Amo la Germania, la sua lingua, la splendida tradizione filosofica. Amo la Grecia, la sua lingua, la splendida tradizione filosofica. Per due volte nel Novecento la Grecia ha accettato di condonare il debito tedesco, contribuendo in tal modo alla potenza economica della Germania. E questo non può essere dimenticato. Come non si può dimenticare che cosa fece alla Grecia la nazionalsocialista Deutschland.
Marc Chagall
Una retrospettiva 1908-1985
Palazzo Reale – Milano
A cura di Claudia Zevi e Meret Meyer
Sino al 1 febbraio 2015
Imponente riepilogo dell’opera di questo longevo Maestro (1887-1985), la mostra milanese ne percorre la vicenda dal villaggio russo della giovinezza alle capitali del mondo -Parigi soprattutto- nelle quali Chagall ebbe la fortuna di vedere riconosciuto da vivo il proprio valore. Si può, in questo modo, osservare la costanza nella differenza. Costanza nei temi -i contadini; gli animali simbolici come la capra, il gallo, l’asino, la vacca; la coppia; i riti ebraici-, differenza nelle forme, nel percorso dentro molti stili ma sempre con una inconfondibile spazialità capovolta e dinamica. I risultati più coinvolgenti mi sembrano quelli segnati dal cubismo e da variabili geometrie. Mano a mano che si procede dentro l’opera e dentro il secolo, i colori diventano sempre più accesi, cupi, profondi; il simbolismo ebraico-cristiano sempre più pervasivo; la materia pittorica sempre più raggrumata sulla tela.
Rispetto alle assai conosciute spose volanti e rabbini preganti, tre opere spezzano un poco la monotonia simbolica. Un Bue squartato che è quello di Rembrandt ma sullo sfondo di un villaggio russo (1947), la Composizione con cerchi e capra (1920) frutto dell’iniziale slancio delle avanguardie post-rivoluzionarie, un quadro che va al di là del sogno e della felicità, cogliendo la pura forma come senso del dipingere; il Don Chisciotte del 1974, un dipinto storico e cosmico la cui struttura si ispira a El Greco e riassume la coralità che costituisce la vera cifra dell’opera di Chagall.
Rigodon
di Louis-Ferdinand Céline
(1961)
Traduzione di Giuseppe Guglielmi
Introduzione di Massimo Raffaeli
Terzo volume della Trilogia del Nord
Einaudi, Torino 2007
Pagine XIV-271
Céline, la moglie Lili, il gatto Bébert attraversano nella primavera del 1945 l’Europa in guerra, sondano le rovine, si immergono nella «Germania in furia nichilista» (pag. 61), con le sue città in fiamme, colpite dalle bombe al fosforo lanciate sempre dalle stesse potenze, ad Amburgo allora come nel Vicino Oriente oggi, scagliate da «gente ricca…ricca senza fondo…uuuh! …che questo li diverte…e che illuminazione!» (142), come a «Hannover…dei fuochi di resti di case…bisogna avere visto…ogni casa giusto nel mezzo…tra ciò che erano i suoi quattro muri, una fiamma che ruota, gialla…viola…turbina…fugge!…alle nuvole!… danza … scompare… riprende… l’anima di ogni casa…una farandola di colori, dalla prime macerie a tutto là in fondo…» (136). Un mondo finito, dove «c’è mica speranza, disgraziati!» (6) ma la speranza è la scrittura, è saper guardare e dire senza esitazioni e consolazioni tutto l’orrore delle cose. L’orrore dell’uomo che è «un degenerato un mostro tra gli altri, che per fortuna si riproduce sempre più di rado» (186), l’orrore del Cosmo, che è anch’esso menzogna, è la bugia delle «stelle che brillano, miliardi pieno il firmamento, falsarie…che sono morte da miliardi di anni! …evaporate!» (96).
