Skip to content


Pavese poeta

Lunedì 8 aprile 2024 alle 18.00 alla libreria Feltrinelli di Catania parteciperò alla presentazione del volume che raccoglie tutta l’opera in versi di Cesare Pavese, i suoi testi editi e inediti, le traduzioni da poeti greci – specialmente Omero -, latini, moderni, soprattutto i romantici. Il libro, edito da Mondadori, è stato curato da Antonio Sichera e Antonio Di Silvestro, colleghi italianisti del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict.
Si tratta di un libro/oceano, non soltanto nella mole (1728 pagine) ma soprattutto nella potenza, nell’energia ermeneutica e filologica. È un libro necessario, che permette di avere con sé e davanti a sé l’opera poetica di uno dei maggiori scrittori italiani di ogni tempo. Un libro amico, per l’evidente affetto che traspare nella cura, negli apparati, nelle introduzioni; un’amicizia non priva di contrasti e di momenti di distanza, come tutte le amicizie profonde, autentiche, feconde.

Da Lavorare stanca

I mari del Sud
Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo
mio cugino è un gigante vestito di bianco,
che si muove pacato, abbronzato nel volto,
taciturno. Tacere è la nostra virtù.
Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo
– un grand’uomo tra idioti o un povero folle –
per insegnare ai suoi tanto silenzio.

(vv. 1-8; p. 77)

***********

Da Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Sempre vieni dal mare (19-20 novembre ’45)
Sempre vieni dal mare
e ne hai la voce roca,
sempre hai occhi segreti
d’acqua viva tra i rovi,
e fronte bassa, come
cielo basso di nubi.
Ogni volta rivivi
come una cosa antica
e selvaggia, che il cuore
già sapeva e si serra.
[…]
Fin che ci trema il cuore.
Hanno detto un tuo nome.
Ricomincia la morte.
Cosa ignota e selvaggia
sei rinata dal mare.

(vv. 1-10 e 40-44; pp. 201-202)

Morandi

Giorgio Morandi
1890-1964

Palazzo Reale – Milano
A cura di Maria Cristina Bandera
Sino al 4 febbraio 2024

Un rigore formale che attinge alle geometrie di Piero della Francesca ma con la tonalità tutta novecentesca di un immanentismo che si fa anch’esso distanza dagli eventi e dalla morte, come accade allo slancio verticale di Piero. Una prospettiva stratificata su più piani, attraverso forme e pennellate che all’inizio sembravano vicini alla Metafisica e al Realismo magico e poi divennero altro, divennero il sacro che dalle tele di Morandi spira.
Una luminosità fredda e antica si fa forma nelle fronde immobili, in un dolore oggettivo, nelle conchiglie, nei fossili, negli oggetti che si raggrumano e producono nel loro tacere luce. È un mondo fatto di geometrie, di parallelepipedi, di paesaggi «inameni», come li definì Roberto Longhi. Un mondo abitato da una forza di gravità interiore che stringe sempre più gli oggetti gli uni con gli altri, rendendo fermo lo spazio.
Giustamente la curatrice della mostra milanese afferma che in Morandi «la  luce ha un’incidenza metafisica. Lo spazio non è misurabile né percepibile» e nelle opere ultime la sua è «una materia che sta scomparendo». Una materia che si dissolve nella pienezza dell’essere. Morandi lo intuì e scrisse che «quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose».

Morandi. Natura morta, 1918-1919

L’arte di Morandi mostra tale essenza, dispiega la potenza della materia e del silenzio. Nessun umano appare nei suoi quadri. Anche per questo offrono la pace della materia che in un suo intervallo sarà stata anche protoplasmatica, vegetale e animale, sarà stata materia artificiale e macchinica. Ma a rimanere sarà la materia minerale e cosmica, la sua potenza. Rimarrà la materia e basta. Non più gli umani, materia miserrima dentro il cosmo, e neppure soltanto gli altri animali, vertebrati o invertebrati, di terra o di mare, volatili e insetti. Nemmeno le piante, i fiori, il grano. Rimarrà soltanto la materia, le rocce, le lave. E le stelle. La pura luce, la loro luce. Le trasformazioni elettromagnetiche che invadono di fulgore lo spazio silenzioso e perfetto nel quale di tanto in tanto la materia si raggruma in polvere, pianeti, astri. Qui non c’è sofferenza. Non c’è mai stata. Nulla nasce e nulla muore. E il tempo accade senza posa nel movimento delle masse e nella potenza dell’energia.

