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Un’autocritica del Novecento

The Desire of  Freedom. Arte in Europa dal 1945
Palazzo Reale  – Milano
A cura di Monika Flacke, Henry Meyric Hughes e Ulrike Schmiegelt
Sino al 2 giugno 2013

Un’autocritica artistica del Novecento. Questo è la densa e coinvolgente mostra che Palazzo Reale dedica alla questione della libertà -al suo desiderio– nel XX secolo e oltre.
Si comincia con il sogno/sonno della Ragione che nella Rivoluzione francese instaurò un regime di perfezione inevitabilmente votato alla morte, poiché la perfezione non è di questa specie. Un Marat salutato come fosse la Madonna e un Adam Smith privo della testa mentre prende un libro dalla sua biblioteca rappresentano efficacemente la dialettica tra disincanto e idolatria che sta a fondamento del giacobinismo.
Si prosegue con sezioni e opere che esprimono: l’orrore dei regimi staliniani; gli effetti apocalittici delle bombe atomiche sganciate dagli USA sul Giappone; la superficialità del Sessantotto funzionale al trionfo del consumismo (in un dipinto di Erró i guerriglieri sudamericani hanno lo stesso tratto pubblicitario dell’interno borghese che stanno assediando); la violenza costante e spesso ben camuffata dei regimi cosiddetti democratici -le torture inglesi sui corpi degli irlandesi, l’esercito francese che il 17 ottobre 1961 sparò a Parigi sulla folla che protestava contro la guerra d’Algeria uccidendo 300 persone, i bombardieri che fanno del Vietnam un deserto (e che Wolf Vostell invita invece a bombardare di rossetti, garantendo in questo modo la vittoria del consumismo statunitense)-; la Russia e gli altri Paesi dell’Impero sovietico diventati dopo il crollo dell’URSS delle lande desolate e insicure dove scorrazzano uomini trasformati in cani da caccia e donne che mangiano insieme a delle lupe.
I titoli delle 12 sezioni sono assai espressivi: Tribunale della Ragione; La rivoluzione siamo noi; Viaggio nel paese delle meraviglie; Terrore e tenebre; Realismo della politica; Libertà sotto assedio; 99 Cent; Cent’anni; Mondi di vita; L’altro Luogo; Esperienza di sé e del limite; Il mondo nella testa.
Il risultato è una meditazione drammatica, ironica e dolente su quanto sia difficile essere liberi ma come senza questo desiderio non ci sia davvero vita.

 

Misura e hýbris nell’architettura

L’architettura del Mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi
Palazzo della Triennale  – Milano
A cura di Alberto Ferlenga
Sino al 10 febbraio 2013

