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Specchi

Piccolo Teatro Strehler – Milano
La commedia della vanità
di Elias Canetti
Regia di Claudio Longhi
Traduzione: Bianca Zagari
Scene: Guia Buzzi
Con: Fausto Russo Alesi, Donatella Allegro, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Aglaia Pappas, Franca Penone, Simone Tangolo, Jacopo Trebbi
Violino: Renata Lackó – Cimbalom: Sándor Radics
Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma–Teatro Nazionale, Fondazione Teatro della Toscana, LAC Lugano Arte e Cultura
Sino al 26 gennaio 2020

Un regime volto al bene dei suoi cittadini intende purificarli da uno dei vizi più fastidiosi e pericolosi per la vita collettiva: la vanità. Emana dunque decreti assai severi che impongono di bruciare tutte le fotografie e distruggere tutti gli specchi. Esaltate da questa eccitante novità, le folle accorrono al luogo dove l’Io viene in questo modo distrutto, o almeno impossibilitato a vedersi e rivedersi. La difficoltà di fare i conti con la propria immagine diffonde tuttavia nel corpo sociale una vera e propria nientità del mondo, che ha come effetto disturbi psichiatrici e rigonfiature enormi dell’invidia, dell’odio e degli altri vizi, come accade quando il venir meno di uno dei sensi rende più acuti tutti gli altri. Gli spacciatori di specchi fanno affari, vendendo la possibilità di contemplarsi per qualche minuto. Sorgono infine luoghi dove il vizio viene tollerato e venduto a prezzi di mercato, come nei bordelli. Solo che adesso a essere offerti a differenti tariffe non sono i corpi altrui ma la propria immagine. Perduta l’identità, senza la quale non è possibile alcuna vera relazione, a emergere saranno dei soggetti che ripetono ossessivamente IO mentre si sottomettono tutti al grande ego di un dittatore.
Come si vede, questa commedia giovanile di Elias Canetti (1905-1994), scritta fra il 1933 e 1934, mette in guardia da alcune delle più striscianti illusioni del nostro presente.
La prima è che si possano dichiarare fuori legge i sentimenti. Nella commedia si tratta della vanità, negli anni Venti del XXI secolo si tratta dell’odio. Le dinamiche sono analoghe e non possono che risultare distruttive e autoritarie. Le leggi possono proibire infatti delle azioni, dei comportamenti, non possono toccare i sentimenti, pena la perversione dell’intera vita collettiva. La conclusione della commedia è inevitabile: proibire i sentimenti non può che avere come esito una dittatura.
La seconda illusione consiste nell’attacco all’identità. Chi si pronuncia contro l’identità non soltanto afferma una evidente sciocchezza antropologica ma è causa di grave danno nelle relazioni private, storiche, sociali, collettive. È infatti possibile entrare in relazione con la differenza soltanto a partire da una già esistente identità. Dove non c’è identità non è possibile intrattenere alcuna relazione. È questo un dispositivo sia logico –per il quale A=A e A≠B si coappartengono, l’uno senza l’altro non si dà– sia ontologico, per il quale ogni ente non è mai soltanto un ente ma è anche un evento che è parte di un processo, e quindi ogni ente è una relazione che si origina sempre da ciò che l’ente è già e ciò che l’ente non è ancora.
Si tratta di un dispositivo che agisce nell’opera fondamentale di Canetti, Massa e potere, e che nella commedia viene intuito e rappresentato mediante una struttura e un linguaggio espressionistici, che la messa in scena di Claudio Longhi rispetta nel grottesco dei movimenti, nella violenza del trucco sul corpo degli attori, nel vivace fracasso della prima parte e specialmente nell’opzione scenografica che riconduce e riduce la vicenda a quella di un circo degli anni Trenta, dentro il quale gli umani sono diventati un fenomeno da baraccone. Nelle quattro ore di spettacolo (una durata comunque eccessiva) sembra di assistere non soltanto a una commedia di Canetti ma anche a una serie di quadri di George Grosz. E tutto viene accompagnato dalle musiche dal vivo (violino e cimbalom) che danno ancor più l’impressione di stare dentro un circo. Il circo senza fine delle nostre vanità.

