitante luminosità, che si racchiude e si schiude nel finale del romanzo, quando in mezzo a rumori di sfacelo e a bagliori di guerra germina la luce di un sentimento d’amore legato alla «festa mondiale della morte» ma che al di là del «malo delirio che incendia intorno a noi la notte piovosa» (II, 406) ha saputo essere pura forma di una bellezza antica.

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