Uno dei versi più celebri e importanti di Giacomo Leopardi non è suo ma è una citazione da un entusiastico testo che Terenzio Mamiani aveva dedicato alle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità (La ginestra o il fiore del deserto, v. 51). L’architettura del Novecento è stata, ha voluto essere, una delle più esplicite manifestazioni di questo ottimismo. Progettare Innovare Costruire l’esistenza dei singoli e della nazioni in vista di una razionalizzazione assoluta del corpo sociale e dei suoi desideri, questo è uno dei significati che il lavoro architettonico ha rivestito e tuttora riveste.
Non a caso Guy Debord dedica un capitolo de La Société du Spectacle all’«aménagement du territoire», all’architettura e all’urbanesimo. Debord sostiene che «l’urbanisme est cette prise de possession de l’environnement naturel et humain par le capitalisme qui, se développant logiquement en domination absolue, peut et doit maintenant refaire la totalité de l’espace comme son propre décor» (Gallimard, Paris 1992, § 169, p. 165). Discutendo del classico studio di Lewis Mumford su The City in History: Its Origins, Its Transformations, and Its Prospects (1961), aggiunge che «le mouvement général de l’isolement, qui est la réalité de l’urbanisme, doit aussi contenir une réintégration contrôlées des travailleurs, selon les nécessités planifiables de la production et de la consommation. L’intégration au système doit ressaisir les individus isolés en tant qu’individues isolés ensemble» (Ivi, § 172, pp. 166-167).
Direi che questa ampia e istruttiva mostra è un’efficace illustrazione del bisogno che architettura e potere hanno di integrare gli individui in una solitudine collettiva.
Una prima sezione documenta con progetti tecnici e portfolio fotografici alcune delle realizzazioni che tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo hanno trasformato città e natura attraverso nuovi ponti, stazioni, metropolitane, porti, aeroporti, riusi del già costruito. Si nota in pressoché tutti questi progetti un disperato bisogno di oltrepassare la pesantezza del cemento. Un risultato tra i più belli e rispettosi è il Concrete Bridge che a Ebnit (Austria) realizza una continuità del tutto naturale tra la pietra, l’acqua e il cemento; stupefacente anche la National Tourist Route che in Norvegia consente delle magnifiche visioni in mezzo ai fiordi; davvero notevole -nella sua apparente semplicità- anche il passaggio pedonale che a Halsteren (Olanda) permette di oltrepassare un canale tagliandolo in due e dando l’impressione che i pedoni attraversino le acque.
La seconda sezione è dedicata all’Italia. Vi emerge con chiarezza il predominio di grandi opere costose, distruttive, superflue. Vi si dice, giustamente, che «in un paese come l’Italia in cui il paesaggio rappresenta una risorsa economica rilevante […] le infrastrutture non tengono sufficientemente conto della frequente presenza di un paesaggio eccezionale. […] Per progetti di tale portata sono necessari processi decisionali e operativi dal basso verso l’alto». E che nonostante tutto si possa agire per obiettivi più razionali rispetto alla hýbris che intesse di sé il Ponte di Messina, il MOSE di Venezia, il TAV franco-piemontese, è dimostrato -ad esempio- dal Minimetro di Perugia o dal rinnovamento della Ferrovia della Val Venosta in Alto Adige.
Con un’inversione assai significativa rispetto alla forma mentis architettonica degli anni Sessanta, si fa un vero e proprio elogio della lentezza, vi si parla -appunto- di «infrastrutture lente» che abbandonino il mito della velocità (quantità) a favore della qualità del muoversi e dello stare.

La terza e ultima sezione è la più affascinante e inquietante. Alcuni grandi schermi illustrano il «gigantismo delle infrastrutture planetarie e della bulimia progettuale» che nel Novecento ha indotto il potere sovietico, soprattutto con Stalin, a realizzare immense opere dagli Urali al Mar Caspio e alla Siberia; ha indotto il potere statunitense a colonizzare anche gli ambienti più difficili e ostili del continente nordamericano; ha indotto Gheddafi a costruire fiumi artificiali che in Libia portassero acqua dalle profondità dei deserti alla costa. E indusse l’architetto espressionista Herman Sörgel a progettare negli anni Venti la chiusura del Mediterraneo con delle ciclopiche dighe in modo da favorire l’evaporazione delle sue acque e abbassare il livello del bacino di un centinaio di metri. In questo modo si sarebbe ottenuta energia  e si sarebbe creato un territorio del tutto nuovo, con la Sicilia collegata alla Calabria e molto più vicina all’Africa, con le isole greche diventate un insieme unico e così via. Il nome di questo nuovo spazio sarebbe stato Atlantropa. Un gigantismo prometeico che il futuro ha ridimensionato e che oggi può invece rivolgersi ad obiettivi più rispettosi della Terra. Tra questi il progetto di un impianto che potrebbe utilizzare 20.000 km2 del Sahara per produrre energia sufficiente per l’intero pianeta. Un’energia pulita nella sua fonte: il Sole.
In ogni caso, si fa strada la consapevolezza che una «conoscenza globale» deve essere sensibile «alle differenze che ogni luogo esprime». Olismo e differenza possono costituire due delle parole chiave di un’architettura che alle sorti magnifiche e progressive sostituisca la misura del limite che siamo.