Δαιμων

L’inganno perfetto
(The Good Liar)
di Bill Condon
Con: Ian McKellen (Roy Courtnay), Helen Mirren (Betty McLeish), Jim Carter (Vincent), Russell Tovey (Steven), Willem Dafoe (Paul)
USA, 2019
Trailer del film

«Sono segreti fra te, dio, il diavolo e i morti». In questa frase della protagonista è racchiuso il senso di un thriller storico e psicologico che si muove nello spazio tra Londra e Berlino, nel tempo tra gli anni Zero del XXI secolo e gli anni Quaranta del Novecento.
I segreti sono quelli della natura umana, del δαίμων di ciascuno, che è molto più del carattere psichico; è l’incoercibile forza scaturita dalla profondità delle generazioni, del ciclo di nascita/morte, della casualità e del tumulto della materia. Nulla può opporsi al modo in cui ciascuno è plasmato, neppure il proprio interesse. È quanto si vede con chiarezza nella vicenda di Roy Courtnay, nella storia dell’umano che sta dietro a questo e ad altri nomi: una sconfinata avidità, un costante inganno, una pura malvagità.
Il dio è questo demone che guida le scelte, i passi, gli sguardi, gli scopi di ciascun mortale. Il diavolo è la natura umana. I morti sono i silenzi che ci accompagnano, le presenze che ci guidano, i passi che ci indirizzano, la compagnia verso la quale andiamo, gli affetti più stabili, i più pacati.
The Good Liar racconta per due terzi una storia scorrevole e quasi romantica, sin dall’inizio classicamente e piacevolmente truffaldina, ma che poi vira improvvisamente su tonalità tragiche, perdendo quindi in coerenza e guadagnandone in βία, in violenza.
Il racconto si chiude su due sguardi, entrambi intrisi di segreti e di morti. Quello maschile è la nequizia che neppure l’abisso placa, quello femminile è la malinconica dolcezza che neppure il lutto cancella.
ἦθος ἀνθρώπῳ δαίμων (Eraclito, DK 119, Mouraviev 63).

De Chirico, il mito

De Chirico
Palazzo Reale – Milano
A cura di Luca Massimo Barbero
Sino al 19.1.2020

Nacque a Volos, Giorgio de Chirico, in Tessaglia, a nord dell’isola Eubea. Nel cuore quindi della Grecia, dalla quale assorbì l’enigma, la logica labirintica, il mito. E il mito cominciò a dipingere. Centauri, argonauti, dèi, gladiatori, Odisseo, Ettore, Andromaca, abitano le prime sue opere in forme avvolgenti, dolci e insieme lontane. La partenza degli Argonauti (1909, immagine qui sotto) raccoglie Atena, il mare, il sacrificio, la cetra, il bianco, le fronde.
Il mito come distanza si fa ironia, soprattutto nei numerosi Autoritratti. Da quello nietzscheano del 1911 -che ha come epigrafe sulla cornice «Et quid amabi nisi quod aenigma est?», che cosa amerò se non qualcosa che si faccia enigma?, a quelli in veste di torero, principe, o semplicemente nudo. Autoritratti che non sono soltanto espressione dell’inevitabile narcisismo ma anche della consapevolezza che il corpo è quanto di più intimo noi siamo.
La folgorazione dell’architettura -fondante e splendido L’enigma di una giornata (1914, immagine di apertura)– con le piazze solitarie, le statue dentro lo spazio che diventa luce, i portici raccolti e inquietanti, i treni che corrono lontano alla ventura, le torri e le ciminiere rivolte verso il cielo sacro. L’architettura è anche la lezione del Rinascimento italiano. Nello sguardo di de Chirico la prospettiva diventa una struttura spaziotemporale che vibra di colori accesi, netti, ontologici.
E poi quadri dentro i quadri, il gusto e il gioco della ripetizione seriale, la libertà -massima– da ogni moda, richiesta, manierismo. Celebrato come inventare della Metafisica, la abbandona facendosi naturalista e romantico e poi vi ritorna negli anni Sessanta, sorprendendo e irritando quanti -critici, mercanti, pubblico– vorrebbero da un artista sempre la stessa forma. L’arte, invece, è invenzione che mai si stanca di «scoprire l’occhio e il demone in ogni cosa», come una volta disse.
In ogni sua fase, espressione, invenzione e sentiero, la pittura di de Chirico è sopratutto pittura, è la posseduta tecnica di un Maestro poiché «una pittura non può essere né sincera, né pura, né spirituale, essa può essere soltanto bene o male dipinta […] Ed è precisamente la qualità della pittura che determina se un quadro è un’opera d’arte oppure un oggetto qualsiasi». Una dichiarazione di poetica del tutto condivisibile.
Giorgio de Chirico è stato un pittore barocco, greco, postmoderno, omerico, ariostesco. Imprendibile perché abitante dentro l’ironia di una profonda intelligenza del mondo.
Un quadro del 1927 ha come titolo Il Filosofo. I suoi pensieri provengono letteralmente dal corpomente, dallo stomaco, dagli arti. Al centro di questo suo corpo un’altra frase: «Sum sed quid sum», che si può leggere come «sono ciò che sono» ma anche «sono ma in cosa consisto?». Uno degli interrogativi dai quali mito e filosofia sono sgorgati.

