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Immagini/Realtà

Immagini inquietanti / Disquieting images
Milano – Palazzo della Triennale
A cura di Germano Celant e Melissa Harris
Sino al 9 gennaio 2011

Fotografie. Saranno qualche centinaio. Gli autori sono sparsi per l’intero pianeta. Si cammina tra queste immagini con un crescente senso di orrore. Esse documentano la quotidiana infelicità di tanti umani; le loro passioni estreme; le guerre e le trasformazioni che esse producono nei corpi di chi rimane vivo, oltre all’enorme numero di cadaveri che generano; la vita nei luoghi dominati dal crimine -dal Messico a Palermo-; la sofferenza inflitta dalle donne su altre donne nelle culture che recidono il clitoride alle bambine, come in Indonesia; la violenza dentro la famiglia; l’immensa solitudine di ciascuno.
Nan Goldin ritrae ironicamente uno skinhead vestito comme il faut con accanto la propria figlia tutta linda e ben educata. Elena Dorfman intitola Still Lovers il rapporto tra degli esseri umani e delle bambole erotiche, fotografati mentre si fanno semplicemente compagnia. Donna Ferrato mostra che cosa significhi Living with the Ennemy, con un marito che dà in escandescenze mentre la moglie cerca di nascondergli la cocaina. Robert Mapplethorpe mostra il lato più estremo della propria arte di raffigurare i corpi, giungendo a un risultato pornografico sino all’inguardabile.
Ma nulla è più inguardabile dei morti sfigurati che costellano le tre tappe -dal titolo The Silence– nelle quali Gilles Peress ha scandito i massacri avvenuti nel 1994: The Sin (Rwanda), Purgatory (Tanzania), The Judgment (Zaire); sono foto senza filtro, senza censura, atroci. Zaimaï disvela l’orrore dell’Afghanistan, luogo nel quale le apocalittiche “missioni di pace” hanno portato in ogni angolo le armi più all’avanguardia, hanno raso al suolo il tessuto antropologico e sociale di quelle comunità, hanno indotto persone di tutti i ceti e gruppi a usare dosi massicce di oppio per sopportare ferite e sofferenze. Nina Berman mostra senza infingimenti e retorica le conseguenze delle guerre statunitensi sui soldati americani, tranciati, deturpati, ridotti a fantasmi di se stessi, orribili e segnati per sempre. Letizia Battaglia descrive i cadaveri disseminati dalla mafia a Palermo e la disperazione dei loro familiari. Philip Jones Griffiths documenta i Collateral Damages della guerra in Vietnam, con immagini che non si possono descrivere a parole. Michael Nichols denuncia il Brutal Kingdom, le violenze inutili e terribili che gli umani infliggono ai primati e ad altri animali.
Inquietanti è naturalmente un eufemismo. Mi vergogno di appartenere a una specie che è capace di compiere le azioni e gli eventi che le immagini di questa mostra dicono accadere ogni giorno, qui ora.

Post Mortem

di Pablo Larraín
Cile, Messico, Germania – 2010
Con Alfredo Castro (Mario), Antonia Zegers (Nancy), Jaime Vadell (Dott. Castillo), Amparo Noguera (Sandra)
Trailer del film

Un carroarmato avanza, lo vediamo da sotto, sentiamo i suoi rumori striduli. Durante una lezione di anatomia, docente e studenti dissezionano cadaveri in autopsia; un dattilografo trascrive le descrizioni dettate dal medico. Lo stesso uomo, si chiama Mario, entra in un teatro nel quale si esibisce come ballerina di varietà Nancy, la sua vicina di casa. Tornano insieme ma l’auto viene bloccata da una manifestazione di Poder Popular. Una mattina Mario trova l’abitazione di Nancy devastata. Lo stesso giorno il reparto di medicina legale in cui lavora è presidiato da militari. Vi arrivano centinaia di cadaveri fino a che lui, il medico e la sua assistente vengono portati in un luogo istituzionale, incaricati di eseguire l’autopsia sul corpo di Salvador Allende.
Un film asciutto e terribile, che come pochi altri è capace di mostrare l’obiettivo ultimo di ogni potente: diventare il sopravvissuto, essere l’unico superstite di fronte alla distruzione dei suoi simili; poggiare il proprio trono su mucchi sterminati di cadaveri. Questo fa Pinochet, questo fa ogni fascismo, questo fanno tutti gli eserciti. Ed è sconvolgente e magnifica la scena nella quale Sandra -assistente del medico- urla la propria angoscia e un profondo disgusto di fronte a quei corridoi, scale, stanze, ricolme di cadaveri. Altrettanto straniante il momento nel quale Nancy e Mario piangono a freddo, senza spiegazione alcuna. Ma è il finale che lascia ammirati per la tecnica e per il coraggio: un accumularsi di mobili davanti a una porta, che è l’esatto corrispondente soggettivo dell’accumularsi dei cadaveri nella nazione uccisa. In entrambi i casi, è  in atto una decomposizione, individuale e collettiva.
Dopo l’intenso Tony Manero, Pablo Larraín costruisce un film duro come le pietre e affilato come un bisturi.

