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Miró. La materia felice

Joan Miró. La forza della materia
Museo delle Culture – Milano
Sino all’11 settembre 2016

«Bisogna avere il massimo rispetto per la materia. È lei il punto di partenza. È lei che detta l’opera».
È il benvenuto di Miró a una mostra fatta di donne, uccelli, costellazioni. Fatta di un gesto assolutamente libero e insieme rigoroso. Una pittura ‘infinita’ nel senso in cui lo sono le lingue, capace quindi di esprimere senza fine concetti ed esperienze mediante il diverso assemblaggio degli stessi segni. Un’arte che ha sconfitto l’angoscia, un’arte felice. È anche questo il significato del cromatismo di Miró. Il segno nero che percorre i suoi quadri emerge ed è generato dal colore. E al colore dà senso. In Donna nella notte (1973), l’artista comincia da una macchia blu. Poi utilizza il nero per dividere il quadro in tre aree che colora di rosso e di giallo (oltre che di nero). Al blu/occhio iniziale si aggiungono tre capelli, la stella e un punto viola che è un pianeta, un corpo celeste. Infine dipinge le gambe. Il risultato è potente, plastico, archetipico.
La materia di un quadro è anche il suo supporto, al quale Mirò dedica sempre grande attenzione. I segni sono tracciati su carta, tela, legno. Le sculture sono fatte di oggetti sparsi e casuali, che poi l’artista unifica nella forma del bronzo e del legno. Con Donna e uccello del 1967 Miró introduce il colore nella scultura, che diventa totem, speranza, timore, potenza. Sculture arcaiche e futuriste, che enfatizzano il corpo umano, in particolare i piedi, poiché –si chiede l’artista- «non è attraverso il piede che l’uomo entra in contatto con la terra? ».
Nelle ultime opere la semplicità, il rigore, la nettezza aumentano. Della forma è rimasto l’essenziale. Della materia è rimasta la poesia. Questo Miró voleva: «Che la mia opera sia come una poesia musicata da un pittore. Il pittore lavora come il poeta: prima viene la parola, poi il pensiero». E voleva anche che l’opera andasse al di là della sua persona, del nome, dell’individuo. Che fosse collettiva e universale, come quelle dei maestri antichi, che tanto ammirava.
«L’inizio è qualcosa di immediato. È la materia a decidere». Un mondo di bellezza materica, colta e infantile, questo è il mondo di Joan Miró.

«Della più elementare intelligenza»

Che cosa significhi e che cosa sia l’intelligenza è questione assai dibattuta. Propongo la lettura di un testo che mostra l’intelligenza all’opera. Si tratta della Relazione di minoranza del deputato Leonardo Sciascia, redatta il 22 giugno 1982 per la «Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia» (Legislatura VIII —- Disegni di legge e relazioni-documenti, pp. 397-413).

A 38 anni di distanza da un evento che ha determinato la storia Italia, volgendola in farsa tragica, è ormai del tutto evidente che le Brigate Rosse costituirono il braccio armato di forze e organizzazioni ben collocate dentro lo Stato italiano e promosse dagli Stati Uniti d’America. Recenti acquisizioni mostrano che la mattina del 16 marzo 1978 in via Fani erano presenti uomini della ‘ndrangheta. Da parte sua, Claudio Signorile -all’epoca vicesegretario del Partito Socialista Italiano- ha ribadito quanto ha dichiarato più volte, vale a dire che «in realtà la morte di Moro era funzionale a interessi terzi, categoria sulla quale Signorile insiste molto, cioè altre organizzazioni o intelligence internazionali; il potere reale alle fine, dice ancora, era nelle mani di chi controllava l’ostaggio e non è detto che fossero le Br» (Fonte il Fatto Quotidiano, 17.7.2016).

Si trattò, insomma, di un omicidio di Stato, come la più parte dei grandi crimini che sono avvenuti in Italia dal 1945 in poi.
Metto qui a disposizione l’intero volume che comprende la Relazione di Sciascia. Mi limito a riportare alcuni brani di un testo letterariamente splendido e concettualmente argomentato, acuto, libero, ironico, lucido, distante e appassionato. Di un testo, vale a dire, intelligente.

