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Il discorso vero

di Celso
(Αληθής Λόγος)
A cura di Giuliana Lanata
Adelphi, Milano 1987
Pagine 253

celso

Il testo di Celso (II sec. ev) -il cui titolo greco potrebbe essere tradotto anche come Il vero Logos– è giunto a noi perché Origene ne riporta numerosi brani allo scopo di confutare le accuse che lo scrittore rivolge al cristianesimo. Questa edizione curata da Giuliana Lanata è esemplare per correttezza filologica e cura della traduzione.
La molteplicità delle critiche di Celso può essere ricondotta ad alcune direttrici di fondo: difesa del paganesimo nei confronti della esclusiva pretesa salvifica che la nuova fede rivendica per sé; conferma della struttura deterministica e formale del mondo contro l’antropocentrismo e il materialismo cristiani; consapevolezza della incorporeità e serena imperturbabilità del divino platonico, i diversi nomi del quale e le differenti forme di culto scaturiscono tutti dalla stessa matrice. Il cristianesimo viene ricondotto alla misura di un culto che da un lato trae le sue cose migliori dalla grande tradizione sapienziale del mondo antico, dall’altro la adatta alla infima origine sociale e al fanatismo della maggior parte dei suoi adepti.
La fede nella resurrezione dei corpi appare al platonico Celso come una «pura e semplice speranza da vermi» (V, 14; pag. 108). Offrendo «sconsideratamente il loro corpo alle torture e alla crocifissione», i cristiani mostrano di «non amare la vita» (VIII, 54; p. 156), in ciò fedeli al loro maestro, privo di ogni lievità e autoironia: «e poi, quali azioni nobili e degne di un Dio ha compiuto Gesù? Ha disprezzato gli uomini, li ha derisi, ha scherzato su quel che gli accadeva?» (II, 33; p. 75). In tal modo, ciò che per i cristiani era ed è il privilegio di un Dio che si fa uomo, soffre e si immola, costituisce per Celso, e per il mondo di cui egli è espressione, la massima assurdità.
Altrettanto assurdo appare a Celso l’antropocentrismo che intesse l’intera tradizione prima giudaica e poi cristiana, nei confronti della quale il libro IV della sua opera pronuncia parole molto chiare. Ai cristiani i quali affermano che Dio avrebbe fatto l’intero universo per l’uomo, il filosofo risponde che «l’universo non è stato generato per l’uomo più che per gli animali privi di ragione» (IV, 74; p. 102). A conferma osserva che mentre gli umani devono inventarsi e costruirsi gli strumenti di caccia, altri animali ne sono dotati in misura superiore e innata. Aggiunge poi che «se gli uomini appaiono superiori agli esseri privi di ragione perché hanno costruito le cità e si sono dati una struttura politica e delle magistrature e dei governi, anche questo non significa nulla, perché altrettanto fanno le formiche e le api. […] Orbene, se uno guardasse verso la terra, quale gli apparirebbe la differenza fra quello che facciamo noi e quello che fanno le formiche o le api?» (IV, 81 e 85; pp. 103–104).
La conclusione è tanto logica quanto inevitabile: «Dunque l’universo non è stato fatto per l’uomo, e d’altronde nemmeno per il leone o per l’aquila o per il delfino, ma perché questo mondo, in quanto opera di Dio, risultasse compiuto e perfetto in tutte le sue parti» (IV, 99; p. 106).
A questo livello, nessuna conciliazione è possibile tra il cristianesimo e il mondo antico. Come Luciano, Spinoza e Nietzsche, Celso ha individuato la reale debolezza teoretica di questa fede, divenuta però la sua paradossale e ambigua forza pragmatica, consolatrice ed emotivamente coinvolgente: la bizzarria di una forma del divino davvero troppo umana. E tuttavia, radicato com’è nella scissione ebraica, nella coscienza infelice che separa terra e cielo, finito e infinito, il cristianesimo è una delle ragioni più profonde dell’angoscia di vivere che attanaglia gli europei non più “antichi”. Il testo di Celso lo dimostra.

Pilato

Elio Lamia chiede a Ponzio Pilato se si rammenta di un certo Gesù, «jeune thaumaturge galiléen (…) mis en croix pour je ne sais quel crime». La risposta del procuratore è: «Jésus? murmura-t-il, Jésus, de Nazareth? Je ne me rappelle pas». Con queste parole si chiude il racconto di Anatole France Le procurateur de Judée (1902). Pilato vi appare come un uomo giusto, sobrio, incapace di capire gli eccessi e le favole del popolo che gli era stato affidato. La fama del più celebre governatore romano è però affidata a quella di una dottrina per lui incomprensibile, che lo ricorda solo per condannarne l’ignavia.