E in questa menzogna universale che è l’esserci, rimangono soltanto due elementi nella loro potenza primigenia e costante: «Solo la biologia esiste, il resto è blablà…» (109), solo la forza della vita che vuole vivere ancora, cieca e insensata, l’energia dei corpi che pur affamati malati stanchi storpiati feriti si trascinano per regioni e città, alla ricerca di una salvezza purchessia; l’altro elemento è la scrittura, è la petite musique, è lo stile sincopato, estremo, vivo, jazzistico, con i suoi «tre puntini…da farmi perdonare» (171), con il rifiuto del «“solido buon senso”» anche nella scrittura, poiché esso è «la morte del ritmo!» (269), con la certezza visionaria e insieme lucida di essere «pieno di stile […] che li renderò tutti illeggibili! …tutti gli altri! […] l’epoca è mia! io sono il benedetto delle Lettere!» (181). Uno stile che somiglia, appunto, al rigodon, la danza arcaica, immobile e tuttavia frenetica nel suo «delirio di immobilità» (M. Raffaeli, pag. VIII), «…il ballo al bersaglio, il rigodon che è tutto! per la madonna che si salta!» (268).
Questo stile si scaglia contro coloro che andranno a occupare le terre di Palestina, «tutti così perseguitati, ansanti, eroi del lavoro e del dissodamento, della falce, della banca e del martello…» (255); contro le masse e i politicanti sempre pronti a correre in soccorso del vincitore, come disse una volta Flaiano: «Ci fosse stato qui per esempio l’Hitler a vincere, c’è mancato un pelo, vedreste ve lo dico io l’ora attuale, che sarebbero tutti per lui…a chi che avrebbe impiccato il più di ebrei, chi che sarebbe stato il più nazi…tirato fuori l’entragna a Churchill, portato in giro il cuore strappato a Roosevelt, fatto il più di tutti l’amore con Goering…» (268); contro una delle più radicali espressioni della spietatezza e dell’intolleranza: «Bibbia il libro più letto del mondo…più porco, più razzista, più sadico che venti secoli di arene, Bisanzio e Petiot mescolati! …di quei razzismi, fricassee, genocidi, macellerie dei vinti che le nostre più peggio granguignolate vengono pallide e rosa sporco in confronto» (14). Tutto questo è frutto dell’umano. E perciò il libro ha una splendida dedica «Agli animali».
Ancora una volta -e sino all’ultima parola che chiude il romanzo e la vita di Céline- questa lingua feroce e dolente è una «luce così cruda così violenta quasi da straziare le facce…» (183), una luce assoluta, «di quelle profondità spumose che più niente esiste…» (271).
Televideo Rai, 12.11.2014, ore 15.31
Moro, pg: Pieczenik indiziato su omicidio
15.31 Nei confronti dell’americano Steve Pieczenik, ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa e ‘superconsulente’ del Governo italiano ai tempi del sequestro di Aldo Moro, vi sono “gravi indizi circa un suo concorso nell’omicidio” dello statista democristiano. Lo sostiene il procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, che chiede alla procura di procedere. C’è anche un altro indiziato, ma è morto: è il colonnello Camillo Guglielmi, già in servizio al Sismi, presente in via Fani la mattina del 16 marzo 1978 quando fu rapito Moro.
===================
Aldo Moro venne sequestrato e assassinato da organi dello Stato italiano su incarico del governo degli Stati Uniti d’America. Le Brigate Rosse furono il braccio armato di tale operazione.
È quello che pensava Guy Debord, il quale giudicava il «terrorisme illogique et aveugle» delle Brigate Rosse una emanazione della P2, da lui definita Potere Due (Préface à la quatrième édition italienne de La Société du Spectacle, in Commentaires sur la Société du Spectacle [1988], Gallimard 1992, p. 138).
La concordia tra lo Stato e il terrorismo rosso è per Debord svelata da un lapsus: S.I.M., la sigla con la quale le BR indicavano lo “Stato Imperialista delle Multinazionali” non sarebbe altro che il modo con cui le Brigate Rosse firmavano senza volerlo la loro vera natura di succedanee del Servizio Informazioni Militari del regime fascista (Ivi, p. 135).