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La domanda prima ed essenziale cui la Commissione ha il dovere di rispondere, a noi appare invece questa: perché Moro non è stato salvato nei cinquantacinque giorni della sua prigionia, da quelle forze che lo Stato prepone alla salvaguardia, alla sicurezza, all’incolumità dei singoli cittadini, della collettività, delle istituzioni? (p. 400).

Si può nettamente rispondere che non solo le carenze ci furono, ma che ai tentativi della Commissione per accertarle sono state opposte denegazioni così assolute da apparire incredibili (400).

Leonardi aveva chiesto altri uomini, al Ministero dell’Interno: forse in più, forse in sostituzione di quelli che già aveva e che non gli pareva fossero «ben preparati per il servizio che dovevano svolgere». Questa richiesta, che la signora Leonardi colloca tra la fine del 77 e il principio del 78, non ha lasciato traccia né nei documenti né nella memoria di chi avrebbe dovuto riceverla. […] Il che, ribadiamo, non è credibile: Leonardi può non aver parlato col generale Ferrara, ma con qualcuno dei «comandi gerarchici della capitale» ha parlato di certo. Che ne sia scomparsa ogni traccia e che lo si neghi è un fatto straordinariamente inquietante. (401-402)

Prevalentemente condotte «a tappeto» (e però, come si vedrà, con inconsulte eccezioni) le operazioni di quei giorni erano o inutili o sbagliate. Si ebbe allora l’impressione — e se ne trova ora conferma — che si volesse impressionare l’opinione pubblica con la qualità e la vistosità delle operazioni, noncuranti affatto della qualità. […] Che senso aveva istituire posti di blocco, controllare mezzi e persone, la mattina del 16 marzo, a Trapani o ad Aosta? Nessuno: se non quello di offrire lo spettacolo dello «sforzo imponente». Si partì dunque — per volontà o per istinto — verso effetti spettacolari e forse confidando nel calcolo della probabilità (che non funzionò). Ed è comprensibile che per conseguire tali effetti si sia trascurato l’impiego di forze meno imponenti ma più sagaci per dare un corso meno vistoso ma più producente alle indagini: a tal punto che la Commissione si è sentita rispondere dall’allora questore di Roma che mancava di uomini per un lavoro di pedinamento che non ne avrebbe richiesto più di una dozzina; mentre solo a Roma 4.300 agenti spettacolarmente ma vanamente annaspavano. (403)

Intanto il giorno 18 — il terzo dei cinquantacinque — la polizia, nelle sue operazioni di perquisizione a tappeto, arrivava all’appartamento di via Gradoli affittato a un sedicente ingegnere Borghi, più tardi identificato come Mario Moretti. Vi arrivò: ma si fermò davanti alla porta chiusa […] e in ordine all’istinto e al raziocinio professionale una porta chiusa, una porta cui nessuno rispondeva, doveva apparire tanto più interessante di una porta che al bussare si apriva. E tanto più che il dottore Infelisi, il magistrato che conduceva l’indagine, aveva ordinato che degli appartamenti chiusi o si sfondassero le porte o si attendesse l’arrivo degli inquilini. Ordine eseguito in innumerevoli casi, e con gran disagio di cittadini innocenti; ma proprio in quell’unico caso (unico per quanto sappiamo), che poteva sortire a un effetto di incalcolabile portata, non eseguito. Pare che l’assicurazione dei vicini che l’appartamento fosse abitato da persone tranquille, sia bastata al funzionario di polizia per rinunciare a visitarlo: mentre appunto tale assicurazione avrebbe dovuto insospettirlo. È pensabile che le Brigate Rosse non si comportassero tranquillamente e anzi più tranquillamente di altri, abitando piccoli appartamenti di popolosi quartieri? (404-405)

Il suggerimento della signora Moro, di cercare a Roma una via Gradoli, non fu preso in considerazione; le si rispose, anzi, che nelle pagine gialle dell’elenco telefonico non esisteva. Il che vuol dire che non ci si era scomodati a cercarla, quella via, nemmeno nelle pagine gialle: poiché c’era. (405)