Assedio ed Esilio

Il Ventennio fascista disvelato, quell’iperbole che annienta
il manifesto
2 agosto 2019
pagina 11

Ho cercato, nel breve spazio di un articolo sul manifesto, di trasmettere almeno la Stimmung, la tonalità della scrittura di Pasquale D’Ascola, che in Assedio ed Esilio (Aracne, 2019) disegna un personaggio che resiste all’assedio della vita con un sentimento di esilio e in questa estraneità si salva.
Un romanzo che va al cuore degli eventi, capace di raccontare la storia, la guerra e la pace in un linguaggio che è ferita ed è, insieme, illuminazione.

Anni Ottanta

Reality 80
Milano –  Galleria Credito Valtellinese
A cura di Leo Guerra e Cristina Quadrio Curzio

Un’essenziale antologia degli anni Ottanta in Italia e non solo. Colori intensi. Il pop. La vittoria del ludico che è anche la vittoria della borghesia italiana e occidentale nella lotta di classe. Il 1989 avrebbe sancito in modo evidente tale trionfo. E questo anche nelle riviste, movimenti, artisti e soggetti che si dicono “contro”. È il contro degli snob. E quindi –  un po’ alla rinfusa ma in ogni caso emblematici – appaiono documenti e testimonianze che riguardano la Basilica di Massenzio nelle Estati romane organizzate dall’assessore del PCI Renato Nicolini; le architetture di Aldo Rossi; riviste come Cuore, Tango, Vinile; immagini di vari intellettuali bauscia milanesi e persino una foto di Armando Verdiglione. Su tutto aleggiano le parole d’ordine dell’effimero e del postmoderno.
Evento fondamentale fu la nascita delle televisioni private e dunque la pubblicità, la pervasiva e onnipotente pubblicità televisiva dalla quale sono germinati fenomeni da baraccone mediatico come Berlusconi e i suoi vari figli e imitatori, sino al presente. Da incubatore politico fece il Partito Socialista Italiano di Bettino Craxi, che rappresentò la vera svolta nella catastrofe della sinistra italiana.
Reality è il titolo giusto per una mostra come questa, che documenta l’avvenuta trasformazione della società in puro spettacolo. Prima ancora che tutto ciò accadesse fu Debord a disegnarne i contorni: «À l’acceptation béate de ce qui existe peut aussi se joindre comme une même chose la révolte purement spectaculaire: ceci traduit ce simple fait que l’insatisfaction elle-même est devenue une marchandise dès que l’abondance économique s’est trouvée capable d’étendre sa production jusqu’au traitement d’une telle matière première» (La Société du Spectacle [1967], Gallimard 1992, af. 59, p. 55). ‘Alla beata accettazione dell’esistente può certo aggiungersi come una sola cosa la rivolta puramente spettacolare: questo esprime il semplice fatto che la stessa insoddisfazione è diventata una merce appena l’abbondanza economica è stata capace di estendere la propria produzione sino al trattamento di tale materia prima’.

