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Georges Seurat, Paul Signac e i neoimpressionisti

Milano – Palazzo Reale

Divisionismo e pointillisme hanno rappresentato la grande svolta nel passaggio dall’arte ottocentesca a quella contemporanea. Definiti anche come neoimpressionisti, Seurat, Lucienne Pissarro, Luce, van Rysselberghe, Cross, Delavallée, Angrand, Signac partono sì dai maestri dell’Impressionismo ma arrivano a esiti del tutto originali. È quest’ultimo -Paul Signac- l’artista principale della mostra. Nelle sue opere diventa chiarissimo come i punti di colore sparsi sulla tela con grande rispetto per le leggi della pittura -contrasto, mescolanza, gradazione- lascino ai processi cerebrali di chi guarda la formazione dei volumi e degli sfondi.

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El Tano

Produzione: Terra delle O
Regia e interpretazione di Antonella Puddu
Musiche dal vivo di Riccardo Pittau
SpazioTeatro89 – Milano

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La storia di Martino Mastinu, sindacalista originario della Sardegna, incarcerato, torturato e ucciso in Argentina negli anni della dittatura di Videla. Il racconto essenziale di Antonella Puddu e la musica metallica ma insieme appassionata della tromba di Pittau disegnano con sobrietà una vicenda di violenza e di ferocia politica. Tra i Desaperecidos ci furono molti italiani -”El Tano” vuol dire, appunto, l’italiano- mentre l’Italia faceva da contorno (nel 1978) al trionfo dell’Argentina calcistica guidata da Maradona in campo e dai militari al governo. Una messa in scena dura, una testimonianza necessaria.

Magritte. Il mistero della natura

Milano – Palazzo Reale
Sino al 29 marzo 2009

Il Surrealismo è diventato attraverso Magritte parte del nostro modo di vedere il mondo. La semplicità del fatto che quella dipinta «n’est pas une pipe» -certo!- perché non può essere caricata e fumata ma è soltanto la rappresentazione di una pipa, sembra ancora turbare. Al di là di questa anche troppo celebre icona, l’arte di Magritte è complessa e del tutto consapevole. La discrasia tra percezione e realtà è uno dei temi filosofici per eccellenza, dall’invito di Eraclito e Parmenide -pur così diversi- a diffidare dell’«occhio che non vede e dell’udito che rimbomba di suoni illusori», fino agli insegnamenti della Gestalt passando per la rassegnata rinuncia kantiana a conoscere la realtà come essa è in sé. Magritte germina da qui e per questo è costante il suo invito a cogliere l’enigmaticità assoluta dell’ovvio: «le mie opere sono tutte impregnate della certezza che noi apparteniamo, di fatto, a un universo enigmatico».

L’enigma è il quotidiano, l’arte cerca solo di dirlo. In questa mostra l’attenzione si concentra sui segreti del mondo naturale, dentro il quale Magritte opera la contaminazione fra i tre regni. Appaiono quindi le piante-uccelli, le aquile che si trasformano in montagne, uova/sculture, donne il cui corpo diventa cielo, intrecci impossibili di luci e di ombre come nell’intenso L’empire des lumières, la cui potenza è data dalla contemporaneità di una abitazione-giardino immersa nella notte e del cielo pienamente diurno che la sovrasta. In ogni caso, è ancora Magritte a parlare, «non si deve temere la luce del sole con la scusa che è servita quasi sempre a illuminare un mondo miserabile». La Luce è pura, come il mondo. A poter essere spento e quindi miserabile è -semmai- l’occhio umano che guarda. Il Surrealismo è un modo per aprire gli occhi sull’invisibile: «essere surrealista significa bandire dalla mente il già visto, ricercare il non visto». Il Surrealismo è una filosofia.

Pasolini

Pier Paolo Pasolini – Giuseppe Bertolucci

La rabbia di Pasolini
Italia, 2008

Nel 1963 Pasolini ricevette l’incarico di trarre un film dalle migliaia di edizioni di Mondo libero, un cinegiornale dell’epoca che spesso lo attaccava per la sua “immoralità”. Il produttore Gastone Ferranti gli volle poi affiancare un’analoga operazione affidata a Giovannino Guareschi. Pasolini non gradì ma portò a termine il proprio compito. Ben presto dimenticato, questo film torna ora in circolazione per merito della Cineteca di Bologna e del suo presidente Bertolucci.
Il risultato è straordinario e tragico.
Dagli anni Cinquanta e Sessanta il mondo è infatti cambiato e di molto, non foss’altro per la scomparsa dell’Unione Sovietica, ma sembrano identiche le paure, le guerre imperialiste, la piccola politica italiana. Pasolini afferra i materiali di questi cinegiornali –da lui definiti “moralisti e qualunquisti”- e li trasforma dal di dentro tramite un diverso montaggio e un commento affidato alla lettura di Giorgio Bassani nelle sue parti in versi e di Renato Guttuso in quelle in prosa. Tutta la capacità di aruspice (come lo ha definito Giuseppe Bertolucci presentando il film a Milano) di Pasolini emerge nella intuizione di quello che stavano diventando il mondo e l’Italia, sottoposti a un potere mediatico invasivo e alla televisione “che ti ruba l’anima” (e siamo nel 1963!).
Assai dolce l’omaggio a Marylin Monroe, “sorellina dalla bellezza d’oro”, e lucidissima l’intervista finale allo stesso Pasolini, nella quale il poeta parla della mancanza di vera rabbia tra gli intellettuali e nella società civile del nostro Paese, “perché ci vuole una vera borghesia per una grande rabbia e l’Italia è terra di piccoli borghesi dove non possono nascere che piccole rabbie”. Rabbia intesa, chiarisce Pasolini, nel senso del Socrate che non lascia mai in pace Atene. Un film “da far vedere nelle scuole”, come si diceva una volta. Sempre che ancora scuole e università rimangano luoghi di comprensione critica dell’esistente e non soltanto di pasoliniana «omologazione».