E invece è sua la parola più pulita e ironica dei Vangeli: «Devo forse aggiungere che in tutto il Nuovo Testamento c’è soltanto un’unica figura degna di essere onorata? Pilato, il governatore romano. Prendere sul serio un affare tra Ebrei -è una cosa di cui non riesce a convincersi. Un ebreo di più o di meno -che importa?…Il nobile sarcasmo di un romano, dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso della parola “verità”, ha arricchito il Nuovo Testamento dell’unica parola che abbia un valore -la quale è la sua critica, persino il suo annullamento: “che cos’è verità?”…» (Nietzsche, L’Anticristo).

I Greci

Les_Grecs

Ai Greci non si “ritorna”, i Greci ci stanno davanti e vivendo da europei è verso di loro che andiamo. Alla Grecia antica dobbiamo la ricerca del senso (filosofia), la misura nel pensare e nell’agire, il coraggio dell’orrore, l’amore per la bellezza, lo sguardo disincantato ma anche amante sulla vita, la differenza, la molteplicità.
Nel mondo omerico come nella metafisica di Aristotele, nelle filosofie arcaiche come in quelle ellenistiche, «il n’ya pas dans le monde grec de revendication d’une vérité absolue et encore moins d’intention d’imposer cette vérité à d’autres» (G. Rachet in Les Grecs?, num. 23 di «Krisis», Paris 2000, p. 35). Il gusto per la differenza emerge specialmente nella concezione greca del divino. Nessun dio geloso, nessuna divinità esclusiva ma la più ampia apertura a una molteplicità di dèi, di culti, di concezioni e di riti. È quindi errato rappresentare la Grecia come un insieme monolitico. Essa è, invece, l’opposto di quella «reduction à l’Unique qui parcourt toute la civilisation chrétienne comme l’expression de sa nature propre» (Ivi, p. 39).
Louis Rougier scrive che «il n’y a pas de sagesse antique plus opposée, plus incompatible avec le christianisme et les deux autres grandes religions méditerranéennes, le judaïsme et l’islamisme, que la Metaphysique du Lycée. Le péripatétisme nie la création, la providence, l’immortalité de l’âme, les sanction d’outre-tombe et, logiquement, le libre arbitre, il rejette comme impensables, contradictoires et absurdes, les dogmes de la Trinité et de l’Incarnation» (Ivi, p. 147). Sembra quasi di sentire gli stessi argomenti e accenti coi quali Friedrich Nietzsche comunica a Franz Overbeck il proprio incontro con Spinoza: «egli nega la libertà del volere-; i fini-; l’ordine morale del mondo-; l’altruismo-; il male» (Epistolario, vol. IV, 1880-1884, Adelphi 2004, p. 106, lettera del 30.7.1881).

Il nastro bianco

(Das Weiße Band)
di Michael Haneke
Austria, Francia, Germania 2009
Con: Christian Fredel (il Maestro), Burghart Klaußner (il Pastore), Susanne Lothar (l’Ostetrica), Ulrich Tukur (il Barone), Rainer Bock (il Medico), Leonie Benesch (Eva)
Fotografia di Christian Berger
Palma d’oro al Festival di Cannes 2009

Das weisse-band

1914. In un villaggio della Germania del Nord si verificano inspiegabili fatti di violenza. Il medico cade da cavallo per un filo invisibile teso tra gli alberi, una contadina muore nella segheria, due bambini -il figlio del barone e quello dell’ostetrica- vengono seviziati, un uomo si suicida, un magazzino è dato alle fiamme. Dentro le case si sfoga una violenza più formale ma altrettanto dura. Specialmente nella famiglia dell’integerrimo pastore domina la violenza del padre verso i figli, i quali la diffondono a loro volta nel villaggio…

Un bianco e nero secco e antico disegna la vicenda corale della mostruosità umana. È lo stesso contesto cristiano protestante dentro cui Nietzsche comprese, con la sua profonda limpidezza interiore, la falsità strumentale delle morali, la ferocia del monoteismo, la perversione delle persone per bene. Costruito come un thriller antropologico, Das Weiße Band descrive l’esistenza quotidiana di una piccola comunità simile a tante, dove anche gli eventi più estremi diventano del tutto plausibili, dove bambini e adulti seguono gli stessi impulsi distruttivi. Bravissimi i giovani interpreti, specialmente nel dialogo in cui la figlia del medico spiega al fratello più piccolo il fatto che tutti debbano morire. È uno dei momenti chiave di un film elegantissimo nelle soluzioni formali e inquietante nella colpa collettiva.