Condivido l’analisi di Debord. Ulteriori conferme arriveranno. Tardi ma arriveranno. Lo Stato è un mostro che divora anche se stesso poiché «Staat heisst das kälteste aller kalten Ungeheuer. Kalt lügt es auch; und diese Lüge kriecht aus seinem Munde: ‘Ich, der Staat, bin das Volk’. Lüge ist’s! […] Aber der Staat lügt in allen Zungen des Guten und Bösen; und was er auch redet, er lügt. […] Falsch ist Alles an ihm». [«Stato si chiama il più gelido di tutti i freddi mostri. Freddo anche nel mentire; e questa menzogna striscia dalla sua bocca: ‘Io, lo Stato, sono il popolo’. È una menzogna! […] Ma lo Stato mente in tutte le lingue riguardo al bene e al male: e qualunque cosa dica, egli mente. […] Tutto è falso in lui»] (Friedrich Nietzsche, Also sprach Zarathustra, parte I, «Vom neuen Götzen [Del nuovo idolo]»
torneranno i prati
di Ermanno Olmi
Italia, 2014
Con: Claudio Santamaria (l’ufficiale), Francesco Formichetti (il capitano), Domenico Benetti (il sergente), Alessandro Sperduti (il tenente)
Trailer del film
Ancora la maledetta, ancora quella guerra 1914-1918 che fu il suicidio dell’Europa, che pesa sul nostro presente, che costituisce uno degli esempi più chiari -forse il più chiaro di tutti in epoca contemporanea- di dove possano condurre le classi dirigenti quando nulla le può più schiodare dalle loro convinzioni politico-economiche diventate dogma.
Di quella tragedia infinita Ermanno Olmi ha saputo dipingere la miseria, l’angoscia, la rassegnazione, lo schifo, lo sporco, la paura, l’insensatezza. Ha saputo descrivere la trincea. Uomini rinchiusi sotto metri di neve nel gelido inverno del fronte di nord-est. Davanti a loro uomini, gli austriaci, che mai si vedono né si sentono e dai quali arrivano colpi di mortaio e spari di cecchini. Dall’altra parte le condizioni erano identiche. Gli austriaci dalle trincee italiane vedevano arrivare colpi di mortaio e spari di cecchini. Lo stesso nelle trincee di tutti i fronti, come raccontano anche Erich Maria Remarque e Stanley Kubrick per il fronte occidentale. Ovunque la lordura, gli insetti, i ratti, la fame, la febbre, la disperazione di chi è intrappolato e non vede, non ha vie d’uscita.
torneranno i prati è capace di raccontare tutto questo insieme al canto di un soldato napoletano, al pianto degli ufficiali e della truppa, alla luna che splende immensa e serena sugli altopiani di Asiago mentre una volpe attraversa -libera- la neve, il filo spinato, i boschi.
Il presidente del Consiglio italiano -essendo un soggetto assai pericoloso per la pace sociale e per la Repubblica- è diventato inevitabilmente estremista. In realtà lo è sempre stato. Questo è facile da capire.
Meno facile è che chi fu non dico «comunista» ma soltanto «di sinistra» possa ancora sostenerne le posizioni o almeno tollerarle. Ma a spiegarcelo è la storia del Novecento, quella che ha portato al potere -e li ha fatti restare- soggetti come Hitler e Stalin. A spiegarcelo sono Ortega y Gasset, Canetti, Debord. A spiegarcelo sono le loro analisi dei gruppi dirigenti complici dei capi più impresentabili ed estremisti. A spiegarcelo sono le loro analisi delle masse plaudenti e sottomesse. Oggi sono le masse del Partito Democratico.
=============
Renzi, l’estremista nazionale
di Andrea Fabozzi, il manifesto, 4.11.2014
Tra le immagini che celebrano la missione del presidente del Consiglio a Brescia, ce n’è una in cui Renzi si stringe accanto al presidente della Confindustria bresciana Bonometti, uomo di destra, falco delle relazioni industriali, che un attimo dopo lo scatto dichiarerà: «Il sindacato è un ostacolo sulla strada del rilancio dell’Italia». Sullo slancio, il presidente del Consiglio si rifiuterà di ricevere i rappresentanti Fiom nella fabbrica di Bonometti. Perché tra il segretario Pd e l’imprenditore destrorso l’estremista è il primo.
