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Un comico niente

Piccolo Teatro Studio – Milano
Edificio 3
Storia di un intento assurdo

Scritto e diretto da Claudio Tolcachir
Traduzione di Rosaria Ruffini
Con: Rosario Lisma (Ettore), Stella Piccioni (Sofia), Valentina Picello (Moni), Giorgia Senesi (Sandra), Emanuele Turetta (Manuel)
Ottobre-Novembre 2021

L’Edificio 3 è quasi del tutto vuoto, i suoi uffici si sono trasferiti altrove. Luci e telefoni non sempre funzionano. Rimangono soltanto tre impiegati a svolgere il loro lavoro, ad arrivare a volte in ritardo (Sandra), a decidere di viverci non avendo più una casa (Moni), a presentarsi di nuovo dopo la morte della madre ottantenne (Ettore).
Moni si occupa freneticamente delle vite degli altri; Sandra desidera a tutti i costi un bambino, con il marito che forse ha o in ogni caso con chiunque serva allo scopo; Ettore appare molto timido ma vive relazioni assai forti, la cui natura emerge mano a mano. I tre personaggi reciprocamente si fidano, diffidano, hanno bisogno l’uno dell’altro e tengono sempre l’altro a distanza.
L’edificio è condiviso da una giovane coppia. Lei (Sofia) perdutamente innamorata, lui (Manuel) oppresso da tanto amore e in cerca di altro.
Sulla scena i tre impiegati e la coppia condividono gli stessi spazi senza vedersi e senza incrociarsi. Spazi che a volte si aprono a bar, a ristoranti, a studi medici. Arriva il momento in cui queste cinque vite si incontrano, convergono, scandiscono le voci, le storie, i dolori e le rabbie, in una partitura che diventa sempre più una sola, la stessa, e che tuttavia conferma il fatto che ciascuno sta solo sul cuor della terra.
Tolcachir attinge alla vita quotidiana degli umani per cogliere la dimensione insieme tragica e comica dell’esistenza individuale e collettiva. Edificio 3 è una commedia spassosa ed è un dramma dai risvolti anche feroci. Davvero notevole è che queste due dimensioni risultino inseparabili. Lo stesso autore-regista afferma di essere «molto contento quando di un lavoro come Edificio 3 uno spettatore mi dice ‘sono morto dal ridere’, e un altro, appena dietro di lui, ‘è tristissimo’ perché entrambe le cose sono vere» (Programma di sala, p. 12). Lo confermo non soltanto come spettatore ma per aver sentito le medesime affermazioni alla fine dello spettacolo, mentre si usciva dal Teatro Studio.
La drammaturgia argentina contemporanea è capace di reinventare il teatro rimanendo fedele al passato e traendo dal presente l’assurdo e le contraddizioni. Le due opere di Rafael Spregelburd che ho visto anni fa sempre al Piccolo – La modestia e Il panico – hanno la capacità di collocare su un piano universale e persino esoterico il tessuto quotidiano delle vite. Tolcachir mostra e tocca l’insignificanza, sfiora il niente della vita, trasfigurandolo in un profondo per quanto amaro sorriso. Entrambi richiedono la partecipazione attenta e attiva da parte dello spettatore, al quale viene affidato il compito di costruire il proprio percorso dentro il testo e in ciò che vede.
Se Edificio 3 sfiora appunto il nulla è perché lo sa fare con il talento dei suoi cinque interpreti, le cui battute e voci devono incastrarsi perfettamente le une con le altre, pena la cacofonia. E invece tutto appare ed è plausibile poiché ingiudicabile, alla fine, è il lutto della vita.
Lo spettacolo era già pronto nell’autunno del 2020. Fu proibito metterlo in scena, come per tutte le altre opere teatrali, musicali, cinematografiche. Fu proibito da soggetti e situazioni molto più fittizi e più assurdi di quelli che danno vita a Edificio 3.
Rispondendo a una domanda sulla natura del teatro, l’autore così risponde: «Il teatro, per quello che è, per i motivi per cui ci piace farlo, è insostituibile. Io non riesco a vedere uno spettacolo in video: lo faccio per motivi di studio, perché si tratta magari di un classico del repertorio che non potrei a approcciare diversamente, ma in altri contesti mi rifiuto.[…] Per noi gente di teatro, non poter fare lo spettacolo ascoltando il respiro del pubblico è disperante» (Programma di sala, p. 10). La messa in scena del testo fa comprendere ancor meglio tali parole. Che condivido e che confermo anche per la mia professione. Una lezione «a distanza», una lezione telematica, è uno strumento informativo e nozionistico. Non è una lezione. Una delle ragioni è quella che indicai in un articolo pubblicato nel 2008 dalla rivista di pedagogia Nuova Secondaria, il cui titolo è -appunto- Il docente come attore.

Vom Ereignis

Martin Heidegger
Contributi alla filosofia (Dall’evento)
[Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), 1989]
A cura di Friedrich-Wilhelm von Herrmann
Traduzione di Franco Volpi e Alessandra Iadicicco
Adelphi, 2007
Pagine 497

Il libro che oggi vorrei segnalare è uno dei capolavori enigmatici e totali di Martin Heidegger: i Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), tradotti in italiano con il titolo Contributi alla filosofia (Dall’evento). Un mio articolo dedicato a quest’opera uscì sul numero 9/2009 della rivista Nuova Secondaria (pp. 59-61). In esso cerco di comprendere le riflessioni di Heidegger -pubblicate nel 1989 ma stese tra il 1936 e il 1938- all’interno del suo itinerario, fatto di direzioni, tornanti, soste, sentieri interrotti, riprese. Fatto dunque di un pensiero vivo, il più vivo della contemporaneità.