Aracoeli, la madre

Aracoeli
di Elsa Morante
Einaudi, Torino 1982
Pagine 328

 

Elsa Morante (1912-1985) e Carlo Emilio Gadda sono stati i maggiori narratori italiani della seconda metà del Novecento. L’ultimo romanzo della scrittrice è un libro triste e bellissimo nel quale l’io narrante  ricapitola la propria vita dalla nascita sino all’adolescenza, quando una solitudine infinita verrà a spegnere il suo futuro. Da adulto, Emanuele viaggia verso l’Andalusia, nel disperato tentativo di ritrovare le tracce e la presenza di Aracoeli, la madre amata e perduta. Il presente del viaggio si alterna al passato della memoria e crea una sorta di tempo immobile, il cui acme è l’istante dell’incontro onirico ma in qualche modo reale con il «minuscolo sacco d’ombra» (p. 307) in cui la residua energia della madre morta prende estrema ultima forma. E al rimorso del figlio che sente di aver peccato contro l’intelligenza per non aver mai capito nulla della vita, Aracoeli risponde «ma, niño mio chiquito, non c’è niente da capire» (308). È la disincantata parola di un’ombra sul divenire delle vicende umane, alla quale fa da eco nel figlio la constatazione che «tutte le altre storie, o Storie, mortali o immortali» sono immaginarie (327).
La memoria del protagonista germina da una condizione che è «la più nera infelicità terrestre: di esistere vivi dove non c’è nessuno che ci ama» (285) e per contrasto fa rinascere, in un drammatico gioco di colori e di tenebre, la luce felice dell’amore straripante di Aracoeli verso di lui, amore distrutto dai «torvi orienti di quell’epoca maligna» (213) in cui la primitiva forza vitale della madre si muta in una parodia smisurata e insensata, in un rutilante e folle precipizio, come se l’immensa energia dell’esistere non avesse che per scopo la morte, come se l’essere umano altro non fosse che «un grumo di mali più pesante del caos» (169).
Ad Aracoeli va l’adorazione e qualche volta il risentimento del figlio. È in lei che Emanuele vorrebbe svanire: «Ma tu, mamita, aiutami. Come fanno le gatte coi loro piccoli nati male, tu rimàngiami. Accogli la mia deformità nella tua voragine pietosa» (109). Il romanzo è  intriso di una scrittura struggente, è intessuto di una sofferenza profonda eppure luminosa:

Oggi mi chiedo se quella nuova, piccola belva sanguinaria, perfetta gemella dell’altra, non fosse per caso una sua messaggera postuma, inviata a suggerirmi, col suo pungiglione, il motivo innominato di quel mio pianto. Questa non fu, come l’altra, foriera di pianto; ma certi individui sono più inclini a piangere d’amore, che di morte. (328)

 

Filologia del Sessantotto

Après mai
(Titolo italiano: Qualcosa nell’aria)
di Olivier Assayas
Con: Clement Metayer (Gilles), Lola Creton (Christine), Felix Armand (Alaine), Carole Combes (Laure), India Menuez (Leslie),
Francia, 2012
Trailer del film

Non proprio il Sessantotto, ma ciò che ne è scaturito. Il titolo (quello originale, non l’insulsa versione italiana) è infatti del tutto adeguato al contenuto. 1971, Gilles è uno studente liceale. Militanza, assemblee studentesche, scontri con la polizia e con la destra, autonomia dalla famiglia, stampa clandestina, rapporti affettivi liberi, suggestioni orientali, musica ribelle. Ma anche la bella casa di famiglia, il denaro dei genitori e soprattutto una grande inclinazione per la pittura, l’unica sua vera passione. Gilles infatti attraversa i suoi anni, compie le sue azioni, viaggia per la Francia e per l’Italia in modo quasi anaffettivo, senza mai arrabbiarsi, piangere, senza mai ridere né sorridere. In maniera non troppo dissimile si comportano anche i suoi amici, le sue ragazze e l’intero mondo nel quale è immerso. Una cortina narcisistica e ideologica sembra separarli da quella realtà che pure dicono di voler trasformare.
Il valore e il significato di questo film consistono nel non nutrire né mostrare pregiudizi positivi o negativi e nel non formulare giudizi. È una intelligente e rigorosa fenomenologia del Sessantotto e di ciò che è venuto appunto après, dopo il Maggio francese. Una descrizione di caratteri, azioni, ambienti, libri, oggetti, strade, manifesti, contesti, abiti, capigliature e soprattutto sguardi, occhi, domande, inquietudini, incertezze. Un’autentica, accuratissima, meticolosa filologia della rivolta giovanile, del suo slancio, dei suoi limiti, del suo senso.
Si comincia con il professore che in classe legge un testo di Pascal – «Entre nous, et l’enfer ou le ciel, il n’y a que la vie entre deux, qui est la chose du monde la plus fragile» (Tra noi e l’inferno o il cielo, c’è solo la vita, che è la cosa più fragile del mondo; Pensées, 349 [Ed. Chevalier], 213 [Ed. Brunschvicg])-, evidente riferimento alla breve durata della giovinezza e delle sue passioni. Si chiude con le parole più sincere di Gilles: «Abito nella mia immaginazione, e quando la realtà bussa alla porta io non le apro». L’immaginazione al potere.

