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Il legno storto

Il legno storto dell’umanità.
Capitoli di storia delle idee
(The Crooked Timber of Humanity. Chapters in the History of Ideas, 1990)
di Isaiah Berlin
A cura di Henry Hardy
Trad. di G. Ferrara degli Uberti e G. Forti
Adelphi, 1994
Pagine 379

Questo libro percorre un lungo e tortuoso itinerario che comincia nella luce delle geometrie politiche illuministiche, attraversa la densità dello Sturm und Drang romantico e perviene alla conclusione che una società decente non è certo il vertice delle aspirazioni umane e tuttavia rappresenta in ogni caso il meglio che si può cercare di trarre da quel krummen Holze, quel legno storto che è l’uomo. Cercare di costruire invece una pianta del tutto diritta significa uccidere alle radici l’identità stessa –finita– di questo ente.
Berlin individua i tre presupposti generali del pensiero utopistico nella dogmaticità delle risposte corrette che è possibile dare a una domanda, nella convinzione che esista un metodo sicuro per la scoperta di queste risposte, nella reciproca compatibilità che ciascuna di esse deve intrattenere con le altre. Convinzioni di tal genere provocherebbero delle prassi disumane poiché immobilizzano in una mortale staticità il fluire inarrestabile degli eventi e dei progetti. Pur di conseguire una volta per sempre il traguardo di «un’umanità giusta, felice, creativa e armoniosa», tali progetti ammettono qualunque sacrificio, proprio e altrui: «se questa è l’omelette, non c’è limite al numero di uova che si devono rompere -era questa la fede di Lenin, di Trockij, di Mao e di Pol Pot» (pag. 37). Per un ente complesso, contraddittorio e limitato qual è l’uomo e i prodotti che egli crea, aspirare alla perfezione significa spargere molto sangue in nome di un’idea, essere disposti ad accettare e far sopportare qualunque sofferenza pur di ricostituire l’unità infranta dell’età d’oro, l’armonia senza incrinature di ogni paradiso terrestre.

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Uomini senza legge

di Rachid Bouchareb
(Hors-la-loi)
Con: Jamel Debouzze (Saïd), Sami Bouajila (Abdelkader), Roschdy Zem (Messaoud)
Francia-Algeria-Belgio, 2010
Trailer del film

 

Algeria, 1925. Una famiglia di contadini è costretta a lasciare la terra dei padri, che viene data in proprietà a dei coloni francesi. Anni dopo, i tre figli assistono a un massacro di civili da parte dell’esercito colonizzatore  durante una manifestazione pacifica. Le loro strade si dividono: Abdelkader viene imprigionato a Parigi a causa della sua militanza nel Fronte di Liberazione Nazionale algerino; Messaoud partecipa alla guerra in Indocina; Saïd porta la madre in Francia, entra nel giro della prostituzione, sogna di diventare un grande impresario della boxe. Quando si ritrovano vengono tutti coinvolti, anche se in modo diverso, nelle azioni di resistenza e di guerra contro la Francia, sino all’ottenimento dell’indipendenza.

I piani temporali e spaziali si confondono tra di loro in modo a volte confuso; l’intreccio tra le vicende personali e la storia collettiva non riesce a dare passione alle vite individuali e spessore al conflitto tra la volontà di indipendenza degli algerini e la repressione francese. Il film rimane sospeso tra la ricostruzione storica e il noir di genere. Due gli elementi più riusciti: la scena iniziale del massacro e la descrizione della violenza estrema praticata da tutte le parti in guerra, a conferma che nella storia non esistono popoli “buoni” e popoli “cattivi” ma soltanto la comune e reiterata ferocia della specie che trasforma le vittime in carnefici e poi di nuovo in vittime, nel pendolo insensato degli eventi. Un’epica, quella di Hors-la-loi, comunque troppo televisiva

 

l’Arte c’è quando “malgrado” si ride

l’Arte c’è quando “malgrado” si ride. Opere dal 1950 al 2011
Catania – Sala Vaccarini ed ex cucine del Monastero dei Benedettini
A cura di Daniela Vasta
Sino al 31 maggio 2011