Spero di tornare prima o poi in modo più sistematico su quest’opera fondamentale, esoterica e insieme trasparente, dalla quale si impara che l’Essere e il Tempo si dispiegano come evento. Il Tempo-Evento va al di là di ogni soggettivismo e oggettivismo, non è la categorizzazione che la mente produce della realtà e neppure soltanto l’eterno divenire della materia. Lo Zeit-Raum è la forma nella quale «il tempo sembra essere presente in ogni cosa, sulla terra e nel mare e nel cielo», come afferma Aristotele -uno dei Maestri di Heidegger- in Physica, IV, 223 a.
Il Tempo è in ogni caso parte e sostanza della domanda fondamentale, il Tempo è la denominazione della verità dell’Essere. Non una dottrina ma, ancora una volta, un compito, un cammino, un interrogare senza fine poiché «spazio e tempo sono nella loro essenza altrettanto inesauribili quanto l’Essere stesso» (§ 241, p. 369). Anche per questo la domanda sul tempo si pone al di là di ogni coscienzialismo, al di là di ogni posizione che fa del mondo un portato della mente, che fa dello spazio un calcolo di distanze umane e fa del tempo un frutto della soggettività che rammemora o attende. Anche questo, certo, sono il mondo, lo spazio e il tempo ma la struttura in cui simili caratteri affondano non è antropologica e invece si dispiega come vibrazione (Erzitterung) e oscillazione (Erschwindung) dello spazio-tempo, come la pulsazione di tutta la materia e della mente in quanto parte di essa.
Non a caso una pagina in cui Heidegger cerca di parlare di tutto questo si apre con il verbo wagen “osiamo”: «Osiamo dire direttamente questo: l’Essere è la vibrazione (die Erzitterung) dell’accadere divino (del preludio della decisione degli dèi sul loro Dio). Questa vibrazione allarga il gioco dello spazio-tempo in cui esso stesso viene all’aperto come rifiuto. L’Essere “è” così l’evento (Er-eignis) dell’appropriazione (Er-eignung) del Ci, quell’aperto in cui esso stesso vibra» (§ 123, p. 244).

Scuola del crimine

Sul numero di maggio 2010 del mensile Nuova Secondaria leggo un breve articolo dedicato agli insegnanti francesi che a Vitry-sur-Seine hanno compiuto un vero e proprio “ammutinamento”, sospendendo i corsi a causa del clima di assoluta insicurezza personale in cui sono costretti a lavorare: «All’ombra di compassate pedagogie imperversano allievi alla soglia del crimine. (…) Passate in corridoio, e vi lanciano insulti e gesti di minaccia. State spiegando, spalancano la porta, succede tre volte, quattro volte al giorno, un ragazzo mette la testa dentro, parla con qualcuno, senza badarvi. Ormai molti di noi si chiudono dentro a chiave. Dobbiamo fare i poliziotti, perché nei corridoi si urla, ci si scontra, ci si batte, le porte delle aule vengono prese a calci» (pp. 16-17).
Nel pieno della pratica sessantottina, Pasolini scriveva che gli studenti «sono regrediti -sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita- a una rozzezza primitiva (…) lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno. Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare» (Lettere luterane, Einaudi 1976, pp. 8-9).

Viziati e protetti in modo osceno dai loro genitori, blanditi dal mercato e dalla pubblicità, decerebrati da dosi massicce di televisione e videogiochi, coccolati a ogni lacrimuccia e giustificati a ogni aggressione da professori-amici e da professoresse-mamme, adulati da tecniche pedagogiche alle quali si può ben applicare l’ironia di Schopenhauer -«nessuna arte educativa pestalozziana può fare di un babbeo nato un uomo pensante» (Parerga e Paralipomena, Adelphi 1981, tomo I, p. 647)-, innumerevoli studenti rappresentano un settore della società fra i più violenti e conformisti, pervaso da una crudeltà gratuita e giocosa, da un’arroganza teppistica. A queste persone è sempre più difficile rivolgersi con parole che abbiano un qualche significato. I ragazzi vi sostituiscono il puro niente del significante, dell’urlo onomatopeico e idiota.

Troppi professori (dei pedagogisti non mette conto di parlare) hanno dimenticato le sagge riflessioni di Antonio Gramsci: «il ragazzo che si arrabatta con la storia e la matematica si affatica, certo, e bisogna cercare che egli debba fare la fatica indispensabile e non più, ma è anche certo che dovrà sempre faticare per imparare a costringere se stesso a privazioni e limitazioni di movimento fisico, cioè sottostare a un tirocinio psico-fisico. Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso. (…) La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandare “facilitazioni”». (Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi 1949, pp. 116-117). Sta qui la vera radice della fine della scuola. Un’istituzione che regala diplomi e lauree a dei sostanziali analfabeti merita davvero di scomparire.

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