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Stefano Piazzese su Disvelamento

Stefano Piazzese
Recensione a Disvelamento. Nella luce di un virus
in Discipline Filosofiche (4 luglio 2022)

«La prospettiva ermeneutica da cui l’autore guarda il presente è plurale, mai univoca; infatti, come può una sola dimensione, e/o indirizzo del sapere, avere il primato ermeneutico su un evento costituito da una molteplicità di dimensioni?
Il rigore dello sguardo filosofico è dato sempre dal metodo – non si dà filosofia senza di esso –, che Biuso delinea nel seguente modo: “si tratta di capire la complessità di ciò che accade e di affrontarlo con coraggio e lucidità, sine ira et studio, con equilibrio esistenziale e scientifico” (p. 13). L’onestà intellettuale dello studioso, nonché la sua missione all’interno della comunità, consiste, in primo luogo, nel fornire delle chiavi di lettura valide per interpretare gli enti, gli eventi e i processi che del mondo costituiscono l’incessante accadere. La validità delle chiavi di lettura fornite da Biuso risiede non solo nella formulazione degli interrogativi fondamentali che la pandemia, come evento globale, ha fatto riemergere, ma pure nelle risposte storicamente fondate che rafforzano la tesi principale del libro, così enunciata da Davide Miccione: “l’epidemia e il suo uso politico hanno messo in luce le viltà e le debolezze di interi settori, le fragilità di quella democrazia che diamo per acquisita e, soprattutto, la miseria teoretica e morale di coloro che dovrebbero analizzare e spiegare il mondo”. […]
Biuso invita ad avere uno sguardo ampio e comprendente, dunque, la complessità dell’evento in questione, poiché ogni singolo aspetto isolato non è sufficiente a coglierne i vasti connotati sociali, storici, individuali. […]
Tra i diversi filosofi citati, un particolare posto spetta a Nietzsche, a cui è dedicato il quindicesimo capitolo. In che modo il filosofo di Röcken può aiutarci a comprendere la pandemia? Biuso ricorre al cosiddetto metodo genealogico per evidenziare “ciò che sempre sta e opera sotto le forme, lo si sappia o no” (p. 113). […]
L’analisi di Biuso, lungi dall’essere un lamento pessimistico, comprende anche una pars construens che risponde alla domanda: cosa fare? Ripensare l’epidemia vuol dire costruire un pensiero che non sia riduttivo, affrettato, mediatico e neppure antropocentrico, puramente sanitario (pp. 139-140). Si tratta di saper andare oltre la tragica e liberticida contingenza dell’epidemia, vuol dire, ancora, cogliere la follia del presente e saperne tracciare un rimedio, un pharmakos».

Narciso

Piccolo Teatro Studio – Milano
Carbonio
Scritto e diretto da Pier Lorenzo Pisano
Con Federica Fracassi e Mario Pirrello
Scene di Marco Rossi
Sino al 3 luglio 2022