Morandi. La strada bianca, 1941

[L’immagine di apertura è una Natura morta del 1957. Le ultime righe di questo testo sono già state utilizzate da me in altre pagine del sito, parlando della musica di Jean-Philippe Rameau, di un film di fantascienza (Life, 2017), di una lezione alla Scuola Superiore di Catania. Si tratta infatti di una concezione della materia/luce del tutto affrancata da ogni antropocentrismo, una tesi per me fondamentale]

Ugo Spirito

Ugo Spirito, un filosofo del presente
Recensione a:
Ugo Spirito
L’avvenire della globalizzazione
Scritti giornalistici (1969-1979)
A cura di Danilo Breschi
Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice – Luni Editrice, Milano 2022
Pagine 392
in  il Pequod , anno IV, numero 8, dicembre 2023, pagine 103-105

Ugo Spirito (1896-1979) ha attraversato quasi per intero il Novecento. Allievo principale di Giovanni Gentile, si allontanò dall’attualismo per una esigenza di ricerca, innovazione, slancio verso il futuro che percorre anche gli scritti giornalistici degli ultimi dieci anni di vita, selezionati, raccolti e introdotti da Danilo Breschi. Da Gentile Spirito assorbe lungo tutto il proprio percorso l’immanentismo radicale, l’antropocentrismo, il panteismo per volgere poi – in modalità anche sconcertanti – queste radici in qualcosa che dal pensiero di Gentile è davvero assai distante.
Il problematicismo – così Spirito definì la propria filosofia – che si esprime in questi testi e in varie sue opere è una teoresi esplicitamente antitradizionalista, una sorta di positivismo critico che vive di una fiducia profonda nelle scienze e nelle loro espressioni tecnologiche, per quanto non ne nasconda i rischi anche esiziali. Ma Spirito è un filosofo dai molti strati e se da una parte difende scienze e tecnocrazia, dall’altra è del tutto consapevole del totalitarismo dei media da cui discende la possibilità di nuovi regimi dispotici, di comunità collettive e stati politici i quali «richiedono l’imprimatur per ogni espressione di opinioni personali», definizione che Spirito applica ai regimi fascisti e che si sta pericolosamente incarnando nel politicamente corretto.
Ho cercato in questo breve testo di presentare e discutere alcuni dei temi che Spirito affronta sempre in modo critico e assai vivace.

Il fatto artistico

RiEvolution.
I grandi rivoluzionari dell’arte italiana. Dal futurismo alla Street art

Palazzo della Cultura – Catania
A cura di Raffaella Bozzini e Giuseppe Stagnitta, con il coordinamento storico-scientifico di Marco Di Capua
Sino al 7 gennaio 2024

Rara è a Catania, e in Sicilia in genere, l’occasione di intraprendere un percorso così ricco e articolato nell’arte del Novecento. 130 dipinti, sculture, installazioni, video che vanno dal Futurismo al presente e che mostrano ciò che a più di un secolo dai suoi inizi è la poetica del Novecento, una poetica unitaria e ben riconoscibile nonostante la grande varietà di forme, nomi, espressioni, materiali, ideologie.
Astrattismo e realismo; formalismo e intenti politici; materiali poveri di uso quotidiano e materiali di nuovissima invenzione; vibrazioni tragiche e declinazioni puramente tecniche si intrecciano, si confondono, dialogano e producono il risultato di un divertimento dal quale si apprende. La svolta romantica ha segnato ciò che Giuseppe Frazzetto ha esattamente descritto come metamorfosi dell’artista artigiano nell’artista sovrano, il quale abbandona la prospettiva, un punto di vista oggettivo sul mondo, a favore di una pluralità di punti di vista creati dall’artista stesso, padrone dello spazio, delle relazioni, delle durate e della stessa indicazione di qualsiasi oggetto o situazione come arte. Da allora siamo immersi nella funzione collettiva e sociale, e soprattutto nella valenza radicale, ontologica, del fatto artistico dentro il mondo umano.
Ben si vede anche da questa mostra come l’estetica contemporanea pensi – in modo più o meno radicale ma pervasivo – all’opera come manipolazione di materiali che si fa smascheramento, leggerezza, denuncia e sorriso. Nella prima sala appaiono subito le scatolette nelle quali Piero Manzoni racchiuse la sua «merda d’artista», uno degli esiti più ironici ed emblematici del Novecento. 