Il titolo -certo inconsueto- di questa mostra fa riferimento alle parole di Joseph Beuys, a una sua opera. Beuys, Fontana, Isgrò, Sironi, Vedova, Accardi, Capogrossi sono solo alcuni dei numerosi artisti le cui opere Filippo Pappalardo e Anna Pia Desi hanno raccolto negli anni con intelligenza e lungimiranza e che adesso espongono in due degli spazi più belli dell’ex Monastero dei Benedettini di Catania.
Le opere sono divise in sei sezioni i cui titoli rappresentano già da soli un percorso critico nell’arte della seconda metà del Novecento e del primo decennio del XXI secolo. SegnoGestoMateria anzitutto. Perché l’arte contemporanea è libera dai significati e fa del significante la propria stessa sostanza. Il nero denso e  fluttuante di Hans Hartung, la perfezione classica del Cellotex (1980) di Alberto Burri, il paradossale e sfuggente realismo di Emilio Scanavino e del suo Alfabeto senza fine N. 1, esprimono assai bene l’identità e la differenza della pura forma.
Tra le Alleg(o)ria la più rappresentativa è forse una Testa di generale di Enrico Baj, dove la denuncia, l’ironia, l’oltrepassamento della separazione tra plastica e pittura conducono davvero a sorridere e a pensare sorridendo. Le opere di Still life reinterpretano e rinnovano uno dei più antichi temi dell’arte; esemplare, in questo, l’opera di Felice Carena. Tra i Paesaggi il più denso è la costruzione fantastica ma anche inquietante nella sua plausibilità dell’Agglomerato n. 3, nel quale Giacomo Costa ha fuso varie immagini di grattacieli e palazzi. I Corpi rivelati mostrano tutti lo statuto ambiguo e aperto della corporeità nella società del presente. Ai poli opposti di questa tensione corporea si collocano una famosa modella nera fotografata tra la frutta esotica da David La Chapelle e l’autoritratto di Marina Abramovic (Balcan Baroc II) mentre spazzola ossa sanguinolente di bue.
I Percorsi e ricorsi, infine, testimoniano del fatto che l’arte non muore, mai. Anche quando, come fa con elegante e intensa semplicità Giulio Paolini in Ennesima, i segni vergati su un foglio di carta bianco si dividono, suddividono, dissolvono sino a farsi superficie nera. Perché quella superficie conserva in sé la memoria di tutti i colori, di tutte le forme.
Una collezione privata, questa, dal respiro davvero assai ampio.

La società dello Spettacolo

La Société du Spectacle (1967)
Commentaires sur la société du spectacle (1988)
di Guy Debord
Gallimard, Paris 1992
Pagine 209 e 149

Lo spettacolo è il dominio della rappresentazione sulla realtà, la confusione costante dei due livelli sino alla loro totale compenetrazione, che cancella i limiti del sé e del mondo, dell’effettuale e dell’immaginato: «la réalité surgit dans le spectacle, et le spectacle est réel. Cette aliénation réciproque est l’essence et le soutien de la société existante» (La Société du Spectacle, aforisma 8, pagina 19).
Lo spettacolare concentré e lo spettacolare diffus -che nel 1967 Debord ancora distingue- nei successivi Commentaires del 1988 saranno unificati nello spettacolare intégré. Tra tutte le forme dello spettacolo contemporaneo è soprattutto la televisione a costituire l’ininterrotto discorso che la folla solitaria e i suoi padroni intrattengono su se stessi, il dominante specchio autoelogiativo di un sociale divenuto autistico e totalitario. Un’immensa allucinazione collettiva sembra fare del mezzo televisivo il suo stesso scopo. Tale spettacolo

est le soleil qui ne se couche jamais sur l’empire de la passivité moderne. Il recouvre toute la surface du monde et baigne indéfinitement dans sa propre gloire (af. 13, p. 21).