Teognide

Teognide di Megara Nisea, vissuto forse nel VI secolo, è un nome emblematico della Grecità. Nei suoi versi si declinano, compongono, intrecciano alcune delle tematiche fondamentali di quella cultura. L’aidos contro la hybris; la consapevolezza dell’equilibrio fra i beni e i mali che gli dèi inviano agli uomini inducendoli a eccessive speranze e disperazioni, poiché è proprio del migliore tutto saper sopportare, epei esti andros panta pherein agatou (Elegie, 658; sentenza 34); l’incoercibile potere della moira sulle cose, gli eventi, gli umani; la riservatezza, l’autocontrollo, il silenzio sulle proprie inquietudini che caratterizzano l’uomo forte e quindi nobile; e, infine, la suprema sapienza della vita e della morte, quella che ha compreso come «fra tutte non nascere per i mortali è la cosa migliore» (v. 425). Temi che hanno a fondamento una percezione dolorosa ma aristocratica del mondo. Sono le ragioni per le quali Nietzsche ha molto amato Teognide.

Scherza coi santi e lascia stare Nietzsche

«Nietzsche ha dileggiato l’umiltà e l’obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi. Ha messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell’uomo. Orbene, esistono caricature di un’umiltà sbagliata e di una sottomissione sbagliata, che non vogliamo imitare. Ma esiste anche la superbia distruttiva e la presunzione, che disgrègano ogni comunità e finiscono nella violenza». Così Benedetto XVI nella omelia tenuta il 9 aprile scorso.
Nietzsche avrebbe sorriso di un simile giudizio, avrebbe trovato in esso la conferma della disonestà del prete. Ma qui non si tratta di menzogna bensì, più modestamente, di ignoranza. L’omelia dalla quale è tratto il brano -e che invito a leggere per intero- non solo è davvero noiosissima e banale ma dimostra anche che il suo autore ha una conoscenza parziale del significato che Nietzsche dà allo Übermensch, all’oltreuomo. Lungi, infatti, dal sostenere una filosofia iperumanistica e antropocentrica, Nietzsche ritiene che «“l’uomo è qualcosa che deve essere superato” -qui è importante il tempo: i greci degni di ammirazione: senza fretta. I miei predecessori: Eraclito, Empedocle, Spinoza, Goethe» (Frammenti postumi 1884,  25[454]), pensa che ci sia «qualcosa di fondamentalmente erroneo nell’uomo -egli deve essere superato. Tenta!» (Frammenti postumi 1882-1884 parte II, 11[8]». Nietzsche arriva a dire che l’oltreuomo è un «Cesare romano con l’anima di Cristo» (Frammenti postumi 1884, 27 [60]).
L’antropologia nietzscheana si caratterizza non per la presunzione dogmatica e la violenza apostolica delle quali i papisti sono stati nella storia maestri ma per le qualità del pensare, dell’inventar forme, della misura, della complessità, della severità, della riservatezza, dell’appagamento di sé e del distacco. Si tratta di categorie etiche ed esistenziali che il teologo Ratzinger non è in grado di cogliere e tanto meno apprezzare. Non era dunque affatto necessario citare il nome di Nietzsche. Il Papa parli di ciò che vuole ma lasci stare i filosofi. Unicuique suum, come recita la testata dell’Osservatore Romano.

Nelle pieghe del mondo

Il paganesimo è vivo, nascosto ma vivo. Esso pulsa nei documenti antichi, negli inni delle civiltà più diverse, nella dimensione esoterica della dottrina cattolica e in quella popolare dei suoi culti: la Grande Madre, il Dio divorato -Dioniso- che risorge ogni volta dalla propria morte, il pantheon dei santi…Il paganesimo vive nei movimenti e negli individui che hanno ancora rispetto per la Natura e in essa percepiscono la perennità del Sacro. Il paganesimo vive in ogni forma di panteismo del passato e del presente, delle religioni come delle filosofie. Pagana è l’ebrezza di Nietzsche nei suoi euforici giorni torinesi. Pagana è la tensione neoplatonica «verso la vita e verso la luce» (Poimandres, v. 85). Pagana è l’identità fra il Tutto e il Nulla. Pagana è l’accoglienza di tutte le religioni, di tutti gli Dèi, di tutte le fedi, quel sentimento irenico che fa dire a Proclo : «Voi che reggete il timone della saggezza santa / dèi che accendete il fuoco del grande Ritorno (…) Che infine possa vedere io / l’uomo che sono e il dio / immortale in me» (Inno a tutti gli Dèi).