Piero Manzoni, Merda d’artista, 1961

Nel 1939 Charles Morris propone di cogliere nell’arte non più enunciati – segni che vogliono dire qualcosa al di là di sé – bensì iconi, segni che non rinviano ad altro ma presentano il significato, lo incorporano in se stessi. L’opera d’arte non significa nulla al di là del proprio stesso significare, la potenza della forma. Questo non vuol dire, però, che l’arte sia solo un gioco. È anche un gioco ma nel suo carattere ludico diventa la sostanza stessa delle società e degli umani. Sta qui il nucleo delle avanguardie, la loro perenne fecondità.

Gianni Colombo, Spazio elastico, 1976

In un corso di estetica tenuto a Berlino nell’a.a. 1822-23 Hegel argomenta come l’arte sia «inferiore al pensiero per l’espressione; ma fa intravedere il pensiero, l’idea; contrariamente al mondo sensibile dove è immediatamente nascosto il pensiero. L’arte non si distingue, del resto, dalla maniera in cui appare» (Estetica. Il manoscritto della «Bibliothèque Victor Cousin», a cura di Dario Giugliano, Einaudi 2017, p. 3, foglio 1 del manoscritto). La sostanza dell’arte è dunque fenomenologica, è l’apparire. Nell’apparire dell’opera d’arte confluiscono pertanto la forma/espressione, il contenuto/concetto, la società che li genera.
Elementi ed esperienze che appaiono assai chiari anche nel percorso dentro il fare artistico contemporaneo che questa mostra consente di intraprendere.
La foto di apertura rappresenta l’opera di Grazia Varisco Filo rosso F (2009).

Il contemporaneo a Catania

Arte in Sicilia nel secondo ʼ900
Esposizione permanente

Palazzo Valle / Fondazione Puglisi Cosentino – Catania

Quali siano lo statuto, l’identità e i confini dell’«arte contemporanea» è una questione aperta e complessa, alla quale ha dato e continua a dare un contributo di chiarezza, di scientificità, di grande competenza l’opera di Giuseppe Frazzetto. Insieme alla lettura di saggi, insieme allo studio, è  naturalmente fondamentale accostarsi alle opere, vederle, se possibile toccarle, girare loro intorno, gustarle e in esse immergersi.
Anche per questo avevo accolto con gioia, nel 2009, l’apertura della Fondazione Puglisi Cosentino nella magnifica sede del Palazzo Valle di Catania. Si trattava di un doveroso, eppure sino ad allora assente, spazio per il contemporaneo nella seconda città della Sicilia e in una delle più popolose d’Italia. Nel 2011 Frazzetto scorgeva «nella vicenda dell’arte contemporanea a Catania la facies hippocratica delle contraddizioni cittadine. La città che non si vuole; la città che non si conosce; la città che non si vuole conoscere. Questa sorta di headline potrebbe lampeggiare, come insegna, sul frontone della Fata Morgana, la decine di volte annunciata Galleria Civica» («Catania + Pittura + Moderno AntiModerno + Scultura 1921/1981» in AA.VV., Storia di Catania, a cura di G. Giarrizzo, Sanfilippo Editore).
Catania è inoltre una città universitaria, dove sono presenti sia il Liceo Artistico sia l’Accademia di Belle Arti, e dove l’attività di pittori e scultori è stata nel Novecento di grande significato e qualità. Che in una città con queste caratteristiche non esistesse uno spazio dedicato all’arte contemporanea era un fatto assai grave, un’assenza che veniva in parte sanata. Visitai dunque quasi tutte le mostre organizzate e proposte dalla Fondazione e ne parlai (nei limiti delle mie competenze in questo campo) nelle seguenti pagine:

Poi la chiusura, per ragioni a me ignote. Da qualche mese la Fondazione è stata riaperta, anche se con dei limiti negli spazi, poiché è possibile per ora visitare soltanto il terzo piano di Palazzo Valle, che ospita adesso una selezione dalle collezioni private di Alfio Puglisi Cosentino e di Filippo Pappalardo.
Della collezione Puglisi Cosentino sono presenti due opere (di Salvatore Scarpitta, siciliano, e di Roberto Fabelo, cubano); le altre provengono dalla collezione Pappalardo e disegnano il percorso dell’arte in Sicilia lungo tutto il Novecento sino al presente.
Pochi forse lo sanno ma, come accennato, tra le principali avanguardie, correnti artistiche, riviste d’arte del XX secolo la presenza di artisti siciliani è stata molto alta e soprattutto assai qualificata. Lo si vede percorrendo le sale della Fondazione, nelle quali il figurativo, l’informale, il manierismo degli ‘anacronisti’ (o ‘postmoderni’), l’astrattismo, si confrontano e si alternano, delineando una ricchezza, differenza, complessità e fecondità che finalmente possono essere conosciute, studiate e fruite in uno spazio unitario della città. Un esempio in qualche modo riassuntivo è Centro Storico, un olio di Totò Bonanno (1928-2002).


Ho avuto il privilegio (ché veramente di privilegio si tratta) di accostarmi a queste opere in compagnia e con la guida di Giuseppe Frazzetto, in una bella mattinata dell’autunno siciliano, apprendendo da lui molte notizie sui singoli artisti (decine) e sulle loro opere. Artisti dei quali questo critico è capace di  delineare storia, forme, affinità e identità. Tra le sue molte attività, Frazzetto ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Catania. L’Ateneo della città ha usufruito delle sue competenze e del suo nome soltanto per alcuni anni nei quali ha tenuto i corsi di Storia dell’arte contemporanea nel Dipartimento di Scienze Umanistiche. Per il resto l’Università di Catania si è privata della presenza di uno dei massimi critici viventi del contemporaneo.
Spero che nei prossimi mesi Palazzo Valle sia fruibile per intero ma già adesso il suo terzo piano merita la visita di chi vuole comprendere più a fondo la complessità del reale e dunque vivere meglio.

Potere

Oppenheimer
di Christopher Nolan
USA, 2023
Con: Cillian Murphy (Robert Oppenheimer), Robert Downey Jr. (Lewis Strauss), Emily Blunt (Katherine Oppenheimer), Matt Damon (Leslie Groves), Florence Pugh (Jean Tatlock), Benny Safdie (Edward Teller), Kenneth Branagh (Niels Bohr), Jason Clarke (inquisitore)
Trailer del film

Shakespeare (in particolare Riccardo III e Macbeth), Machiavelli (Il Principe), Canetti (Massa e potere) ci hanno mostrato che il potere è un fatto pervasivo e stratificato, evidente e complesso. Ma la sua sostanza non è difficile da cogliere: il potere è espressione e forma della dissoluzione, è radice sempre attuale dei bisogni animali della nostra specie, è raffinata giustificazione della violenza, è la brutale e penultima parola sugli eventi. Penultima perché l’ultima è la conoscenza che indaga sugli esiti del potere, come appunto in Skakespeare, Machiavelli, Canetti e in altri.

Nel Novecento c’è stato un momento (in verità assai lungo) nel quale il potere della filosofia/scienza, nella forma della fisica teorica, e quello politico conversero nella progettazione, realizzazione e utilizzo di un fuoco mai visto, devastante, accecante. Il fuoco generato dalla manipolazione umana del nucleo dell’atomo, fuoco che come onda inarrestabile e totale brucia, dissolve, cancella tutto ciò che incontra. E trasforma quanto di biologico gli sopravvive in un grumo senza fine di piaghe e di dolore.
L’unica potenza che sinora – 2023 – ha utilizzato contro altri stati e contro gli umani e i viventi tale fuoco sono gli Stati Uniti d’America, il 6 agosto 1945 dissolvendo Hiroshima, il 9 agosto cancellando Nagasaki.
Christopher Nolan racconta le origini di questa vicenda, il suo svilupparsi dentro un intrico fatto di carriere universitarie, di procedure e risultati scientifici, di innovazioni tecnologiche, di scommesse e di azzardi, di ambizioni politiche, di dismisura storica. Il presidente USA Harry Truman (del Partito Democratico, interpretato per pochi ma sufficienti minuti da uno straordinario e cinico Gary Oldman) al fisico Oppenheimer che afferma di sentire le mani grondanti di sangue, offre il suo fazzoletto per pulirsele e giustamente gli dice che «lei ha utilizzato la bomba a Los Alamos, non c’entra nulla con Hiroshima e Nagasaki. Le bombe le ho sganciate io».