Soltanto ciò che appare in televisione esiste veramente, il monopolio dell’apparire è diventato il monopolio dell’essere e del valore fino al punto che non apparire equivale a non esserci. Un mondo sempre più virtuale sembra mostrare evidenti le tracce del profondo nichilismo che lo attraversa: «le spectacle est le mauvaise rêve de la société moderne enchaîné, qui n’exprime finalement que son désir de dormir» (af. 21, pp. 24-25).
Quali le cause della vittoria televisiva? Debord tenta una sia pur sintetica storia del mondo (nel capitolo V: temps et histoire) ma certo non mira a cogliere tutte le radici del fenomeno. Si limita a individuarne due: da un lato la centralità del vedere unita al dominio della tecnica che caratterizza fin dai Greci il progetto filosofico europeo; dall’altro il dispiegarsi vittorioso del Capitale. Lo spettacolo nella sua essenza altro non sarebbe che «le capital à un tel degré d’accumulation qu’il devient image» (af. 34, p. 32).

È molto interessante seguire il percorso di Debord dall’opera del 1967 ai Commentari di vent’anni dopo passando per l’edizione italiana del ’79. In quest’ultima, infatti, le speranze rivoluzionarie e la fiducia nel proletariato “non stalinista” sono intatte, anche se mai Debord confonde la distruzione del presente con la sicura felicità del domani. I successivi Commentaires, invece, dichiarano fin dall’inizio di non voler giudicare né indicare ma soltanto descrivere e si chiudono con un’ambigua dichiarazione di resa affidata a una pagina di dizionario aperta alla voce vainement (“vanamente”): «le travailleur a perdu son temps et sa peine, sans préjuger aucunement la valeur de son travail, qui peut d’ailleurs être fort bon» (cap. XXXIII, p. 118).
Nel mezzo, si dispiega una compiuta descrizione di alcuni degli sviluppi più nascosti della società contemporanea. I temi, gli eventi, le connessioni toccate da Debord sono eccentrici e proprio per questo verosimili. Tucidide e Clausewitz servono a spiegare i servizi segreti, Gracián e La Boétie aiutano a cogliere i nuovi servilismi, mafie e terrorismi vengono inseriti –come è giusto- nel cuore dell’economia e della politica attuali. Aldo Moro e le Brigate Rosse ritornano con frequenza come prova della solidarietà e reversibilità che intercorre fra i servizi segreti e i rivoluzionari. Il «terrorisme illogique et aveugle» (Préface, p. 138) delle BR è l’emanazione della P2 chiamata da Debord Potere Due, in grado di assicurare impunità ai terroristi e la cui concordia è svelata da un lapsus: il S.I.M., il preteso “stato imperialista delle multinazionali” non sarebbe altro che il modo con cui le BR firmavano senza volerlo la loro vera natura di succedanee del Servizio Informazioni Militari del regime fascista (Ivi, p. 135). Non a caso, inoltre, le operazioni delle BR ottenevano il massimo di pubblicità da parte dei media, a suggello della «politique “spectaculaire” du terrorisme» (Ivi, p. 142). Terrorismo che nulla avrebbe quindi in comune con gli intenti sovvertitori della Internazionale Situazionista, della quale La Société du Spectacle volle essere il fondamento filosofico e critico. Ma, a proposito di lapsus, la Situationist International ha la stessa sigla dello SI, lo Spectaculaire Intégré, il quale s’impone ormai ovunque, perfettamente coeso con ogni forma di discorso pubblico, struttura istituzionale, modo di produzione. Esso si caratterizza per l’effetto combinato di

cinq traits principaux, qui sont: le renouvellement technologique incessant; la fusion économique-étatique; le secret généralisé; le faux sans réplique; un présent perpétuel (cap. V, p. 25).