Il carbonio – C – si trova dappertutto nell’universo ma qui è assunto come sinonimo di vita terrestre. La vita degli animali, la vita delle piante, la vita degli elementi atmosferici, la vita insomma. Ma per la prima volta un essere umano ha un contatto (di due minuti ma ce l’ha) con qualcosa che non è fatto di carbonio. E diventa quindi impossibile spiegare che cosa sia «perché non abbiamo termini di paragone». Un’esperta -non si sa se psicologa, chimica, spia, magistrato- gli pone domande su domande per tentare di comprendere di che cosa si sia trattato e quali potrebbero essere le conseguenze di quell’incontro, che pure è stato ripreso da moltissimi video. Ma nulla si riesce a capire e a sapere.
Scavando scavando tuttavia emergono possibilità e spiegazioni chiaramente ispirate all’ipotesi del multiverso formulata dal fisico Hugh Everett, della quale un altro fisico, Lee Smolin, dice giustamente che «non potrà mai essere verificata o falsificata, il che pone questa fantasia al di là dei confini della scienza. Ciò nonostante, non pochi fisici e matematici stimati difendono questa idea» (La rivoluzione incompiuta di Einstein. La ricerca di ciò che c’è al di là dei quanti, trad. di S. Frediani, Einaudi 2020, p. XVII). Si tratta infatti di una «interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica» per la quale gli eventi hanno tutti dei sviluppi diversi e alternativi rispetto a quelli che vediamo nella nostra realtà, e tali sviluppi creano un numero infinito di mondi; «affinché la cosa funzioni, ciascuna versione di un osservatore non deve avere modo di comunicare con gli altri: i rami devono essere autonomi» (Ivi, p. 122). Il desiderio del protagonista che un preciso evento abbia avuto sviluppi e conseguenze diverse da quelle che ha avuto sembra coniugarsi all’incontro con l’alieno, producendo una frattura nel reale che è l’inevitabile premessa dell’assurdo. Scrive infatti ancora Smolin che «la conseguenza più provocatoria e, per me, sgradevole dell’ipotesi di Everett è che dobbiamo credere che ognuno di noi abbia un numero infinito di copie, ciascuna viva e cosciente esattamente come noi. Fa pensare alla fantascienza più che alla scienza, ma sembra proprio che sia una conseguenza diretta dell’ipotesi di Everett» (Ivi, p. 144). In questo modo infatti siamo noi a nostra volta una delle tante copie. La realtà si dissolve.
A tale insensatezza fisico-chimica, Pier Lorenzo Pisano aggiunge riferimenti politici (uno, che tra qualche tempo diventerà incomprensibile, anche a Trump), drammi familiari, tracimazioni psicologiche. Insomma un minestrone drammaturgico che alla fine rende non soltanto incoerente il risultato ma a tratti lo fa anche noioso.
Lo spettacolo ha una struttura duplice: al dialogo serrato tra Lui e Lei si alterna la presenza dello stesso autore che fa vedere e spiega alcune delle immagini e dei simboli inviati nello spazio interplanetario (e  si prevede poi anche oltre) con le due sonde Voyager nel 1977. Pisano fa giustamente notare con ironia la bruttezza e l’incomprensibilità di molte di queste immagini, il cui scopo dovrebbe consistere nel comunicare a una ipotetica civiltà aliena il modo in cui siamo fatti ed esistiamo. Ancora una volta presupponendo che a tali civiltà importi sapere qualcosa di noi e che adottino dei codici compatibili con i nostri. «Vanitas vanitatum homo» (Nietzsche, Umano, troppo umano II, «Opere» IV/3, Adelphi 1967, af. 12, p. 141). Si potrebbe definire così Homo sapiens: mammifero di grossa taglia, quasi interamente glabro, caratterizzato da un complesso apparato fonatorio-linguistico e con tendenze fortemente narcisistiche.
Per cercare di temperare il narcisismo del ‘carbonio’ umano – un poco patetico e un poco patologico – si può ricordare un’altra saggia osservazione nietzscheana, secondo la quale «Hüten wir uns, zu sagen, dass Tod dem Leben entgegengesetzt sei. Das Lebende ist nur eine Art des Todten, und eine sehr seltene Art (Guardiamoci dal dire che morte sarebbe quel che si contrappone alla vita. Il vivente è soltanto una varietà dell’inanimato e una varietà alquanto rara)» (La gaia scienza, trad. di F. Masini, «Opere» V/2, af. 109, p. 118).
Si può aggiungere, una varietà alquanto malaticcia.