Los Alamos (New Mexico) fu la sede principale del Progetto Manhattan, che ideò e realizzo gli ordigni nucleari. A guidare il progetto fu appunto Robert Oppenheimer (1904-1967), uno tra i maggiori fisici del Novecento, protagonista del primo esperimento atomico avvenuto il 16 luglio 1945, esplosione alla quale venne data una denominazione religiosa: Trinity.
Di questa persona e personaggio dalla natura complessa, riservata e narcisista, sfuggente, ambiziosa, sostanzialmente malata come quella di tutti i grandi criminali, il film narra la vicenda dagli esordi di studente ai successi scientifici, all’impegno strenuo per realizzare la bomba atomica, ai sospetti di militanza comunista che gli valsero un’umiliante inchiesta, alla collaborazione prima e all’odio implacabile poi da parte di Lewis Strauss, un altro ebreo e Presidente della Commissione per l’energia atomica degli Stati Uniti d’America. Gran parte del film è giocata sul canto/controcanto delle udienze dal cui esito a Oppenheimer venne revocata «l’autorizzazione di sicurezza», e dunque la possibilità di continuare a lavorare ai progetti scientifico-militari degli USA, e a Lewis venne negato di entrare come ministro nel governo del Presidente Eisenhower. La contrapposizione tra i due protagonisti è un’autentica lezione di ciò che di solito si intende con  «machiavellismo».
Oppenheimer è un’opera sul potere ed è un’opera sulla morte. Un’opera epica nello stile, frenetica nel racconto (tre ore che scorrono senza che ci si renda conto), dinamica e complessa nella temporalità, come sempre in Nolan, a partire da Following (1998) e Memento (2000) sino a Tenet (2020). Un’opera radicale nell’indicare le origini di quello che sarà probabilmente il destino di gran parte del pianeta, forse in tempi non troppo lunghi: la distruzione per opera dell’energia atomica, della potenza inarrestabile della materia manipolata nel suo nucleo, degli ordigni termonucleari di cui sono pieni gli arsenali delle maggiori potenze politiche del presente.

Un’opera che coniuga la morte all’amore. Mentre si accoppia con lui, la giovane amante Jean chiede a Oppenheimer di leggerle alcuni versi di un libro in sanscrito che il fisico sta studiando. E le parole dicono: «Sono diventato morte, il distruttore di mondi». Frase che ritorna durante l’esplosione sperimentale del luglio 1945 a Los Alamos. Questo è il momento sublime del film, anche in senso kantiano: per circa due-tre minuti tace ogni suono e ogni musica (che accompagna invece in modo ossessivo tutta la vicenda), si fa improvviso silenzio, si vede di colpo e poi lentamente ampliarsi la scintilla del fuoco, salire, diventare fungo atomico, espandersi, illuminare, accecare, splendere. Tutto nel più assoluto silenzio e con i volti e i corpi dei fisici e dei militari stupefatti di fronte a tanta perturbante meraviglia.
Amore, potere, morte. Aver potuto sentire tutto questo recitato nella lingua originale di alcuni grandi interpreti ha dato ulteriore profondità alla visione di un’opera inquietante e omerica. Opera che è anche un altro omaggio di Nolan al suo modello Kubrick, il quale affermò che «la distruzione di questo pianeta sarebbe insignificante in prospettiva cosmica. […] Non ci sarà nessuno a piangere una razza che usò il potere che avrebbe potuto mandare un segnale di luce verso le stelle per illuminare la sua pira di morte»1.
Non ci sarà nessuno.

Nota
1. In Enrico Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro Cinema 1995, p. 12.