Attraverso di essi l’arte di governo muta radicalmente, il dominio diventa assai più soft: «le destin du spectacle n’est certainement pas de finir en dispotisme éclairé» (cap. XXXII, p. 116). Non la violenza aperta è infatti lo strumento dello Spectaculaire Intégré ma una pervasiva disinformazione la quale «réside dans toute l’information existante; et comme son caractére principal» (cap. XVI, p. 69). La conseguenza è che tutti gli addetti all’informazione hanno sempre un padrone, sono tranquillamente sostituibili e meglio servono quanto meglio mentono. Ciò che conta è infatti rimuovere la storia, la memoria, la distanza poiché «l’histoire était la mesure d’une nouveauté véritable; et qui vend la nouveauté a tout intérêt à faire disparaître le moyen de la mesurer» (cap. VI, p. 30).
All’inizio dei Commentaires, Debord dichiara che non tutto potrà essere detto e bisogna scoprire il segreto fra le pieghe delle parole. Il caso forse più importante di applicazione di questa reticenza è il Sessantotto. Nonostante le sue esplicite intenzioni, esso non ha minimamente scalfito lo Spectaculaire Intégré che anzi ha continuato ovunque a rafforzarsi.

Già nel 1967, Debord aveva compreso e scritto che

À l’acceptation béate de ce qui existe peut aussi se joindre comme une même chose la révolte purement spectaculaire: ceci traduit ce simple fait que l’insatisfaction elle-même est devenue une marchandise dès que l’abondance économique s’est trouvée capable d’étendre sa production jusqu’au traitement d’une telle matière première (La Société du Spectacle, af. 59, p. 55).

E tuttavia secondo Debord dopo il Sessantotto nulla è davvero come prima poiché con esso la società ha perso la sua innocenza. L’ambiguità diventa enigma e persino mistero nel seguente giudizio:

Rien, depuis vingt ans, n’a été recouvert de tant de mensonges commandés que l’histoire de mai 1968. D’utiles leçons ont pourtant été tirées de quelques études démystifiées sur ces journées et leurs origines; mais c’est le secret de l’État (Commentaires, cap. VI, p. 28).

Tra i segreti dello Stato, il più palese è ormai la sua natura spettacolare, che in Italia si mostra in modo persino clamoroso. Le masse inebetite fanno della servitù la loro stessa vita, credendosi libere di scegliere quale spot politico-pubblicitario vedere. L’imbonitore che vende il nulla è diventato non più figura ma sostanza stessa del potere.

[I due testi sono stati tradotti e pubblicati in italiano con il titolo La società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano 2008]

Accardi e altre lievità

Carla Accardi. Segno e trasparenza

Segni come sogni. Licini, Melotti e Novelli fra astrazione e poesia

Catania – Fondazione Puglisi Cosentino, Palazzo Valle
Sino al 12 giugno 2011

Le opere esposte alla Fondazione Puglisi Cosentino percorrono l’intero itinerario di Carla Accardi dagli anni Cinquanta al presente. Una grande installazione nel cortile di Palazzo Valle –Vie alternative, 2010- accoglie il visitatore col suo bianco e nero elegante e giocoso. «Dare vita a un’immagine astratta, oggettiva, primaria e libera» è l’obiettivo che Accardi raggiunge attraverso segni cromatici che sono un’esplosione di colori, che formano una disordinata armonia poiché, scrive, «in natura non esiste solo un ordine geometrico e al di fuori di esso un disordine casuale, ma piuttosto un ordine casuale». Non soltanto di ossimori si tratta ma della complessità inclassificabile della vita che uomini, natura, cose condividono nel fluire del tempo. Perché l’arte di Accardi ha la particolarità di sembrare e di essere viva, come un animale che muta e cresce al variare dello spazio e dei momenti. Una caratteristica, questa, che è data anche dal materiale usato per molti anni, il sicofoil, un acetato di cellulosa che è simile al vetro e che reagisce alle variazioni ambientali. I colori, soprattutto i colori, restituiscono la potenza delle forme. Ma anche i colori sono un mezzo perché, afferma Accardi, «più che i colori, io amo da sempre gli accostamenti e l’emanazione di luce che ne deriva». Per questa artista il colore più bello è un «verde fluorescente sul trasparente». Alcune opere recenti segnano il trionfo della potenza coloristica: Immediatamente rosso, Verde e cobalto, Curve verdi su nero (tutte del 2008), Grigio azzurro abbaglio (2010), nelle quali il vinilico su tela crea il gaudio dei colori, della luce, del gioco che l’arte è.
La seconda mostra ospitata a Palazzo Valle è fatta anch’essa di lievità, di aria, di geometrie, di creazione con pochi semplici strumenti di spazi ritmati, esattamente come fa Accardi. In particolare, Fausto Melotti costruisce con l’ottone dei paesaggi, dei percorsi, dei totem che sono insieme arcaici e postmoderni.