Changeling

di Clint Eastwood
Con: Angelina Jolie (Christine Collins), Jason Butler Harner (Gordon Northcott), Jeffrey Donovan (Commissario di polizia J.J. Jones), Michael Kelly (V) (Detective Lester Ybarra), John Malkovich (Reverendo Gustav Briegleb), Amy Ryan (Carol Dexter) Devon Conti (Arthur), Gayle Griffiths (Walter Collins)
USA 2008

La vicenda accadde realmente a Los Angeles tra il 1928 e il 1935. Tornando dal lavoro, una giovane madre non trova il proprio bambino di nove anni. Dopo alcuni mesi la polizia le riporta un ragazzino che dice di essere suo figlio ma che non lo è. Alle richieste della donna di proseguire le ricerche, le Istituzioni rispondono internandola in un manicomio dal quale la salva solo un pastore presbiteriano che da anni denuncia la corruzione e la violenza della polizia della città. Viene catturato un serial killer che ha massacrato una ventina di bambini. Lo scandalo è grande. Processi e commissioni d’inchiesta danno ragione alla donna e alla sua tenacia.

Come in Un mondo perfetto e soprattutto nel magnifico Mystic River, la violenza sui bambini diventa l’occasione per una riflessione classica nella forma e disincantata nella sostanza antropologica, nel riconoscimento della tenebra inestirpabile che intesse l’umano e le sue espressioni. Una saggezza che nei film di Eastwood si sta ampliando sempre più fino a decretare il limite, la violenza e l’infamia delle grandi Istituzioni: polizia, amministrazioni, manicomi. La struttura arbitraria e repressiva di questi ultimi viene descritta in un modo degno di Basaglia. Una donna fragile e sola riesce tuttavia a incunearsi dentro la Macchina del potere e a svelarne la natura malvagia. La «speranza» è così l’ultima parola pronunciata nel film. Uno sperare contro ogni rassegnazione, contro il buon senso dei più, contro la viltà. Consapevoli che il Leviatano è indistruttibile ma che va combattuto ugualmente per essere e sentirsi ancora umani. Un’idea necessaria anche nell’Italia di oggi e non solo negli USA della Grande Depressione.

La fattoria degli animali

Teatro Filodrammatici – Milano
da George Orwell
Progetto e regia Bruno Fornasari
Con: Tommaso Amadio, Marco Cacciola, Stefania Pepe, Andrea Lapi, Giulia Viana, Giacomo Ferraù
Produzione eThica?
Sino al 30 novembre 2008

L’apologo di Orwell è dirompente. Mediante la trasformazione degli uomini in animali, la barbarie del comunismo diventa di una chiarezza assurda, di un’evidenza quasi accecante. Si capisce, quindi, perché in Inghilterra, nella liberale Inghilterra, il suo libro fosse stato rifiutato da ben quattro editori che ritenevano inopportuno urtare la suscettibilità di Stalin, in quegli anni (il libro uscì nel 1945) alleato dell’Occidente. L’amore di Orwell per la libertà sempre e comunque, lo induce invece ad asserire che «da una decina d’anni credo che l’attuale regime russo è essenzialmente un male, e vado affermando il diritto di dirlo, nonostante la nostra alleanza con l’URSS in una guerra che voglio vedere vinta» (La fattoria degli animali, Mondadori 1995, p. 114). Infatti, «se libertà vuol dire veramente qualcosa, significa il diritto di dire alla gente quello che la gente non vuol sentire» (115)

La giovane compagnia guidata da Bruno Fornasari ha trasformato la Fattoria in una società cooperativa (ben presto diventata S.p.A.) produttrice di carni in scatola; ha tagliato molto del romanzo ma in compenso lo ha reso assai mobile, intessendolo di musiche e di danze ritmate che scandiscono l’idolo della produzione che mai deve interrompersi. Si vede che gli attori-narratori danno tutto e il risultato è uno spettacolo dinamico, la cui tragicità consiste nella possibilità sempre incombente del dominio. «Tutti gli animali sono eguali ma alcuni animali sono più eguali degli altri» (p. 100), naturalmente.

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