Fascismo / Antifascismo

A sorreggere l’illusione di una identità di sinistra ormai dissolta soccorre in Italia l’antifascismo, che da idea e pratica storica nemica della dittatura mussoliniana e del totalitarismo nazionalsocialista si è trasformata in una concezione del tutto astratta, astorica e metempirica, fondata sull’Ur-Fascism (una delle tesi più deboli di Umberto Eco) e avente come risultato assai pericoloso l’eternizzazione del fascismo stesso da parte di quanti credono di combatterlo e invece lo rafforzano, sottraendolo alla storia e al divenire.
Riconoscimento maggiore Mussolini e Hitler non potevano ottenere, tanto è vero che la bibliografia -anche biografica- su questi due personaggi e sui loro regimi va crescendo a dismisura, segno inquietante di un perenne fascino che tali dittatori esercitano sulle menti contemporanee, anche e specialmente su quelle che credono invece di opporsi ai loro crimini.
A 76 anni dalla fine del regime fascista e a 74 dalla conclusione della Seconda guerra mondiale, l’eternizzazione del fascismo conferma il fatto che l’antifascismo è un mito invalidante, una prospettiva che non solo impedisce di capire i fenomeni degli anni Dieci del XXI secolo ma si pone al servizio di ciò che il mito impedisce di vedere, il vero nemico della libertà e della giustizia, vale a dire il capitalismo globalizzato e le molteplici forme del suo trionfo.
In un’intervista del 1974 Pier Paolo Pasolini affermava che «esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per procurarsi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più. […] Buona parte dell’antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. Insomma, un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo» (a cura di Massimo Fini, L’Europeo, 26.12.1974). E negli Scritti corsari chiariva alcune delle ragioni di un giudizio così duro: «Il vecchio fascismo, sia pure attraverso la degenerazione retorica, distingueva: mentre il nuovo fascismo -che è tutt’altra cosa- non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo» (Garzanti 1993, p. 50).
Sulla questione si può leggere anche il recente libro di Alberto De Bernardi Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche, Donzelli 2018.

Natura morta metafisica

Carlo Carrà
Milano – Palazzo Reale
A cura di Maria Cristina Bandera
Sino al 3 febbraio 2019

Si viene accolti da Strada di casa (1900), un piccolo magnifico dipinto in movimento. Tutta in moto è infatti l’arte di Carlo Carrà, che fu tra i più convinti sostenitori del Futurismo, come testimoniano molte opere e la gigantografia che lo vede ritratto a Parigi nel 1912 insieme a Marinetti, Russolo, Boccioni, Severini. Il movimento del chiaro di luna (1910) è uno dei quadri più riusciti del periodo, fatto di strutture verticali che si addensano nello spazio con la forza del colore. Il particolare utilizzo del colore è uno degli elementi costanti dell’opera di Carrà, con la sua intensa presenza al confine tra naturalismo e immaginazione.
Un colore che crea città, umani, mare, case, cieli. Ai luoghi l’artista dedica un’attenzione profonda, creando una pittura urbana e insieme corporea, marina, vegetale. Luoghi naturali e luoghi costruiti. È ben presente la lezione di Cézanne, con  le case e i tetti immersi nella vegetazione. Ogni forma è scandita, si staglia, parla. Davvero «gli elementi architettonici subordinano a sé tutti i valori figurativi di forma e colore», come Carrà con chiarezza disse.
Ai miei occhi l’apice di questo artista è il periodo metafisico. La metafisica di Carrà è un cubismo raffinato, pulito, luminoso. Natura morta metafisica (1919, qui sopra) immerge nella materia come ombra e come luce dentro le quali abita il corpomente umano, circondato e intriso di oggetti perfetti, che sono una cosa sola con i colori, le forme, la vibrante geometria, il divenire.
Poi Carrà cercò e percorse una strada tutta sua, intessuta di corpi dentro l’aria, palpitanti nello spazio, intramati con i luoghi, con la luce. È quanto testimoniano le opere sue forse più celebri: Il pino sul mare (1921, qui accanto), Dopo il tramonto (il faro) (1927), Cavallo sulla spiaggia (1952), le cui costanti sono l’inoltrepassabile solitudine e la potente malinconia che emergono anche nei versi di Ungaretti, del quale Carrà fu amico.
Come questi: «Balaustrata di brezza / per appoggiare stasera / la mia malinconia» (Stasera [1916] da «L’Allegria», in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori 1977, p. 31).
O questi altri: «Cercata in me ti ho a lungo / Non ti trovavo mai, / Poi universo e vivere / In te mi si svelarono. // Quel giorno fui felice, / Ma il giubilo del cuore / Trepido mi avvertiva / Che non ne ero mai sazio. // Fu uno smarrirmi breve, / Già dita tue di sonno, / Apice di pietà, / Mi accarezzano gli occhi. // Davi allora sollecita / Quella quiete infinita / Che dopo amare assale / Chi ne godé la furia» (Soliloquio I [1969], da «Nuove», ivi, p. 322).

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