Una luce inquieta

Recensione a:
Eugenio Mazzarella
Nietzsche e la storia
Storicità e ontologia della vita
Carocci Editore, 2022
Pagine 212
in Discipline Filosofiche, 20 maggio 2022

Cercare di comprendere l’inquieta luce che il pensiero di Nietzsche è per tutti noi implica la forza metodologica di applicare anche a lui l’energia decostruttiva con la quale questo filosofo legge il mondo e ogni sua manifestazione. E dunque «prendere posizione con Nietzsche contro Nietzsche» (p. 22), come fa Eugenio Mazzarella. Posta tale condizione sarà possibile intendere «la costellazione Nietzsche» come «compimento zarathustriano del pessimismo della forza prospettico» (p. 133), che ritorna all’originaria matrice del pessimismo romantico dal quale era partito dopo aver però attraversato con lucidità la finitudine umana e averne inteso l’inoltrepassabilità. Dal Dioniso greco al Dioniso zarathustriano attraverso una decostruzione dell’umano – e del vivente in genere – che ne mostra il limite costitutivo sia ontologico sia gnoseologico. La parola nietzscheana per questo limite è «prospettivismo».

[Sulla stessa rivista sono state pubblicate nel 2022 alcune interessanti recensioni di due miei allievi.
Enrico Palma: Andrea Pace Giannotta, Fenomenologia enattiva. Mente, coscienza e natura
Enrico Palma: Marco Maggi (a cura di), Walter Benjamin e la cultura italiana
Stefano Piazzese: Ágnes Heller, Tragedia e Filosofia. Una storia parallela ]

Comunità scientifica

Teoria e prassi della comunità scientifica
in Koinè, anno XXVIII – 2021
«Ideali di Comunità»
pagine 99-114

Pdf del saggio

  • Indice del saggio
    -Che cos’è una comunità scientifica
    -Due teorie della pratica scientifica: Spinoza e Gentile
    -I Greci come comunità scientifica
    -Un caso empirico: Atene
    -La comunità scientifica come comunità libertaria
    -La comunità scolastica
    -La comunità universitaria
    -Canetti e Nietzsche: una gaia scienza

Una comunità scientifica è parte, forma ed espressione di una più ampia comunità politica, della πόλις, della storia e delle strutture collettive dalle quali germina e che la rendono possibile. A costituire in particolare una comunità scientifica sono alcune condizioni ed elementi che è possibile unificare e riassumere in questo modo: si dà comunità scientifica dove la curiosità prevale sul conformismo, dove la ricerca prevale sul dogma, dove la libertà prevale sull’obbedienza, dove la conoscenza diventa un fine in se stessa (autonomia) e non è rivolta ad altro da sé (eteronomia).
Rispetto all’attuale dominio dell’etica in ogni aspetto della vicenda umana e naturale -bioetica, deontologie, proliferare di etiche normative– i Greci ritengono che sia la filosofia stessa, la sua sostanza comunitaria e dialogica, la più efficace guida dei comportamenti, delle esistenze, dei conflitti.
La prassi quotidiana delle comunità scientifiche – intese specialmente come comunità accademiche – è inevitabilmente segnata dagli elementi che guidano tutte le comunità umane, da un misto di collaborazione, competizione, invidia, malevolenza, amicizia, legami che si creano e legami che si rompono. Gli elementi più problematici sono stati aggravati, in Italia ma non solo, dagli ordini dei decisori politici i quali da almeno un paio di decenni accentuano gli elementi della normativa che impongono competizioni, esclusioni, guerre interne.
Si tratta di modalità arcaiche e forse inevitabili della relazione, che nessuna modernità o postmodernismo può cancellare. Sarebbe però importante mantenere sempre la misura. 

Die Rache

La vendetta di un uomo tranquillo
(Tarde para la ira)
di Raúl Arévalo
Spagna, 2016
Con: Antonio de la Torre (José), Luis Callejo (Curro), Ruth Díaz (Ana)
Trailer del film