Mattarella

È raro leggere in poche righe un tale concentrato di affermazioni  lontane dalla realtà.
La prima di queste affermazioni è che una Costituzione giuridico-politica, una norma, una legge scritta possa avere come obiettivo «superare ed espellere» un sentimento, che si tratti dell’odio o di qualunque altra passione umana. Un decreto, di qualunque genere, può imporre o può proibire un agire e non un sentire che afferisce alla sfera interiore, psichica, esistenziale, che siano sentimenti individuali o impulsi collettivi. Ma non ci troviamo soltanto di fronte a un banale errore categoriale. Si tratta di una affermazione pericolosa. Sono esistite infatti nella storia del Novecento delle formazioni politiche e dei regimi che si sono posti l’obiettivo di suscitare o di proibire sentimenti e non soltanto comportamenti nei loro cittadini. Questi regimi sono il fascismo, il nazionalsocialismo, il regime sovietico sotto Stalin.
L’ambito della politica è e deve rimanere distinto da quello dei moti interiori. Gli stati, i governi e i tribunali devono rimanere separati dall’animo umano, pena la dissoluzione di ogni libertà personale e pubblica. La descrizione più esplicita di una simile distopia è 1984. Gli scopi del Partito sono infatti ancora più radicali di qualsiasi passata Inquisizione, di qualsiasi regime autoritario, poiché il Partito vuole l’anima di chi cerca di resistergli e non elimina il ribelle sino a che questi non sia totalmente e sinceramente convinto della propria colpa e non provi autentico amore per il Grande Fratello. A questo, infatti, sarà condotto il dissidente Winston in un finale tanto terribile quanto malinconico e chiuso a qualsiasi speranza. Dopo il trattamento subito nelle stanze del Ministero dell’Amore (dell’amore, appunto) Winston «amava il Grande Fratello» (Orwell, 1984, trad. di G. Baldini, Mondadori 1998, p. 312).
Un secondo errore nel discorso di Sergio Mattarella consiste nella visione assolutamente negativa, al limite della demonizzazione, dei conflitti, dei contrasti, delle lotte. Errore aggravato dall’attribuire una simile posizione ai Costituenti, tra i quali un buon numero erano comunisti.
La Costituzione della Repubblica italiana non è nata infatti da un trionfo disneyano di armonia e di sorrisi ma da una sanguinosa guerra civile, che come tutti i conflitti di questa natura vide scatenarsi odio, violenza, vendette reciproche, tripudio dei vincitori e disprezzo per gli sconfitti (su questo tema è sempre da tenere presente Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, di Claudio Pavone, Bollati Boringhieri 1991).
Tra i «contrasti» indicati da Mattarella come negativi uno riguarda le «contrapposizioni ideologiche», senza le quali tuttavia non si ha pace e armonia ma la semplice vittoria di una ideologia che mette a tacere tutte le altre, compresa l’ideologia (radicale e che meriterebbe un’ampia analisi) che guida simili dichiarazioni contro le ‘ideologie’.
L’altro conflitto stigmatizzato da Mattarella sono le «ingannevoli lotte di classe». Qui immagino il tripudio di uditori da sempre anticomunisti come i militanti di Comunione e Liberazione, ai quali tale discorso è stato rivolto. Ma stupisce che un importante esponente politico mostri una simile rozzezza antistorica. Ritengo invece che siano sempre plausibili e rispondenti all’effettivo divenire storico le parole con le quali Marx ed Engels aprono il primo capitolo del Manifesto del partito comunista:

La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente, ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta 
(trad. di E. Cantimori Mezzomonti, Laterza 1981, pp. 54-55).

Infine un’osservazione generale: l’allocuzione di Mattarella è non soltanto inadeguata alla complessità del presente ma è anche e soprattutto logicamente autocontraddittoria, come lo è ogni tipo di affermazione contro l’odio. La sostanza e l’esito di simili dichiarazioni consiste infatti nell’incitare all’odio contro quanti vengono etichettati come «odiatori». Difatti lo stesso oratore invita a «sanzionare severamente» gli odiatori.
Ma stabilire e sanzionare un’affermazione in quanto «incita all’odio» è questione assai delicata. Dove si fermano il dissenso e il disaccordo e dove comincia l’odio? Chi stabilisce il discrimine, il crinale, il momento nel quale dei sentimenti si trasformano? Una commissione? Un supremo censore? Un tribunale? Un gruppo di giornalisti? Le porte si aprono evidentemente all’arbitrio di chi comanda e agli organi che le autorità controllano.
Con la loro stessa censura gli inquisitori aprono all’esclusione, alla punizione, al risentimento verso gli inquisiti. Notavo anche questo in un mio intervento di qualche anno fa intitolato Elogio dell’odio. La storia umana insegna che quando il potere si presenta nelle vesti dell’ultramoralismo il corpo collettivo corre dei gravi pericoli.

Vai alla barra degli strumenti