Gli strumenti umani

di Vittorio Sereni
Con un saggio di Pier Vincenzo Mengaldo
Einaudi, 1980 (I ed. 1965)
Pagine 120

Di che cosa parla la poesia se non d’amore? Di questo primo, ultimo, inveterato errore tra gli umani? Del «credere che d’altro non vi fosse d’acquisto che d’amore» (p. 33) in questo mondo spento alla ventura, in questo mare nel quale «presto delusi dalla preda / gli squali che laggiù solcano il golfo / presto tra loro si faranno a brani» (17).
La vita è memoria di ferite che si intrecciano all’oceano di speranze vane eppur indispensabili al respiro che ogni giorno ricomincia, a quell’esistere che si immerge nel con-essere perché è così che la macchina funziona, perché l’essere nel mondo è questo, «i minimi atti, i poveri / strumenti umani avvinti alla catena / della necessità» (15). Nel barbaglìo di incontri, spazi, luoghi, così pronti a diventare il già stato mai stato della morte «…Pensare / cosa può essere –voi che fate / lamenti dal cuore delle città / sulle città senza cuore- / cosa può essere un uomo in un paese, / sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante / e dopo / dentro una polvere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai» (67). E invece gustare e percorrere «i corsi l’uno dopo l’altro desti / di Milano dentro tutto quel vento» (21).
Il nucleo delle poesie di Sereni pulsa tra la dimensione collettiva e lo scavo fondo nell’umana melanconia. Una volontà di dire il dolore che lascia però spesso irrompere la gioia nei suoi versi e li trasfigura. È vero, certo, che «conta più della speranza l’ira / e più dell’ira la chiarezza, / fila per noi proverbi di pazienza / dell’occhiuta pazienza di addentrarsi / a fondo, sempre più a fondo / sin quando il nodo spezzerà di squallore e rigurgito / un grido troppo tempo in noi represso / dal fondo di questi asettici inferni» (28). E tuttavia Gli strumenti umani si chiudono sulla permanenza immortale di ciò che ci fa vivere: il ricordo, l’esser stati, il tempo, l’aver amato. «I morti non è quel che di giorno / in giorno va sprecato, ma quelle / toppe d’inesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce. / Non / dubitare, -m’investe della sua forza il mare- parleranno» (86).

L’omosessualo

Mussolini era certamente assai più colto e meno volgare ma tra i caratteri comuni ai due uomini politici più importanti dell’Italia del Novecento e del XXI secolo uno è evidentissimo: il fascino sessuale che entrambi hanno esercitato sulle masse. Freud e soprattutto Reich colsero bene la natura erotica del rapporto che il capo assoluto intrattiene coi suoi servi adoranti, in particolare nei fascismi. Il caso Berlusconi credo che però vada oltre e costituisca un impensabile gorgo somatico. I governi guidati da questo personaggio hanno prodotto risultati economici e sociali del tutto catastrofici, impoverendo le famiglie, annullando uno Stato sociale pur minimo (sanità, scuola, università, energia, trasporti) a vantaggio anche di dissennate guerre coloniali, raggiungendo il picco della corruzione amministrativa, trasformando l’Italia nello zimbello del pianeta, imponendo una televisione pubblica e privata degna della Romania di Ceausescu. Gli italiani, insomma, “la prendono nel culo” continuamente. E tuttavia sembra che ancora milioni di loro apprezzino, difendano o almeno giustifichino chi li sta violentando. Il disprezzo mostrato da costui verso gli omosessuali appare dunque una forma di denigrazione verso l’intera società da lui sodomizzata ma anche verso se stesso in quanto androgino. Berlusconi racconta infatti che «subito dopo la partita dello scudetto del 1988, un tifoso vede la mia macchina, mi riconosce, si pianta davanti al cofano e grida: “Silviooooo, Silviooooo: sei una gran bella figa!”. È stato il complimento più bello della mia vita» (M. Belpoliti, Il corpo del capo, Guanda 2009, p. 77). Insomma, disprezzando gli omosessuali disprezza la gran figa che è in lui.