E a questo punto altro garbuglio, altro mistero: i giornalisti arrivarono prima della polizia; i carabinieri seppero della scoperta soltanto perché riuscirono a intercettare una comunicazione radio della polizia. (405)

Il qual materiale, a giudizio del dottor Infelisi non apportava alcuna indicazione relativamente al luogo in cui poteva trovarsi Moro; ma sente il bisogno, il giudice, di mettere questo inquietante inciso: «almeno quello di cui io ho avuto conoscenza»: così aprendo come possibile il fatto che possa esserci stato del materiale sottratto alla sua conoscenza. Insomma: tutto quel che intercorre dal 18 marzo al 18 aprile intorno al covo di via Gradoli attinge all’inverosimile, all’incredibile: spiriti (che in una lettera inviata dall’onorevole Tina Anselmi alla Commissione appaiono molto meglio informati di quanto poi riferito dai partecipanti alla seduta), provvidenziale dispersione d’acqua (ma la Provvidenza aiutata, per distrazione o per volontà, da mano umana), assenza della più elementare professionalità, della più elementare coordinazione, della più elementare intelligenza. (406)

Ma a chi, in Commissione, si meravigliava non avere la polizia presa una così elementare misura, come quella di far sorvegliare i capi dell’Autonomia, il questore De Francesco rispondeva che mancava di uomini. E ne teneva impegnati più di 4000 in operazione di parata! (407)

Ci si chiede da che tanta estravaganza, tanta lentezza, tanto spreco, tanti errori professionali possano essere derivati .(408)

Ma crediamo che l’impedimento più forte, la remora più vera, la turbativa più insidiosa sia venuta dalla decisione di non riconoscere nel Moro prigioniero delle Brigate Rosse il Moro di grande accortezza politica, riflessivo, di ponderati giudizi e scelte, che si riconosceva (riconoscimento ormai quasi unanime: appunto perché come postumo, come da necrologico) era stato fino alle 8,55 del 16 marzo. (408)

Non si vede perché Moro, uomo di grande intelligenza e perspicacia, avrebbe dovuto comportarsi come un cretino: se gli era consentito di guadagnar tempo e di comunicare con l’esterno, di queste due favorevoli circostanze non poteva non approfittare. […] La cifra dei suoi messaggi poteva, per esempio, essere cercata nell’uso impreciso di certe parole, nella disattenzione appariscente. Quando Cossiga e Zaccagnini, per dire delle condizioni in cui Moro si trovava, citano la frase di una sua lettera (quella, appunto, diretta a Cossiga ministro dell’Interno): «mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato», è curioso non si accorgano che proprio questa contiene una incongruenza e che non definisce precisamente il tipo di dominio sotto cui Moro si trovava. Che vuol dire, infatti, «incontrollato»? Chi poteva o doveva controllare le Brigate Rosse? E perciò appare attendibilissima (e specialmente dopo le rivelazioni degli ex brigatisti) la decifrazione che ci è stata suggerita: «mi trovo in un condominio molto abitato e non ancora controllato dalla polizia». (409-410)

Un ultimo particolare si vuole mettere in evidenza, a dimostrare come la volontà di trovare Moro veniva inconsciamente deteriorandosi e svanendo. Subito dopo il rapimento, venne istituito un Comitato Interministeriale per la Sicurezza che si riunì nei giorni 17, 19, 29, 31 del mese di marzo; una sola volta in aprile, il 24; e poi nei giorni 3 e 5 maggio. Ma quel che è peggio è che il Gruppo politico-tecnico-operativo, presieduto dal ministro dell’Interno e composto da personalità del governo, dai comandanti delle forze di polizia e dei servizi di informazione e sicurezza, dal questore di Roma e da altre autorità di pubblica Sicurezza, si riunì quotidianamente fino al 31 marzo, ma successivamente tre volte per settimana. Solo che di queste riunioni dopo il 31 non esistono verbali e «non risultano agli atti nemmeno appunti». Ed era il gruppo — costituito con giusto intento — che doveva vagliare le informazioni, decidere le azioni, avviarle e coordinarle.