Il titolo originale non anticipa il senso e gli sviluppi della vicenda, quello italiano indica qualcosa. Ma in ogni caso nulla si perde di un racconto cinematograficamente esemplare, dove fatti, oscurità, memorie, ambiguità, si sciolgono e si svelano a poco a poco mostrando quanto determinata può essere la volontà di una persona alla quale è stata rubata la vita attraverso le vite dei suoi affetti e che esiste ormai soltanto per restituire a quelle spente vite un barlume di giustizia. E questo, come la tragedia e l’epica greca ampiamente mostrano, è possibile alla fine soltanto attraverso il sangue.
Un’accurata e insieme impulsiva preparazione conduce quindi il protagonista prima ad attendere il tempo necessario – otto anni – affinché possa conoscere i nomi e i luoghi di coloro che gli hanno fatto del male, molto male, e poi eliminarli uno a uno nonostante la loro forza, nonostante il loro implorare, nonostante persino l’amicizia nel frattempo inconsapevolmente maturata. Solo a quel punto i morti e i vivi avranno giustizia e colui che non aveva più niente da perdere avrà riacquistato il diritto alla propria solitudine, al proprio dolore, al posto che occupa nella trama inemendabile degli eventi.
«So gehört ursprünglich die Rache in den Bereich der Gerechtigkeit, sie ist ein Austausch; ‘la vendetta appartiene quindi originariamente all’ambito della giustizia, consiste in uno scambio’» (Nietzsche, Umano, troppo umano, I, af. 92), che permette di far tornare l’equilibrio dove esso è stato infranto da una decisione e da una azione miope, chiusa nei propri interessi, o anche semplicemente stupida. Esattamente queste  sono infatti le caratteristiche dell’evento del quale il protagonista si vendica: azioni miopi, profondamente sciocche, chiuse in una evidente sproporzione tra il vantaggio che si può ottenere e il danno che si infligge.
Bene fa quindi quest’uomo  a vendicarsi, a non lasciare scampo, a spegnere i superflui, i dannosi, gli stupidi. E bene fa il regista a dipanare i fatti insieme ai pensieri, a intramare eros e violenza, a rendere plausibile la metamorfosi di un uomo tranquillo in un dispositivo spietato. E a stendere su tutto questo una profonda tonalità di poesia. Come seppero fare anche i Greci.

Il virus come tramonto

Non so chi sia l’autore del testo che pubblico qui sotto (letto in Rete) e sono pronto ad aggiungere il suo nome, se mi sarà segnalato. Anche se l’estensore confonde il green pass del gennaio 2021, necessario per uscire e rientrare dall’Italia, con quello imposto con il DPCM del 6.8.2021, universale e quindi assai più grave, credo che in queste righe si colga uno degli elementi profondi e capaci di descrivere ciò che sta accadendo. I filosofi, e più in generale gli studiosi, dovrebbero avere la funzione di comprendere e comunicare tali dinamiche ma uno degli elementi più tristi del presente è proprio la trahison des Clercs (Jules Benda), il tradimento degli intellettuali.

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OBBEDISCI

Fin dall’inizio la gente si è siringata per poter continuare a fare le cose di prima.

Senza il green pass, di cui si è parlato a gennaio, in piena concomitanza con l’inizio della campagna va**inale, solo il 10% della popolazione, si sarebbe va***nata. Altro che 50%. Qui, dunque, non siamo di fronte a un’umanità dedita alla scienza. Qui siamo al nichilismo puro. Non c’è nessuna fede nella scienza. C’è semplicemente il doversi siringare. Ma il bello è che questo siringarsi, per-poter-fare (lavorare, andare a un concerto, prendere un treno), è quel crepuscolo degli idoli di cui parlava un filosofo il secolo scorso. È di fatto, la piena attuazione, della fine delle ideologie. Di ogni valore, finora conosciuto. È l’abbattimento della coscienza, della libertà, della persona, della storia. È la fine dell’uomo, come l’avevamo conosciuto. È chiaro che eravamo già pronti. Ma qualcosa avrebbe ancora resistito. Grazie alla pandemia, abbiamo definitivamente abbandonato tutto quel mondo. Ci siamo scoperti ‘niente’. Cioè, oltre il lavorare, andare a un concerto, andare a un museo, non siamo niente. Solo fruitori, utenti, clienti. Più nessuna idea sulle cose e sul mondo. Sulla vita, e sugli altri. Nessuna idea. Nessun pensiero. Nessuna visione. Nessun desiderio. Nessun io. Nessuna prospettiva. Solo, la pura obbedienza. Obbedire, per poter fare le cose di prima. Obbedire, perché altrimenti non era possibile farle. Tutta la pandemia è stata indirizzata sul nulla dell’uomo, e nell’uomo. E la scienza è stato il disperato tentativo di far reggere un’ideologia che ti chiedeva invece di sottomettere il tuo corpo per prendere un treno, o mangiare una pizza al chiuso. Il nulla, quindi, se il discorso verte sul lato ‘ideale’. 