(Su questo vortice politico-carnale segnalo un approfondito articolo di Andrea Cortellessa nel numero di ottobre di Alfabeta2, Dalla Pornocrazia alla Mignottocrazia; aggiungo che oggi, 6.11.2010, l’Unità ha pubblicato dei brani da Eros e Priapo di Gadda, dove -tra l’altro- lo scrittore disegna il seguente ritratto del potente narciso: «in lui tutto viene relato alla erezione perpetua e alla prurigine erubescente dell’Io-minchia, invaghito, affocato, affogato di sé medesimo»).

Dittatura e democrazia

Le origini sociali della dittatura e della democrazia
Proprietari e contadini nella formazione del mondo moderno

di Barrington Moore jr

(Social Origins of Dictatorship and Democracy. Lord and Pesant in the Making of the Modern World, Bacon Press, Boston 1966)
A cura di Domenico Settembrini
Presentazione di Luciano Gallino
Einaudi, Torino 1979 (1969)
Pagine XXIV-612

Il sottotitolo di questo libro ne indica con esattezza l’argomento. Contadini e proprietari terrieri hanno fornito un contributo decisivo alla formazione delle strutture sociali contemporanee ma con esiti ben differenti e anche paradossali.
La rivoluzione capitalista e borghese verificatasi in tempi e modi diversi in Inghilterra, Francia, Stati Uniti ha avuto come condizione l’estinguersi della classe contadina: «la scomparsa della classe contadina significò infatti che la modernizzazione poté procedere in Inghilterra senza essere ostacolata da quel grosso serbatoio di forze conservatrici e reazionarie che si manifestarono in certi momenti dello sviluppo in Germania e in Giappone, per non parlare dell’India. Così venne inoltre eliminata dal novero delle possibilità l’eventualità di una rivoluzione contadina sul tipo russo o cinese» (pag. 34). Anche in Francia l’alleanza tra borghesia e contadini giocò a favore della prima e negli Stati Uniti non esisteva una radicata tradizione rurale. Insomma, «sbarazzarsi dell’agricoltura come attività sociale fondamentale costituisce uno dei prerequisiti per il successo della democrazia» (484).

In Asia furono tre le vie verso l’industrializzazione: la rivoluzione contadina in Cina; l’alleanza fra élite rurali e urbane in Giappone (che, come in Germania, condusse al fascismo); il caso atipico dell’India, in cui l’assenza di qualsiasi rivoluzione dall’alto o dal basso ha prodotto una forma instabile di democrazia.

In ogni caso, la struttura portante della storia è la violenza: «attraverso tutta la storia conosciuta, la sorte comune a tutte le società umane è stata quella di essere teatro di lotte, scontri, contrasti, appropriazioni violente, accompagnate da molta ingiustizia e molta repressione» (150). Barrington Moore rifiuta di legittimare questa violenza universale ma respinge anche ogni sua demonizzazione e osserva come il carattere «pacifico» della Rivoluzione inglese derivi in realtà dalla violenza esercitata nel periodo precedente; come l’aver evitato una rivoluzione abbia favorito il fascismo giapponese; come la pace sociale e la sottomessa docilità delle masse indiane sia causa di enorme miseria e di stermini apparentemente naturali ma in effetti ben radicati nella struttura sociale e nella storia dell’India. In definitiva, «la conclusione a cui sono mio malgrado dovuto giungere in seguito all’esame dei fatti è che i costi della moderazione sono stati almeno altrettanto atroci di quelli della rivoluzione, forse anzi molto di più» (570).