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Eppure in quei 55 giorni del sequestro Moro le informazioni riservate non mancarono, soggetti onesti operarono, circostanze favorevoli ci furono.«Ma -scrive Sciascia- appunto dei vantaggi non si è saputo fare alcun uso» (p. 404). Un’affermazione illuminante, quest’ultima, e che mi ha ricordato il brano di un libro da Sciascia molto letto e molto amato.

«Noi abbiam cercato di metterla in luce, di far vedere che que’ giudici condannaron degl’innocenti, che essi, con la più ferma persuasione dell’efficacia dell’unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno, e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia. Non vogliamo certamente (e sarebbe un tristo assunto) togliere all’ignoranza e alla tortura la parte loro in quell’orribile fatto: ne furono, la prima un’occasion deplorabile, l’altra un mezzo crudele e attivo, quantunque non l’unico certamente, né il principale. Ma crediamo che importi il distinguerne le vere ed efficienti cagioni, che furono atti iniqui, prodotti da che, se non da passioni perverse?»
Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame, «Introduzione».

[Devo la segnalazione di questo documento a Dario Sammartino, che ringrazio ancora una volta]

Dinamismo

Umberto Boccioni (1882-1916): genio e memoria
Palazzo Reale- Milano
Sino al 10 luglio 2016

1882-1916. Cento anni fa moriva Umberto Boccioni. Cento anni di futurismo. Al di là dei suoi contenuti specifici, dottrinari, tecnici –molti dei quali obsoleti e già passati– il futurismo si è irradiato nel modo stesso di concepire l’arte e soprattutto ha prodotto opere tra le più significative del Novecento.
L’opera di Boccioni costituisce uno dei vertici di tale ricchezza. Al di là degli atteggiamenti di rottura con il passato, questo pittore e scultore si era nutrito della grande tradizione dell’arte europea dai Greci al Rinascimento. La mostra evidenzia bene il suo debito con Dürer, Giovanni Bellini, Donatello, Van Dyck, Rembrandt. E dà conto dell’importanza del saper disegnare, della padronanza di ogni tecnica pittorica e plastica. Come Aby Warburg, anche Boccioni raccolse in un Atlante della memoria molte riproduzioni di opere che vanno dalla classicità pagana sino al suo presente, 216 opere esattamente. Nessuno nasce dal nulla, nessuna opera è fondata sul niente. Compresi uomini e opere che intendono praticare un taglio netto con il passato. Il genio di Boccioni è anche la sua memoria.  Efficace titolo, questo, di una mostra che documenta l’ambiente, le relazioni, i pittori con i quali l’artista creò e intrattenne legami profondi o ai quali deve in ogni caso molto: Previati, Segantini, Fornara, Severini, Brangwyn, Rosso, Picasso, Carrà, Rodin, Cézanne, Sironi.
L’ordine cronologico nel quale si dipanano le sale dà conto della breve ma intensissima vicenda di Boccioni prima e dopo l’adesione al futurismo. Tra le opere esposte, il Ritratto di Virgilio Brocchi fa del colore e del suo impasto la psicologia stessa del personaggio, il suo corpomente. Le Tre donne sono pure luce. Nelle Officine a porta romana c’è tutto «il cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace» (I promessi sposi, cap. XVII)- e c’è l’atto e la potenza della città, il suo spazio epico e insieme intimo.  La madre –soggetto ripetuto da Boccioni- con il trascorrere del tempo diventa sempre più astratta, scomposta, sino a Materia (1912) nel quale la madre è diventata la materia stessa. Le due sculture Sviluppo di una bottiglia nello spazio e Forme uniche della continuità nello spazio sono la perfetta plastica futurista.
Infine Dinamismo, un titolo universale e paradigmatico dell’opera di Boccioni, ripreso nelle numerose varianti di un titolo altrettanto programmatico e pervasivo: Voglio fissare le forme umane in movimento. Ci sei riuscito.