La pittura

Picasso. Capolavori dal Museo Nazionale Picasso di Parigi
Palazzo Reale – Milano
A cura di Anna Baldassari
Sino al 27 gennaio 2013

Quasi un intero secolo (1881-1973) attraversato e vissuto nell’inventare forme, stili, colori, drammi e sogni. Ventenne, Pablo Picasso (il cui nome completo è un fluviale Pablo Diego José Francisco de Paula Juan Nepomuceno María de los Remedios Cipriano de la Santísima Trinidad Ruiz Picasso) visita Parigi e scopre l’arte del secolo appena cominciato. Scopre se stesso. A formarlo sono Impressionismo, Espressionismo, Gauguin ma anche El Greco e soprattutto l’arte tribale africana e oceanica. È così che inizia una concezione panica e panteistica dell’essere, dell’umano e dell’arte. Concezione che Picasso conservò sempre ed è già assai chiara in un Paesaggio con due figure (1908) nel quale gli umani sono del tutto immersi nella physis vegetale, in una serena e potente unione con le forze ctonie del mondo [cliccando sull’immagine si noteranno meglio le due figure].
Ma per Picasso tutto -natura, umanità, oggetti, storia- è pronto a farsi tratto, colore, segno. Una volta disse che «la natura non si può tradurre in pittura se non attraverso dei segni». L’arte contemporanea è caratterizzata anche dalla capacità di trasformare in segno qualunque cosa sia a portata di mano. Manubrio e sellino di una bici diventano, per esempio, una magnifica Testa di toro (1942).

La pittura di Picasso si fa spesso scultura, come in Michelangelo, e le sculture assumono la lievità di un dipinto. Dopo i colori vivacissimi degli anni Sessanta, uno degli ultimi dipinti è il grigionero di Le jeune peintre (1972). Questo giovane artista è in realtà uno spettro, è la morte/pittura che viene a prenderlo.
Dopo la leggendaria mostra del 1953, l’artista andaluso è tornato a Milano con circa 250 opere del Musée National Picasso di Parigi. Stavolta non c’è Guernica, che comunque viene proiettata e indagata nella stessa Sala delle Cariatidi che la ospitò sessant’anni fa. Il percorso della mostra è lineare e arioso; ogni sala è presentata in modo discreto, con i suggerimenti essenziali per comprendere le opere esposte.
Attraversando cubismo, classicismo, surrealismo e tutti gli altri momenti poco classificabili di questo artista senza dogmi, se dovessimo chiedere “Qual è lo stile di Picasso?” la risposta sarebbe “Nessuno”. Lo stile di Picasso è la pittura.