Moore osserva che il potere non si limita a costituire l’inevitabile strumento di convivenza tra interessi differenti ma sia sempre anche una struttura criminale e oppressiva, in ogni caso al servizio di alcuni gruppi contro altri. Ad esempio, «il contributo arrecato dall’aristocrazia alla concezione e alla realizzazione di una società libera è stato perciò pagato a un prezzo sociale spaventoso» (552). L’Autore è, in generale, convinto che molti progressi politici -verso la libertà- e sociali -verso l’industrializzazione- siano sempre pagati dai gruppi più poveri e diseredati e comportino un notevole peso di costrizione. La storia umana presenta, così, anche un carattere tragicamente ironico: «una volta di più essi [i contadini cinesi] costituirono la forza principale per portare alla vittoria un partito che si pone l’obiettivo di realizzare con l’uso spietato del terrore una fase della storia, che esso ritiene inevitabile, in cui la classe contadina cesserà di esistere» (253).

Nella sua Presentazione, Luciano Gallino ben evidenzia la grande originalità di questo testo ormai classico negli studi storico-sociali, il suo porsi al di là di schemi consolidati. Le tesi di Moore costituiscono uno «stimolo irritante per ogni occhio di tipo ideologico» (X), il loro muoversi in direzione «dell’ideale della società decente, concretamente possibile a un certo grado di evoluzione storica, […] distinto e opposto a quello di società ottima -inevitabilmente sfociante in qualche forma di persecuzione» (XII).

I decenni che ci separano dal libro hanno reso il progetto di una società decente, «intesa come una società senza guerra, povertà e grossolane ingiustizie» (XII), un ideale di per se stesso rivoluzionario e assai difficile da raggiungere. Moore non difende i grandi racconti ideologici della modernità -liberalismo, comunismo- ma neppure la conservazione delle condizioni attuali (e sempre peggiori) di vita collettiva. E offre con questo un’indicazione metodologica di grande onestà scientifica ed etica: «per tutti gli studiosi di scienze umane la simpatia per le vittime del processo storico e lo scetticismo verso le pretese dei vincitori costituiscono una salvaguardia essenziale contro il pericolo di lasciarsi abbindolare dalla mitologia dominante» (590).

La cultura del piagnisteo

di Robert Hughes
Sottotitolo: La saga del politicamente corretto

(The Culture of Compliant, 1993)
Traduzione di Marina Antonielli
Adelphi, 2003
Pagine 242

Il Sessantotto ha voluto essere antiamericano. Lo è stato veramente? In realtà molte delle parole d’ordine che risuonavano nelle scuole e nelle Università provenivano da correnti pedagogiche statunitensi. Si voleva abbattere la cultura che aveva prodotto il Vietnam utilizzando gli strumenti che essa stessa andava elaborando.
Primo fra questi la riduzione dell’istruzione e più in generale del sapere a terapia. Negli ultimi decenni le scuole e le università hanno progressivamente abbassato «i criteri d’ammissione e i livelli di insegnamento per permettere agli svantaggiati di stare al passo» anche a danno del diritto all’istruzione degli studenti più capaci (pag. 84). Contro gli allievi bravi, contro chiunque mostri di emergere per intelligenza, volontà, interesse si avverte quasi un pregiudizio come se il distinguersi di alcuni suonasse rimprovero alla condizione degli altri. Ogni differenza risulta inaccettabile se la cultura deve servire solo ad attutire le distanze sociali con l’abbassare tutti invece che col permettere a chiunque di emergere.
Il riduzionismo terapeutico -la scuola come guaritrice del “disagio giovanile”- è una delle espressioni più efficaci del principio di deresponsabilità che il Sessantotto ha assimilato dalle correnti pedagogiche nordamericane degli anni Sessanta, anni di sviluppo economico impetuoso, nei quali i figli dei ceti medi ritenevano che tutto fosse raggiungibile con poca fatica e dunque tutto fosse loro dovuto. Quando poi, però, un simile sogno infantile si scontra con le prime difficoltà dell’esistere, dai sentimenti al lavoro, si genera un rancore che ha bisogno di responsabili sui quali scaricare ogni torto. Non è quindi «colpa nostra se siamo scriteriati, venali o francamente scellerati, perché veniamo da “famiglie disfunzionali”» (23).