Dürrenmatt

Racconti
di Friedrich Dürrenmatt
Traduzione di Umberto Gandini
Feltrinelli, 1996
Pagine 412

Il mondo è un tormento, il torturatore è dio. L’essere è un tunnel che sprofonda nel niente. Agli uomini sembra di stare dentro una favola maligna. Descrivere la desolazione è il compito che rimane allo scrittore. Egli somiglia a uno dei suoi personaggi, il quale parla «come uno che avesse buttato via se stesso, indifferente, ridendo anche a volte, eppure la grandiosità della sua disperazione era sconvolgente» (pag. 38). Dürrenmatt scava fra gli eventi e la cause, fra «questo gigantesco groviglio di fatti fantastici» (251), con lo zelo di un archeologo che s’imbatta «nella magnificenza di delitti sepolti» (398).
Fin qui non ho fatto altro che citare o parafrasare il testo di Dürrenmatt. Per definire la sua opera si potrebbero aggiungere formule come letteratura geometrica, narrativa metafisica, passione cerebrale, tragedia grottesca. Nei Racconti Dürrenmatt dà forse il meglio di sé per la capacità di sintetizzare in poche pagine, a volte addirittura in poche battute, un intero mondo di pensiero, una visione immedicabile del mondo, uno sguardo acuto e perfido come è perfido il reale. Storie le sue apparentemente assurde, il cui significato neppure alla fine sembra svelarsi e che tuttavia sono costruite secondo una gelida geometria. Essa ruota su dei postulati, su parole e concetti chiave come giustizia, potere, boia, malvagità dell’uomo, nientità dell’essere.
La giustizia è quella luterana per la quale homo simul justus ac peccator est e non merita pietà alcuna. Il potere non è né buono né cattivo, è semplicemente il mondo in ogni sua manifestazione, è “l’amministrazione” che ha sede ovunque ci sia un essere umano. Dal «monotono squallore della quotidiana banalità elvetica» (126) al quasi divino meccanismo del Politbüro staliniano, la politica è per sua natura totalitaria poiché si fonda sul meglio degli uomini, sul loro sentimento di lealtà, sul pactum unionis che è pactum subiectionis. Ogni persona è quindi insieme carnefice e vittima, boia e condannato. Nell’essere consapevole di sé e quindi del male c’è odio, c’è il diritto e l’ebbrezza «d’odiare coloro che ci hanno messi al mondo, i genitori, d’odiare gli avi che avevano messo al mondo i genitori, e oltre a loro gli dei che hanno messo al mondo genitori e avi» (239). Un odio inutile e necessario come inutile e necessaria è ogni cosa: «Tutto era ineluttabile come è ineluttabile il contenuto dei libri di matematica» (16) fino al punto che lo stesso principio di causalità è ancora troppo superficiale in quanto «nessun evento ha una causa, bensì un’infinità di cause; infatti un evento non rimanda a un altro evento come alla sua causa, è piuttosto “causalmente” collegato con tutte le cause, con tutto il passato del mondo» (265). E se le cose andassero diversamente, per ciò stesso -immediatamente- piomberebbero nel nulla.
L’uomo non è altro che il luogo dove tutto ciò si fa consapevolezza e insieme coacervo di domande. Gli umani sono quindi «soltanto un’approssimazione» (245), sono un’angoscia perennemente in lotta con se stessa secondo l’antico detto (da Hobbes indietro a Lucrezio e da questi a Plauto) dell’homo homini lupus. È sensato pensare che «la natura, per quanto ottusa, non rifarà probabilmente la sciocchezza di creare dei primati, il caso culminato nella creazione della nostra razza non si ripeterà, probabilmente» (270).
Dopo due secoli uno svizzero inchioda un altro svizzero -Rousseau- alle sue illusioni filantropiche, le stesse che geometricamente hanno prodotto l’orrore del disordine totalitario. Dürrenmatt contro l’antropologia dell’Emilio in tutti i suoi racconti ma in maniera esplicita in un testo del 1943 –Il figlio– dove in un unico denso periodo si mostra l’essenza selvaggia dell’uomo roussoviano. A esso Dürrenmatt contrappone il mito platonico della caverna e le domande di Zarathustra sul senso della bestia uomo.
Dagli antichi miti di Edipo e del Minotauro alla terza guerra mondiale combattuta dentro le montagne svizzere, dall’angoscia di Pilato agli strani destini di rappresentanti svizzeri di commercio, da rabbini e imam senza tempo ai gangster americani, qualunque sia il tema, chiunque siano i personaggi, i Racconti di Dürrenmatt descrivono una sola cosa: il mondo è un tormento, il torturatore è dio, l’essere è un tunnel che sprofonda nel niente, agli uomini sembra di stare dentro una favola maligna. Scrivere è l’unico modo per dare un senso all’assurdo.