12 dicembre 1969

Bombe e segreti
piazza fontana: una strage senza colpevoli
con un’intervista a guido salvini
di Luciano Lanza
elèuthera, Milano 2009
Pagine 180

In realtà di segreti ne rimangono pochi. Su quella bomba a Milano, su ciò che la precedette e su quanto ne seguì, quasi tutto è stato chiarito. In parte nelle aule di tribunale ma soprattutto nella conoscenza storica. Questa è una delle tesi di fondo del libro di Luciano Lanza, «libro di parte, ma non partigiano» che cerca di «raggiungere il massimo di obiettività possibile» (pp. 8-9). E ci riesce. Nelle sue pagine c’è tutto il rigore del giornalismo che controlla ogni dato e verifica tutte le fonti. E c’è soprattutto lo sguardo di lunga durata dello storico contemporaneista, capace di inserire ciascuno dei particolari in un quadro razionale e plausibile.
12 dicembre 1969 – 3 maggio 2005. Più di trentacinque anni sono trascorsi dalla strage alla sentenza definitiva con la quale la Cassazione ha archiviato quel crimine. Un crimine nelle cui indagini il depistaggio è stato immediato, pianificato e sistematico: «I fascisti mettono le bombe. La polizia arresta gli anarchici. Schema classico di questa storia. Le direttive vengono dall’alto. Si deve colpire a sinistra. E il commissario Luigi Calabresi a Milano, come il suo collega della squadra politica di Roma, Umberto Improta, eseguono con la massima solerzia» (94). L’obiettivo del progetto criminale maturato tra il Ministero dell’Interno, gli ambienti più oltranzisti della Nato e le organizzazioni neonaziste italiane era infatti tanto semplice quanto lucido: «meglio i morti che il cambiamento» (7). Meglio dare inizio a un vortice di violenza che paralizzi il dinamismo della vita sociale in una cupa atmosfera di timore e terrore, in una spirale che induca a rispondere alla violenza dello Stato e dei suoi complici neonazisti con la violenza della lotta armata; un crescendo che ha cristallizzato la situazione politico-istituzionale, «una logica assurda che ha messo in crisi quasi tutte le proposte di cambiamento radicale della società italiana» (7). Questo era l’obiettivo -raggiunto- di un affare di Stato progettato e messo in opera da «personaggi che scelgono il terrorismo per perpetuarsi nella gestione del potere» (134).
Chi sono tali personaggi? Per comprendere, al di là dei nomi e cognomi, si può partire da una delle rare ammissioni di Freda: «La strage l’ha organizzata un prefetto» (164), vale a dire una carica di governo, del Ministero degli interni. C’è infatti «una ragnatela di complicità, sollecitazioni, aiuti, reciproci ricatti che traccia alcune delle pagine più velenose della storia italiana» (81). C’è il provvidenziale tassista Rolandi il quale, dopo qualche incertezza e in cambio dei 50 milioni della taglia -cifra certamente assai consistente all’epoca-, fu indotto a riconoscere Valpreda nell’assurdo cliente che prese il taxi per coprire 135 metri di distanza, un itinerario che nessun milanese prima e dopo il 12 dicembre del 1969 ha mai percorso con un’auto pubblica. Ci sono stati i capetti sessantottini del Movimento studentesco che, dopo il discorso dell’autore di questo libro in un’assemblea alla Statale di Milano, «intervengono per minimizzare una situazione oggettivamente drammatica» e però «qualche tempo dopo rivendicheranno di essere stati i primi ad accorgersi del “pericolo fascista”» (46). C’è stato Luigi Calabresi, non soltanto con il volo di un indagato dal suo ufficio in questura ma anche con «le minacce che da mesi faceva all’anarchico quando, accortosi di non poter affatto contare sulla collaborazione di Pinelli, lo aveva preso di mira» (109). Ci sono state «le continue e incredibili amnesie di cui soffrirà Rumor al primo processo di Catanzaro» (131). C’è stato il ruolo del PCI, che molto sapeva e molto