Eliminare la fatica che ogni impresa umana comporta, rimuovere la dimensione intrinsecamente elitaria del sapere come di ogni opera creativa, significa cedere poi alla «sconfinata, cinica indulgenza verso l’ignoranza degli studenti, razionalizzata come riguardo per l’ “espressione personale” e l’ “autostima”» (87). Ma nell’arte e nel concetto, ancor più che in altri ambiti, le élites sono necessarie. L’importante è che la loro composizione non rimanga statica, che siano aperte a chiunque mostri talento, rigore, immaginazione, qualunque sia, poi, il suo sesso, il rango sociale, il colore della pelle. Umiliare l’ingegno in nome di un egualitarismo grottesco significa produrre una cultura in cui tutte le opere sono grigie e sul nero dell’intelligenza oscurata rimane a splendere solo la luce catodica dell’immagine elettronica. Sulle macerie del Sessantotto -o forse autentico monumento alla sua vittoria- è rimasta la televisione «musa della passività» (60). La realtà, con il suo spessore complesso e difficile, è sostituita dall’immagine-ideologia il cui enorme merito è l’esentare dalla fatica del pensiero.

Il politicamente corretto è anche la messa in scena del senso di colpa che divora l’Europa e non le consente di fare davvero i conti con la storia della propria sconfinata potenza. Sostenere che il nostro Continente sia l’origine di ogni male per gli altri popoli del pianeta è come ritenerlo intrinsecamente superiore a tutte le culture. Operano in entrambi i casi semplificazione e schematismo. Guerre, schiavismo, distruzione dell’ambiente non sono un portato dell’uomo europeo; le civiltà africane, arabe, asiatiche furono e in gran parte sono ancora ferocemente discriminanti, fondate sulle caste e sull’obbedienza assoluta al sacerdote-signore (cfr. anche J. Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi 1998).

Un multiculturalismo autentico rappresenta l’opposto degli inviti all’isolamento nella purezza della propria identità tribale. Malcom X potè una volta riunire i propri seguaci insieme a quelli di un gruppo neonazista. Erano d’accordo nel chiedere un’America separatista, divisa in due, bianchi da una parte, neri dall’altra. E invece «nel mondo prossimo venturo, chi non saprà navigare il mare della differenza sarà spacciato» (121). O almeno questo è l’auspicio. Che un uomo valga per quanto riesce a dare a se stesso e al mondo e non per il suo sesso, l’ideologia o la religione che professa, le abitudini sessuali che pratica, la percentuale di melanina nella pelle. Le differenze convivono con altre differenze e di esse continuamente si arricchiscono.

1984

di George Orwell
(Nineteen Eighty-Four, 1949)
Trad. di Gabriele Baldini
Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998
Pagine XI – 327

In una mattina di aprile dell’anno che forse è il 1984 Winston Smith torna a casa e comincia a scrivere i propri pensieri in un quaderno che ha da poco acquistato. Ecco: questa è la sua colpa, lo psicoreato che aveva già cominciato a commettere e che adesso è provato dalla sua stessa scrittura. Winston Smith vive, infatti, in Oceania, uno dei tre stati sovracontinentali nati dalla guerra atomica degli anni ’50.
In ciascuno di essi

«LA GUERRA È PACE
LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ
L’IGNORANZA È FORZA»
( p. 8 )

Winston lavora presso il Ministero della Verità, il cui compito è la falsificazione sistematica e la creazione di documenti che modifichino il passato. Infatti, «chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente, controlla il passato» (260). In questo luogo, Smith lavora 60 ore alla settimana in quanto membro del Partito esterno. Su quest’ultimo domina il Partito interno il cui braccio operativo è la Psicopolizia e su tutti sta il Grande Fratello. Alla base della scala sociale, infine, vi sono i cosiddetti prolet, masse ignoranti e povere di milioni di persone alle quali è permessa una maggiore libertà di azione e di pensiero poiché esse pensare non sanno. In ogni caso, anche le masse vengono esaltate e controllate tramite la propaganda incessante contro il nemico interno ed esterno.