Nietzsche, senza dubbio, ha visto tutto. E credo lo si capirà bene quando dei racconti di Zarathustra si saprà cogliere l’aspetto conoscitivo, più che quello esortativo. Zarathustra, vede, e non necessariamente vuole, quello che racconta. La sua partecipazione è una finzione scenica. È probabilmente l’umano troppo umano che c’è in lui, la sua ‘malinconia’. La scena del siringaggio al mercato, tra la frutta e la verdura, di una persona che non sa neppure quello che sta facendo, con una risata senza senso, ricorda certe figure dello Zarathustra, nella sua forza dirompente, nell’intensità distruttiva che emana. 

L’uomo covidiano è l’uomo privo di un qualunque pensiero sul mondo, senza più una ragione, una comprensione di quello che ha intorno. È la risata ebete del pazzo, completamente staccato da ogni universo di valori e significati condivisi.
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Con l’invenzione politica (e non sanitaria) del SuperGreenPass la tonalità sociale è ulteriormente peggiorata; dilagano l’intolleranza, la violenza, la discriminazione verso chi esercita il diritto -sempre più fragile- al controllo del proprio corpo.
Lo ha chiarito assai bene Giorgio Agamben in due recenti occasioni: nella sua audizione in Senato il 7.12.2021, quando ha parlato in modo esplicito di terrore politico e tradimento medico, ricordando che il primo governo europeo a imporre leggi invasive della corporeità fu il governo nazionalsocialista; in un breve intervento a un convegno, nel quale ha affermato con chiarezza che «il governo attuale ha abbandonato ogni legalità»:

Una conferma alle parole di Agamben è costituita da quanto accadrà tra due giorni, a partire dal 15.12.2021, con l’espulsione di tanti docenti, maestri e professori, dalla scuola italiana. Qualcosa di inaudito, che ricorda gli anni più oscuri del Novecento. Riporto qui sotto la testimonianza di uno di questi maestri e la dichiarazione di piena solidarietà ai colleghi delle scuole da parte dei docenti universitari firmatari del manifesto contro il lasciapassare sanitario. Le preoccupazioni sulla gravissima discriminazione in atto (denunciata da quello e da altri analoghi documenti) si stanno rivelando fondate.

 

 

Gli «effetti collaterali» dei vaccini, i rischi anche gravi e persino fatali che si corrono, sono oggetto dei due documenti che allego qui sotto. Il primo è una sintesi dei rischi accertati sino alla data della sua stesura, 17.2.2021; il secondo è un breve articolo di Panorama del 1.12.2021, che consiste di due elementi: una serie di dati ufficiali -e quindi assai probabilmente sottostimati- e alcune testimonianze di persone che hanno subìto gravi danni dopo l’inoculazione.

Secondo alcune letture di questi due anni di epidemia, al fondo della vicenda ci sarebbero anche le preoccupazioni maltusiane già sollevate dal Club di Roma con I limiti dello sviluppo (Rapporto Meadows, 1972), vale a dire l’assillo per l’incremento demografico assolutamente fuori controllo della specie umana, sicura ragione di esaurimento delle risorse del pianeta e dunque della vita su di esso. Anche per questo ai danni immediati dei vaccini, e ovviamente a quelli del virus, sembra che si aggiunga un probabile effetto di sterilizzazione sui giovani vaccinati.
Se fossero davvero queste alcune delle motivazioni del diffondersi sia del virus Sars-Cov-2 sia di vaccini molto pericolosi, si potrebbe essere disponibili ad accettare la loro funzione di salvaguardia dell’intero rispetto al dilagare di una sua parte, rispetto dunque all’effetto tumore che Homo Sapiens esercita sulla biosfera.

