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Il nastro bianco

(Das Weiße Band)
di Michael Haneke
Austria, Francia, Germania 2009
Con: Christian Fredel (il Maestro), Burghart Klaußner (il Pastore), Susanne Lothar (l’Ostetrica), Ulrich Tukur (il Barone), Rainer Bock (il Medico), Leonie Benesch (Eva)
Fotografia di Christian Berger
Palma d’oro al Festival di Cannes 2009

Das weisse-band

1914. In un villaggio della Germania del Nord si verificano inspiegabili fatti di violenza. Il medico cade da cavallo per un filo invisibile teso tra gli alberi, una contadina muore nella segheria, due bambini -il figlio del barone e quello dell’ostetrica- vengono seviziati, un uomo si suicida, un magazzino è dato alle fiamme. Dentro le case si sfoga una violenza più formale ma altrettanto dura. Specialmente nella famiglia dell’integerrimo pastore domina la violenza del padre verso i figli, i quali la diffondono a loro volta nel villaggio…

Un bianco e nero secco e antico disegna la vicenda corale della mostruosità umana. È lo stesso contesto cristiano protestante dentro cui Nietzsche comprese, con la sua profonda limpidezza interiore, la falsità strumentale delle morali, la ferocia del monoteismo, la perversione delle persone per bene. Costruito come un thriller antropologico, Das Weiße Band descrive l’esistenza quotidiana di una piccola comunità simile a tante, dove anche gli eventi più estremi diventano del tutto plausibili, dove bambini e adulti seguono gli stessi impulsi distruttivi. Bravissimi i giovani interpreti, specialmente nel dialogo in cui la figlia del medico spiega al fratello più piccolo il fatto che tutti debbano morire. È uno dei momenti chiave di un film elegantissimo nelle soluzioni formali e inquietante nella colpa collettiva.


Portogallo Italia

Una povera dittatura provinciale. Questo fu il Portogallo di Salazar per alcuni decenni. Un Paese clericale in mano a un primo ministro con pieni poteri, in perenne recessione economica, isolato dall’Europa, nel quale l’esercito controllava le strade. Un Paese con aspirazioni ancora coloniali ma piccino piccino. Nato nel 1922, Josè Saramago conobbe bene tale regime e vi si oppose. È forse anche per questo che ha descritto l’infamia italiana con parole terribili, tra le quali: «Questa cosa, questa malattia, questo virus minaccia di essere la causa della morte morale del paese di Verdi se un conato di vomito profondo non riuscirà a strapparlo dalla coscienza degli italiani prima che il veleno finisca per corrompere le loro vene e per squassare il cuore di una delle più ricche culture europee. (…) Non c’è chi non sappia in Italia e nel mondo intero che la cosa Berlusconi da molto tempo è caduta nella più completa abiezione».

Accoppiamenti giudiziosi

di Carlo Emilio Gadda
Presentazione di Gianfranco Contini
Nota di Raffaella Rodondi
Garzanti, Milano 2001 (1963)
Pagine 343

In questi racconti variamente pensati, composti e pubblicati, Gadda smaschera ancora una volta la banalità, l’ipocrisia e l’orrore. La guerra è l’insensata disperazione con la quale gli umani e la storia si puniscono del fatto d’esserci. La morale -la sua stessa possibilità- è una finzione. L’idolatria verso l’infanzia è strumentale bisogno di non morire. Il tempo è «lieve suasore d’ogni rinuncia» (pag. 162). Il tempo. Un lampo proustiano sembra insinuarsi e splendere in queste pagine così materiche, dolorose e raffinate: «Terra vestita d’agosto, v’erano sparsi i nomi, i paesi» (141). Proustiano è anche l’erotismo alto e profondo di alcuni racconti, come Cugino barbiere, La sposa di campagna e il molto amato dall’Autore San Giorgio in casa Brocchi.

L’ironia colta e quotidiana fa da costante contrappunto -armonioso e dissonante insieme- al tentativo di dire l’indicibile, il male: …«come d’una stele infranta si disperdono smemorate sillabe, e già furono luce della conoscenza, e adesso l’orrore della notte» (166). Due dei racconti più intensi sono quelli da cui ho citato sinora –Una visita medica, La mamma– entrambi tratti da La cognizione del dolore, vero motore e sorgiva del narrare di Gadda, teso a descrivere «nella vacuità degli spazi senza senso l’ellisse del nostro disperato dolore» (156) sino a racchiudere in una terribile icasi l’enigma: «Non vide più nulla. Tutto fu orrore, odio» (Ivi, 158).

La versione divertita di tale orrore è il racconto che da solo è capolavoro, quellIncendio di via Keplero tutto movimento, velocità, fiamme davvero. «Se ne raccontavano di cotte e di crude sul fuoco del numero 14. Ma la verità è che neppur Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti avrebbe potuto simultanare quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia, come subito invece gli riuscì fatto al fuoco: che ne disprigionò fuori a un tratto tutte le donne che ci abitavano seminude nel ferragosto e la lor prole globale…» (109).
Senza pietà, senza pietà -e dunque con verità- a descrivere l’orrore dell’umano, della «miseranda gallinazza (…) senz’uomo a fianco e senza farmaco a lato» (203) alla quale «i medici più costosi della città le avevano detto ch’era schizofrenica: altri, non medici, ch’era un’oca» (243). Tutti: commendatori, filosofi, ragazze, pappagalli, poeti, ingegneri, bottegai, nobildonne, domestiche, soldati, bambini, operai, studenti, tutti destinati dall’esser nati a «chiuder gli occhi nel sonno della morte men duro, se pur duro, dacché più o meno duro ma pur duro e durissimo ce l’hanno tutti, il sonno, allorché si tratti di quella bella pennichella dentro l’urna» (326), come con veemenza antifoscoliana Gadda ironicamente canta.