[Al più perfetto di questi racconti, La morte della Pizia, -comunque assai meglio tradotto nell’edizione Adelphi- spero di dedicare uno dei prossimi ‘Libri del mese’]

Corruzione

Piccolo Teatro Strehler – Milano
L’opera da tre soldi
(Die Dreingroschenoper, 1928)
di Bertolt Brecht e Kurt Weill
Traduzione di Roberto Menin
Con: Giandomenico Cupaiuolo (Un cantastorie), Marco Foschi (Mackie Messer), Peppe Servillo (Jonathan Jeremiah Peachum), Maria Roveran (Polly Peachum),  Margherita Di Rauso (Celia Peachum); Sergio Leone (Jackie “Tiger” Brown), Rossy De Palma (Jenny delle spelonche), Stella Piccioni (Lucy )
Orchestra sinfonica di Milano Giuseppe Verdi – Direttore d’orchestra Giuseppe Grazioli
Regia di Damiano Michieletto
Sino al’11 giugno 2016
Trailer dello spettacolo

Opera_tre_soldi_2016Dalla Beggar’s Opera di John Gay (1728) Brecht, la traduttrice Elisabeth Hauptmann e il compositore Kurt Weill presero molto ma molto anche trasformarono. Nel mondo e nella scena «i poliziotti se la fanno con i delinquenti, i delinquenti vogliono fare gli imprenditori, gli imprenditori organizzano bande di mendicanti» (R. Menin, Programma di sala, p. 30). Si comincia infatti con l’imprenditore Jonathan Jeremiah Peachum, che esalta la propria capacità di organizzare con metodo i mendicanti londinesi affinché riescano a indurre il prossimo «a fare la cosa più innaturale di questo mondo: dare il proprio danaro ad altri». Appare poi il bandito Mackie Messer, che innamora la figlia di Peachum e la induce a sposarlo. E tuttavia la passione ‘fimminara’ di Mackie per le donne in genere e per le prostitute in particolare non si placa e induce Peachum a denunciarlo e a sperare che la forca lo tolga di torno a lui e alla figlia. In realtà, il capo della polizia è amico fraterno del bandito e quindi l’impresa non è facile. Peachum convince le prostitute a tradire per denaro Mackie Messer, il quale viene infine catturato e sta per essere impiccato. Ma il denaro -molto denaro- fa ancora una volta il miracolo e il condannato riceve la grazia regale. Non solo: il ladro e assassino diventa anche nobile e gli vengono assegnati rendita e castello. Lo spettacolo si chiude su una pioggia di banconote e di umani impegnati ad arraffarle.
«Signori il mondo è misero e cinico, è perfido / Ma certo l’uomo è misero, è cinico è perfido». Questo affermano i Peachum, marito e moglie. Un disincanto antropologico che si fa denuncia politica. Ladri e poliziotti, estortori e imprenditori, assassini e magistrati, si comportano alla stessa maniera. La corruzione è pervasiva del corpo sociale.
Efficace ed eloquente dunque l’idea di ambientare tutta la vicenda in un tribunale/carcere, nel quale i delinquenti diventano di volta in volta giudici. E viceversa. Il regista lo dice in modo esplicito: «Tutti siamo il giudice, tutti siamo corrotti e corruttori» (Programma di sala, p. 24). Dalla scenografia e dalla struttura generale dello spettacolo emerge in modo plastico la natura criminale dello Stato e della finanza. Nell’incipit e nel finale viene infatti ripetuta un’affermazione di Brecht diventata famosa: «È più grave svaligiare una banca o fondare una banca?».
Michieletto e Grazioli hanno scelto degli attori che cantano e non dei cantanti che recitano. Hanno fatto bene. Die Dreingroschenoper non è infatti un’opera lirica e neppure un musical. È un’opera di teatro nella quale la musica di Kurt Weill sembra incarnare l’antico Coro delle tragedie greche, a sottolineare il senso e l’abisso di ciò che sulla scena accade.
Peppe Servillo è un Peachum eccellente nel rendere l’inseparabilità di cinismo e affari. Il Mackie Messer di Marco Foschi sembra ispirarsi alle movenze sincopate, dilatate e finte di Carmelo Bene. L’intera messa in scena sta sotto il segno dei versi che Brecht aveva inserito nella versione cinematografica dell’opera e che qui la chiudono: «Chi vince fa la storia / E chi perde tacerà». A meno che l’arte e la poesia diano ai perdenti voce.