ha taciuto, che «in pratica, ha commercializzato il suo silenzio» (15) in vista di future e miopi speranze di governo. C’è stata la magistratura che -nel momento in cui, dal 1989 al 1997, sembravano aprirsi concrete prospettive grazie alle indagini del giudice istruttore Guido Salvini– si è divisa al proprio interno, ha ostacolato il collega, ha visto con fastidio e come un peso ciò che definiva «archeologia giudiziaria» (149), negando definitivamente giustizia alle vittime e ai loro familiari. Ci sono state le sentenze dell’ineffabile Corrado Carnevale, «il “re del cavillo” che manda liberi mafiosi, terroristi e bancarottieri» (126). C’è stato il determinato e abilissimo Delfo Zorzi, «cioè l’uomo che confesserà almeno in due occasioni di aver partecipato all’attentato di Milano del 12 dicembre» (84) ma che le sentenze d’appello e di Cassazione manderanno assolto.
E ci sono stati soprattutto Giovanni Ventura, Franco Giorgio Freda e Federico Umberto D’Amato. Questi sono i nomi e i cognomi determinanti. Freda e Ventura sono stati definitivamente condannati per diciassette attentati -anch’essi attribuiti all’inizio agli anarchici- compiuti tra l’aprile e l’agosto del 1969, un’attività degna di un esercito. Freda e Ventura tuttavia commisero tali e tante imprudenze nella preparazione dell’attentato da essere subito individuati tra i possibili responsabili e però sono andati assolti per la sistematica opera di copertura e protezione dei servizi segreti. Ma persino la sentenza finale della Cassazione riconosce la loro responsabilità, pur dichiarando la non procedibilità nei loro confronti in quanto definitivamente assolti da una precedente corte d’Assise. In ogni caso -dichiara Guido Salvini- «la matrice della strage è ormai indiscutibile, la sua firma è la croce celtica di Ordine nuovo» (140). Ventura è morto a Buenos Aires nel 2010. Freda è un raffinato editore di testi neonazisti ma non solo, anche di bellissimi libri pagani e di varia (dis)umanità. Scorrendo il catalogo delle Edizioni Ar e visitando il sito www.edizionidiar.it si ha l’impressione di una persona che crede d’essere davvero il “superuomo” nietzscheano (tradotto così da D’Annunzio e non l’ “oltreuomo” come sarebbe più corretto volgere l’originario Übermensch). Nella pagina biografica del sito vi si legge, ad esempio, che «vincere in questo mondo non gli preme, non gli importa nulla del successo mondano, ma se vincesse lui vorrebbe fare fuori “anche il cane di casa” dei nemici. Tranquilli, non c’è quel rischio. In una recente intervista (delle pochissimissime che concede), alla domanda: “Come pensa debba muoversi l’uomo ‘in ordine’?”, ha risposto con decisione: “Non deve muoversi. Deve stare fermo, raccolto in sé, concentrato in sé. Naturalmente, nel proprio miglior sé”». Dispiace che tanta elegante scrittura e simile sentimento eroico della vita si siano incarnate anche nel sostegno violento alla Nato, ai servi di uno Stato ritenuto da Freda decadente e cialtrone, alle volontà degli Stati Uniti d’America e del loro cuore sionista. Il puro, troppo puro, Franco Giorgio Freda non se n’è accorto o non se ne dà pensiero. Ma intanto di quelle potenze è stato attivo complice.
Potenze il cui corpo e volto sono quelli di Federico Umberto D’Amato, personaggio quasi ignoto ma che «è stato uno degli uomini più potenti d’Italia» (116). Responsabile in più alto grado dell’Ufficio affari riservati del Ministero degli Interni, tessera 1643 della loggia massonica P2, curatore per anni della rubrica gastronomica dell’Espresso, morto nel 1996, D’Amato ha raccolto, posseduto e usato centocinquantamila fascicoli con i quali è verosimile abbia controllato e ricattato soggetti di tutti i tipi e tendenze. Prima e dopo il 12 dicembre fu attivissimo nell’organizzare, provocare, depistare, coprire.