[Una recensione più ampia è apparsa sul numero di giugno 2011 di Vita pensata.
A Carla Accardi sono dedicate le immagini del numero di marzo 2011 di Alfabeta2]

Il discorso del re

(The King’s Speech)
di Tom Hooper
GB-Australia 2010
Con: Colin Firth (Giorgio VI), Geoffrey Rush (Lionel Logue), Helena Bonham Carter (Lady Lion), Guy Pearce (Edoardo VIII)
Trailer del film

Il secondogenito di Giorgio V d’Inghilterra successe al padre quando, nel 1936, il fratello Edoardo VIII decise di abdicare per poter sposare una donna divorziata. C’era però un problema: Giorgio VI, così si chiamava, era balbuziente mentre un sovrano deve saper parlare in pubblico. Non solo: i più spregiudicati governanti d’Europa facevano un uso politico totale dei nuovi media, in primo luogo della radio. Aprire bocca davanti a quel microfono era invece per il Duca di York e futuro re una vera e propria tortura. A soccorrerlo fu la tenacia della moglie e la geniale sensibilità di Lionel Logue, un logopedista australiano dai metodi innovativi. Questo terapeuta comprese che dietro la balbuzie stava un’insicurezza profonda, frutto  delle gelide relazioni affettive coi genitori e del rigido protocollo di corte. Logue restituì sicurezza al sovrano, il quale in occasione della dichiarazione di guerra della Gran Bretagna alla Germania tenne un  memorabile discorso radiofonico.

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Dalì

Salvador Dalì. Il sogno si avvicina
Milano – Palazzo Reale
A cura di Vincenzo Trione, con la collaborazione della Fondazione Gala Salvador Dalì
Sino al 30 gennaio 2011

Dalì ha dato forma al diventar sogno del mondo. Uno dei suoi scopi è di «contribuire all’assoluto discredito del mondo reale» dipingendo con esattezza i pensieri, le euforie, i ritmi, la morte. Dipingendo il tempo, coi suoi orologi liquidi, deformi, -quelli che compaiono in Il giardino delle ore, (1981) o ne Alla ricerca della quarta dimensione (1979)- che segnano l’immobilità dello spazio, l’eternità della morte. La metafisica di Dalì è seria sino alla tragedia e ironica come in un gioco. Il luogo più desolato è in ogni caso la storia. Sui suoi eventi Dalì getta uno sguardo simile a quello di Goya mostrandone l’immensa stoltezza e crescendo di pietà all’avanzare del macello. Un’opera come Volto della guerra (1940-41) è l’emblema più terrificante e autentico di ciò che in quegli anni stava accadendo, della pulsione di morte e d’orrore che spinge la specie e i suoi giorni, che fa degli stati e del potere la grande falce che tutto trasforma in teschio. La via d’uscita dal calore dissolvente della storia è la freddezza del mito. «Se i classici sono freddi è perché la loro fiamma è eterna», scrisse Dalì, dando a questa verità la forma splendente e magnifica di quadri come  Apparizione dell’Afrodite di Cnido (1981), Grande testa di dio greco, (1946), Torso-edificio su scacchiera (1946) e molti altri tra i suoi più belli, evocativi, fuori dalla prigionia del male. Su tutto dominano il divertimento, l’inventiva e l’invenzione, il sogno e la sua geometria.

[ Una più ampia recensione di questa mostra si può leggere su Vita pensata 7 – gennaio 2011 ]

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