Decadenze

La nostra è una civiltà che dall’evo moderno, in particolare dall’affermazione dell’etica calvinista, ha sacralizzato il lavoro, che invece è una esigenza data dai limiti del vivente.

Alla vista del lavoro -e con ciò si intende sempre quella faticosa operosità che dura dal mattino alla sera- si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio d’indipendenza. […] Così una società in cui di continuo si lavora duramente, avrà maggior sicurezza: e si adora oggi la sicurezza come la divinità somma.

(Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, trad. di F. Masini, Adelphi 1964, § 173, pp. 126-127).
Un’etica del successo/guadagno che si sta capovolgendo nella privazione del lavoro – e quindi dei mezzi necessari alla sopravvivenza – per gli umani, sostituiti sempre più da macchine, robot, algoritmi.
Una civiltà che ha dimenticato, e direi proprio smarrito, le differenze nella melassa della globalizzazione che tende a cancellare «l’aspirazione e la decisa volontà dei popoli di affermare e conservare la loro principale ricchezza, incarnata nella rispettiva specificità» (M. Tarchi, Diorama Letterario 363, settembre/ottobre 2021, p. 2).
Una civiltà, intrisa appunto di «un calvinismo puritano ossessionato dalla purezza morale e dall’espiazione illimitata» (A. de Benoist, ivi, p. 10), dove la colpa va diventando l’essere bianchi e quindi per definizione sterminatori, l’essere maschi e quindi per definizione stupratori. In realtà è l’universalismo  negatore delle differenze a favorire l’imperialismo sterminatore degli umani e delle loro varietà. Non è un caso che l’Inghilterra, da dove iniziò il dominio storico del calvinismo anglosassone, abbia nel corso dei secoli «aggredito, invaso, occupato 173 dei 193 attuali Stati membri delle Nazioni Unite» (E. Zarelli, ivi, p. 24). L’universalismo/globalismo tende a cancellare le identità, le differenze, le culture, i costumi e i riti che «trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio. Rendono il tempo abitabile, anzi lo rendono calpestabile come una casa. Riordinano il tempo, lo curano» (Zarelli, p. 38).
Prendersi cura del tempo che si è significa riconoscerne ogni giorno e sempre la potenza e quindi avere qualche strumento in più per comprendere e accogliere la finitudine che siamo senza cadere in un fanatismo securitario che è destinato al fallimento poiché, semplicemente, tutto ciò che è nato è destinato a perire. Discutendo del volume di Simone Regazzoni La palestra di Platone (Ponte alle Grazie, 2020), Davide D’Intino ricorda quanto distante sia la civiltà greca -e in generale antica- dal timore e tremore contemporaneo, dalla

indecorosa risposta offerta sul piano antropologico alla vicenda epidemica da una società ormai incapace di rapportarsi alle idee stesse del dolore e della morte, disallenata a combattere e quindi a reagire senza farsi fagocitare dal panico, misurandosi con uno dei suoi naturali attributi: la componente rischio. Secoli di mortificazione della corporeità, derubricata irresponsabilmente al rango di peccaminosità, non potevano che dar corpo, nel perfetto compiersi di una eterogenesi dei fini, ad un individuo  introflesso nel solipsismo più deteriore, così inerte da accettare senza neppure un sussulto di ribellione la caduta della sua esistenza dalla condizione del vivere a quella del vegetare, talmente ossessionato dalla propria salute da rinchiudersi in casa sprofondando nella sedentarietà, aduso alle salubri prelibatezze dell’industria alimentare e pago di farne incetta trascorrendo le proprie giornate alienandosi davanti ad uno schermo (ivi, p. 36).

Una civiltà stanca, in fondo, della vita. Lo si sta vedendo ogni giorno, tutti i giorni.

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