Vincere

di Marco Bellocchio
Italia 2009
Con: Giovanna Mezzogiorno (Ida Dalser), Filippo Timi (Benito Mussolini)
Trailer del film

 

Cinque minuti. Questo è il tempo che il Mussolini socialista massimalista dà a Dio per fulminarlo durante un dibattito a Trento nel 1907 con dei cattolici. Il vano trascorrere dei secondi sarà la prova -afferma- che Dio non esiste. Così comincia il film e così inizia anche la passione della giovane Ida Dalser per il dirigente del PSI. Da tale passione nasce il giovane Benito Albino. Alla carriera di Mussolini, nel frattempo transitato fra gli interventisti ed espulso dal suo partito, questo legame (sancito da un matrimonio in chiesa, mentre Rachele era stata sposata in municipio…) è però di ostacolo. Quando il rivoluzionario diventa il padrone dell’Italia, Ida e il figlio vengono isolati, controllati, reclusi in manicomio. Morranno prima del Duce.

Il film utilizza un raffinato intreccio di narrazione e documentazione, sceglie moduli espressivi del cinema degli anni di cui racconta -sovrapposizioni, dissolvenze, formule testuali dentro l’immagine-, restituisce il dolore degli eventi con un’atmosfera cupa e crepuscolare, nella quale domina il nero. I due protagonisti sono molto intensi e la vicenda culmina nel figlio ormai “pazzo” che imita alla perfezione i comizi del padre, accentuandone l’intrinseca e buffonesca follia.

 

Il mito capovolto. Il linciaggio mediatico di Pasolini

Catania – Monastero dei Benedettini
A cura di Roberto Chiesi
Sino al 28 maggio 2009

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I libri di Pasolini, alcune sue fotografie, numerose riproduzioni di articoli di giornali, i disegni di Gianluigi Toccafondo che di quegli articoli distillano la violenza, un video. Questi i materiali e i documenti che compongono una mostra che ripercorre la vicenda di Pasolini con la varietà di mezzi espressivi che a Pasolini piaceva.

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Futurismo 1909-2009. Velocità+Arte+Azione

Milano – Palazzo Reale
Sino al 7 giugno 2009

Quasi cinquecento opere occupano tutto un piano di Palazzo Reale. Una documentazione pressoché completa e che tocca i tanti ambiti nei quali i futuristi espressero la loro rivoluzione formale: scultura, arti applicate, pittura, fotografia, teatro, musica, cinema, letteratura.
Dal simbolismo di Previati, attraversando lo snodo costituito dai Manifesti di Marinetti e dal suo paroliberismo, si trascorre alle tele in movimento di Boccioni, Balla, Severini, alle musiche di Luigi Russolo, alle geometrie lievi di Depero, al cinema dei fratelli Bragaglia, all’aeropittura di Tullio Crali…L’innovazione espressiva diventa sempre più profonda, assorbendo nel Futurismo gran parte delle avanguardie europee. Anche quando, per ragioni politiche, del Futurismo più non si parla, alcuni dei maggiori artisti della seconda metà del Novecento gli rendono omaggio: Lucio Fontana dà nome di Concetto spaziale -formula futurista- all’intera sua opera e i sacchi di Burri si ispirano al polimaterismo di Prampolini.

La densità teorica del movimento nasce dalla sua ispirazione eraclitea e soprattutto dalla concordanza con la filosofia di Henri Bergson, per il quale la materia è movimento, la vita è il sentirsi durare che ciascuno di noi prova con assoluta e primaria evidenza, «lo scorrere stesso, continuo e indiviso, della nostra vita interiore», il fluire ininterrotto che genera relazioni, confronti, identità e differenze (Durata e simultaneità, [1922], Raffaello Cortina 2004, p. 193). Uno scorrere radicato nel corpo, che è il corpo, poiché «a ogni momento della nostra vita interiore corrisponde un momento del nostro corpo e di tutta la materia circostante, che gli sarebbe “simultanea”: questa materia sembra allora partecipare della nostra durata interiore» (Ivi, p. 46). Per Bergson, durata e movimento sono «sintesi mentali, e non cose» (Saggio sui dati immediati della coscienza, [1889] Raffaello Cortina 2002, p.78). A tali “sintesi mentali” il Futurismo ha voluto infondere la densità materica delle opere. Una trasformazione talmente riuscita da intridere di sé molta arte successiva e da consentire di celebrare il centenario del Manifesto del 1909 in termini così “classici” che avrebbero fatto probabilmente rabbrividire Marinetti, il quale si sarebbe trovato di fronte a un se stesso diventato ormai inesorabilmente musealizzato e “passatista”.

La cimice

di Vladimir Majakovskij
Teatro Strehler – Milano
Traduzione Fausto Malcovati
Con: Francesca Ciocchetti, Francesco Colella, Pierluigi Corallo, Giovanni Crippa, Massimo De Francovich, Gianluigi Fogacci, Melania Giglio, Marco Grossi, Sergio Leone, Bruna Rossi, Paolo Rossi
Regia Serena Sinigaglia
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Sino al 24 maggio 2009

Trailer dello spettacolo

cimice

Nel 1928 Prisypkin è stufo di essere un operaio, ritiene di aver fatto il suo dovere di proletario e ora intende sposarsi con la figlia di una parrucchiera. Lui porterà in dote il titolo di “compagno”, lei i rubli. Durante la festa di matrimonio scoppia un incendio. Muoion tutti, tranne Prisypkin che viene ibernato nel ghiaccio della cantina, da dove è resuscitato nel 1979.

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