In un’altra fabbrica lì vicino, dove gli operai sono stati messi in ferie obbligate e sostituiti con piante ornamentali, mentre la polizia bastona lontani contestatori, un Renzi scuro in volto e niente spiritoso mette al corrente la platea di Confindustria e il presidente Squinzi che «c’è un disegno calcolato, studiato e progettato per dividere il mondo del lavoro». Dice qui, in Italia, «in queste settimane». E i padroni battono le mani, con l’aria di chi pratico di complotti ha capito subito che l’oscura trama scoperta dal premier non deve fare paura. Può anzi tornare utile.
Perché se Renzi denuncia che «c’è l’idea di fare del lavoro il luogo dello scontro» non lo fa per scoprire l’acqua calda: dove altro che intorno al lavoro e al non lavoro può esserci la massima tensione al settimo anno di crisi e con i disoccupati che aumentano ancora? Né lo fa per riconoscere di essere stato lui a incendiare l’ultima guerra, decidendo di cancellare le garanzie dell’articolo 18 più di quanto abbiano mai tentato i peggiori governi di destra. Lo fa per ribadire la sua visione della modernità italiana, il suo cambio di verso: scontro è quando qualcuno non è d’accordo con lui.
È qui che si risolve l’apparente contraddizione di un presidente del Consiglio che da un lato si presenta come il fondatore del Partito Nazionale, il volenteroso capo de «l’Italia unica e indivisibile di chi vuol bene ai propri figli», e dall’altro non manca occasione di strappare, attaccare stormi di avversari «gufi», scoprirli intenti in sordidi complotti.
Dal suo lato della strada non si deve vedere il paese che è in fondo a tutti gli indici economici e riesce ancora ad arretrare in quelli di civiltà; dietro di lui si raccontano speranza e fiducia. E poi c’è «qualcuno che vuole lo scontro verbale e non soltanto verbale». Quel qualcuno è nei fatti il suo ministro di polizia, ma non importano più i fatti. Il racconto di un’Italia che sta tutta da una parte sola, la sua, si regge in piedi con il racconto dei nemici. Da circondare.
Avevamo già avuto un narratore della pace sociale al cloroformio, del partito degli operai ma anche dei padroni. Oggi la versione di Renzi è assai più aggressiva di quella di Veltroni, più cattiva e più chiusa a sinistra. Risponde alle critiche con la brutalità della menzogna: ieri ai confindustriali in estasi il premier ha raccontato di una legge elettorale «pronta a essere votata» e di riforme costituzionali praticamente già fatte. Un castello, un fortino di carte che prima o poi crollerà. Meglio spingere perché crolli dal suo lato.
Martedì 21.10.2014 alle 9,30 nel Coro di Notte del Monastero dei Benedettini (Catania) terrò un incontro -dal titolo Forme del contemporaneo– nell’ambito del Med Photo Fest 2014, dedicato a The Contemporary. Il programma completo della manifestazione si può trovare sul sito del Dipartimento di Scienze Umanistiche. Questo è l’Abstract del mio intervento:
Piero Manzoni afferma che «un quadro vale solo in quanto è essere totale», che le immagini devono risultare «quanto più possibile assolute» e cioè non debbono valere per ciò che esprimono o che spiegano «ma solo in quanto sono: essere». È vero. Il gioco serissimo dei significanti va molto oltre Duchamp, va oltre tutto. L’opera è un puro significare senza alcun significato. Soltanto in questo modo si può trasformare il medium in messaggio, si può andare al di là della dicotomia tra astratto e figurativo. La materia -che essa sia marmo, colore, carta, inchiostro, pellicola, pixel- diventa espressione e significato soltanto quando si condensa in una forma. È anche questa la lezione di Nino Migliori, che nel suo itinerario senza requie dalla fotografia descrittiva ai graffi e incisioni sulla pellicola (cliché-verre), dai pirogrammi agli idrogrammi, ha divorato e dissolto ogni forma consolidata.
Negli anni Dieci del XXI secolo e oltre la fotografia diventa e diventerà una sempre più attiva interrogazione della materia su se stessa, sulle proprie strutture, potenzialità, modi. È in questo puro significante materico che si radica il futuro della fotografia come forma del contemporaneo.