Grazie al suo rapporto con Delle Chiaie e con molti altri esponenti del nazifascismo, è in grado di gestire l’attività dei gruppi dell’estrema destra. In pratica, Delle Chiaie, leader di Avanguardia Nazionale, è teleguidato da D’Amato. Al tempo stesso l’uomo del Viminale rappresenta l’Italia nell’ufficio sicurezza del Patto atlantico. […] D’Amato è, quindi, costantemente informato sull’attività di Zorzi e dei suoi alleati, Franco Freda e Giovanni Ventura. Anzi ne è il silenzioso promotore. È dunque responsabile, in ultima istanza, della strage di piazza Fontana? […] Da come l’ufficio affari riservati si muove per proteggere l’attività del gruppo di Freda e Ventura, una risposta affermativa risulta convincente. (115-116)

A quest’uomo e al potere -esso sì- espressione di apparati «cialtroni, di carogne, di osti, di legulei, di traditori…» (come si esprime Freda in un suo libro) si contrappongono la pulizia e la forza politica di Giuseppe Pinelli, il quale aveva «buttato fuori» Valpreda dal circolo anarchico del Ponte della Ghisolfa a causa dell’ingenuità ideologica e del pericolo politico rappresentato dalla «prosa allucinante» di alcuni suoi articoli (95). In una lettera spedita proprio il 12 dicembre a Paolo Faccioli, Pinelli aveva scritto che «l’anarchismo non è violenza, la rigettiamo, ma non vogliamo nemmeno subirla: esso è ragionamento e responsabilità» (27).
Luciano Lanza inizia la sua ricostruzione di eventi, idee, situazioni, con l’affermare che non si tratta di una pagina oscura ma di un capitolo chiaro e preciso della storia del crimine politico in Italia. Una chiarezza che non è potuta pervenire alla sua dimensione giuridica e formale a causa della volontà e della capacità che «ministri, servizi segreti italiani ed esteri, magistrati, forze di polizia» (8) hanno avuto nel nascondere pervicacemente l’evidenza dello Stato criminale. Tali forze hanno costantemente mischiato «il falso al vero e al verosimile» (155). Debord afferma che «dans le monde réellement renversé, le vrai est un moment du faux» (“nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”, La Société du Spectacle, Gallimard, Paris 1991 [I ed. Buchet-Chastel,1967], prop. 9, pag. 19). Questo mondo rovesciato è quello di Piazza Fontana, i suoi cadaveri bocconi sul pavimento della banca ne sono la più plastica e terribile delle figure.

Il vulcano della storia

Maxim Kantor. Vulcano
Fondazione Stelline – Milano
A cura di Alexandr Borovsky e Cristina Barbano
Sino al 6 gennaio 2013

Siamo seduti sul vulcano della Natura e su quello della storia. Pronti a inghiottirci entrambi in qualunque istante. Conoscerli è il lavoro della cultura. La razionalità dovrebbe indurci a rispettare sempre la Natura come la madre dalla quale traiamo respiro, vita e senso. Essa non è benevola né matrigna (è questo l’errore antropomorfico del grande Giacomo); per certi versi essa neppure è. Ciò che chiamiamo Natura non è struttura ma è un’immagine del divenire innocente e immenso della materia, nella quale abbiamo il peso di un granello di sabbia su una spiaggia tropicale.
La stessa razionalità dovrebbe indurci a non piegarci mai all’apologia della storia, se essa si presenta come apologia del potere. Neppure la storia in realtà esiste, se con essa si intende un processo teleologico, una provvidenza immanentistica. Schopenhauer, Tolstoj, Popper hanno mostrato in modi diversi come si tratti soltanto di un coacervo feroce di eventi ai quali si attribuisce a posteriori un senso.
Sono gli artisti -almeno qualche volta- a mostrare la miseria del potere e della storia. Maxim Kantor (1957) è tra questi. Le sue grandi tele si muovono tra il riferimento all’iconismo russo e la chiara continuità con l’espressionismo europeo, con la declinazione grottesca degli spazi, delle figure, delle situazioni. I ritratti di  Tolstoj, Marx, Lenin hanno l’ingenuità della tradizione popolare. Sarcastici e implacabili, invece, sono i dipinti dedicati alla Torre di Babele (2005, chiaramente ispirato al grande modello di Bruegel); alla Società aperta (2002), descritta come società della miseria e della fame; alla Folla solitaria (2011-2012), un’ammucchiata di solitudini; e soprattutto allo Stato (1991), un potente vortice di dolore, di erotismo e di prevaricazione.

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