«Forêts de symboles»

Il Simbolismo. Arte in Europa dalla Belle Époque alla Grande Guerra
a cura di Fernando Mazzocca e Claudia Zevi in collaborazione con Michel Draguet
Palazzo Reale – Milano
Sino al 5 giugno 2016

VonKeller_AuCrépuscoleNei simboli si raggruma la facoltà che la nostra specie ha di vedere ciò che non appare immediatamente percepibile. Anche per questo il simbolo è di per sé un concetto. Tutto ciò che chiamiamo cultura ha una struttura simbolica. Perché dunque denominare Simbolismo una particolare temperie artistica? La motivazione principale sta nel fatto che tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo molti artisti fecero propria la definizione del mondo data da Baudelaire, per il quale «la Nature est un temple où de vivants piliers / Laissent parfois sortir de confuse paroles; / L’homme y passe à travers des forêts de symboles / Qui l’observent avec des regards familiers» (Correspondances, vv. 1-4). Simboli che attingono la loro potenza dalla forze profonde, pulsanti, estreme della vita.
All’interno della formula unitaria Simbolismo convivono in realtà espressioni e posizioni diverse come la Secessione viennese, i Nabis parigini, il Divisionismo. Le opere dei numerosi artisti che si riconobbero sotto questa formula indicano in modo assai chiaro due verità, una di natura generale e un’altra riguardante la storia.
La prima verità è che un eccesso di razionalità non è diverso da altri eccessi e dunque è pronto a capovolgersi nel suo opposto. I successi del positivismo, la convinzione di poter tutto ricondurre e ridurre alle metodologie della scienze dure, generarono un mondo fatto di segni inquieti, di sogni angoscianti, di incubi esoterici.
È questo che esprimono le opere raccolte nella ricca e suggestiva mostra di Palazzo Reale.
Malczewski-Thanatos-IThanatos di Jacek Malczewski (1898) ha l’implacabile freddezza della pura ferocia. Al chiaro di luna di Albert von Keller (1894) consiste nello stridente contrasto tra il corpo sensuale di una donna e la sua posa crocifissa. Parsifal di Leo Putz (1900) è il sogno del guerriero che immagina splendide creature nude pronte ad accogliere il suo ritorno. Si potrebbe continuare a lungo nell’indicare opere nelle quali il sogno si fa reale e la realtà assume i contorni onirici delle profondità interiori. Almeno un altro quadro va comunque ricordato: L’isola dei morti di Arnold Böcklin (1880-1896); e va ricordato non soltanto per la sua struttura e il suo contenuto davvero emblematici del Simbolismo -colori forti e insieme spenti, paesaggio lugubre e geometrico, centralità del morire- ma anche e soprattutto perché si tratta di un dipinto che fu molto amato da personaggi che apparentemente sembrano assai lontani tra di loro come Lenin, Hitler, Strindberg, D’Annunzio, Freud. Tutti costoro, in un mondo o nell’altro, non credevano più nella Ragione, nella sua autorità sulle vicende umane individuali e collettive. La ricorrente presenza di figure come Orfeo e Medusa indica l’estrema volontà di fare dell’arte una barriera contro l’orrore. Ma per far questo l’arte stessa assume i caratteri della paura.
La seconda verità è che queste opere mostrano in modo lancinante come l’Europa fosse pronta al trionfo della morte che afferrò il continente tra il 1914 e il 1918. Si moltiplicano infatti i segni della violenza, della distruzione e del demoniaco, seppur trasportati su piani allegorici.
A margine ma non tanto: la grandezza di Nietzsche sta anche nell’essere stato immerso in tali atmosfere ed esserne rimasto di fatto immune. Perché Nietzsche era un greco, lontano da ogni decadenza.

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