In questo mondo senza luce, Winston incontra Julia. Membro anche lei del Partito esterno, non crede ai suoi dogmi e cerca di godere della propria vitalità sessuale, atteggiamento che costituisce una forma di disobbedienza al Partito, il quale ha fra i suoi scopi quello di «abolire lo stesso piacere sessuale» (280). I due si incontrano quando possono, cercando di sottrarsi ai teleschermi che controllano ogni gesto quotidiano. Un giorno, O’Brien, membro del Partito interno, invita Winston a casa propria e gli rivela l’esistenza di un’opposizione al Regime guidata da Goldstein, vecchio fondatore del Partito e ora suo principale nemico e autore di un testo clandestino dal titolo La teoria e la pratica del collettivismo oligarchico. Winston e Julia decidono di entrare nella Fratellanza ma dopo qualche tempo vengono arrestati. Da qui comincia l’ultima intensissima parte del romanzo. A interrogare e torturare Winston è O’Brien che gli rivela come gli scopi del Partito siano ben più radicali di qualsiasi passata Inquisizione, di qualsiasi Regime totalitario del ventesimo secolo poiché il Partito vuole l’anima di chi ha pensato di resistergli e non uccide il colpevole finché questi non sia totalmente e sinceramente convinto della propria colpa e non provi autentico Amore per il Grande Fratello. A questo limite, infatti, sarà condotto Winston in un finale tanto terribile quanto malinconico e chiuso a qualsiasi speranza.

Si tratta di un libro chiave. E non solo per la potente forza visionaria, non solo per la scrittura lucida ed essenziale. È un libro che smaschera l’essenza del Potere il cui fine è lo stesso Potere. Orwell compie una singolare fusione di machiavellismo e anarchismo, il cui risultato è l’estrema, esaltata felicità con la quale O’Brien descrive il vero significato del Partito:

«I nazisti tedeschi e i comunisti russi si avvicinarono molto ai nostri metodi, ma non ebbero mai il coraggio di dichiarare apertamente i loro motivi, le loro ragioni. (…) Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere» (276).

La dottrina posta a fondamento di tale obiettivo consiste in una sorta di solipsismo antropocentrico, convinto che «non esiste nulla se non nella mente dell’uomo (…) non c’è niente al di fuori e oltre l’uomo. (…) La terra è il centro dell’universo. Il sole e le stelle ci girano attorno» (278-279). Un solipsismo collettivo che intende eliminare alla radice qualsiasi dimensione individuale, pensiero soggettivo, ambito privato. I teleschermi presenti ovunque, l’elaborazione della neolingua che riduce all’essenziale il numero delle parole, la vita in grandi alveari umani, la trasformazione dei figli nei primi nemici dei loro genitori -bambini trasformati in «una sottosezione della Psicopolizia» (142)-, la partecipazione obbligatoria alle iniziative serali dei Centri sociali, fanno sì che «nulla si possedesse di proprio se non pochi centimetri cubi dentro il cranio» (31) ma anche questo spazio alla fine sarà perduto. Lo stare da soli è già ragione di grave sospetto, così come il possesso o il desiderio di «qualsiasi oggetto antico o anche soltanto bello» (101) e dei libri, i quali vengono sistematicamente distrutti e sostituiti dalle opere collettive del Partito o da romanzi per i prolet elaborati con strumenti meccanici. L’ortodossia, quindi, consiste nel «non pensare, non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è non-conoscenza» (57). E solo questo, infatti, interessa al Partito. Non le azioni compiute ma i pensieri che quelle azioni hanno prodotto
Nessuno ha mai visto il Grande Fratello poiché egli è la personificazione del Partito, è «la mente del Partito, che è collettiva e immortale» (261). 1984 è un libro molteplice, dai significati diversi e complessi. Un testo che descrive come lentamente si spegne l’ultimo uomo in Europa, che mostra la necessità del pensiero ribelle attraverso un incubo politico e televisivo nel quale individui e collettività vengono letteralmente cancellati dal servilismo assoluto verso il potere, verso la sua immagine.

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