Pagana è la felicità senza ombre di Pan. È la vita nella sua pienezza tragica, nel suo essere qui, ora, senza senso alcuno al di là di se stessa, un essere impersonale e finalmente libero dall’asservimento agli scopi. Pan tiene ancora unita l’identità molteplice del politeismo mentre l’imporsi dei tre grandi monoteismi ha impoverito il mondo della sua strepitosa e costitutiva varietà, ha fatto vincere la coscienza egoica di un soggetto monocorde. Pan è l’unità psicosomatica che siamo. È nel trionfo del corpo che –nonostante il grido riferito da Plutarco che pose fine al mondo antico- Pan è vivo e sempre lo rimarrà. Sempre, finché un corpo umano e animale pulserà del desiderio di vita e del suo terrore.

Pagana è la consapevolezza della necessità che domina su ogni cosa, compresi gli Dèi, espressa in forma perfetta nelle Moire che intrecciano «con gesti di diamante le infinite / trame degli eventi a cui non si sfugge / Aisa, Kloto e Lachesis, / figlie della Notte» (Simonide, Alle dee del destino, vv. 2-3). Pagana è soprattutto la Luce, il sentimento solare di una vita insensata, eterna e sacra. La filosofia nasce in Grecia da questo sostrato luminoso e ctonio, nasce come unione inseparabile di teologia, antropologia, cosmologia, nasce come comprensione del posto che spetta all’umano nel mondo. Molto diversi dal Dio biblico e coranico, gli Dèi pagani non provano alcuna gelosia verso altre divinità, non pretendono una conversione totale ed esclusiva poiché gli umani non potrebbero mai allontanarsi, anche se lo volessero, dalla sacralità naturale e profonda da cui sorgono e che gli Dèi rappresentano in forme antropomorfiche. I pensatori greci arcaici (i “presocratici”) costituiscono le superstiti ramificazioni della foresta del mito, della sacralità animistica, del panteismo originario di ogni cultura umana.

Il Divino è perfezione immutabile e felice, espressa nella politeistica unità dei dodici Dèi del pantheon ellenico. «Gli dèi che fanno il mondo sono Zeus, Poseidone e Efesto; lo animano Demetra, Era e Artemis; Apollo, Afrodite e Hermes lo accordano; mentre Hestia, Atena e Ares stanno a guardia» (Salustio, Sugli dèi e il mondo, 6, 3, 1-6). Sono essenze di un mondo imperituro e ingenerato. Il divino di nulla ha bisogno e da niente può essere scalfito. Culti, sacrifici e preghiere hanno quindi senso solo dal punto di vista umano ed è agli uomini che servono. Tale fiducia offre agli esseri umani non la hybris di paradisi oltremondani ma la felicità della comprensione del qui e dell’ora nell’unità dell’eterno. È il presente, non il futuro, il tempo del paganesimo.

Ananke non proviene dall’esterno, non è la costrizione di un ordine ricevuto da altri umani. Ananke è la necessità che nasce da noi stessi, dal carattere, dalla natura, dall’insieme sottile e potente dei pensieri del corpo. Di tale natura è segno supremo l’ambiguità di Atena, la quale porta sul petto la Gorgone, orrenda immagine della Necessità. Il paganesimo accetta il terribile delle nostre nature, senza attribuirne le dinamiche interiori e collettive alla sola malattia. Il paganesimo sottrae l’umano alla patologizzazione delle morali monoteistiche per cogliere il tratto di gentilezza e di misericordia –e non solo di ferocia e di indifferenza- che intesse la vita del mito.

Il pullulare di movimenti religiosi settari, la grande diffusione dell’astrologia e delle varie forme di  esoterismo in una società disincantata, economicistica e ipertecnicizzata, confermano ancora una volta che senza una spiegazione altra rispetto al semplicemente visibile gli esseri umani non riescono proprio a vivere. In effetti, ogni dichiarazione di morte del Divino mostra di essere un po’ troppo prematura. Il Sacro è una categoria che va ben al di là del religioso. Esso comprende la Natura e il suo ordine, la Società e la sua potenza, gli Umani e il loro senso. Nei politeismi pagani non ha senso contrapporre naturale e soprannaturale poiché la molteplicità degli Dèi si coniuga alla unità monistica del cosmo, nella quale convergono identità e differenza, singolarità e pluralità, maschio e femmina, vita e morte, senso e significato, somatico e psichico.

Il paganesimo costituisce, nella varietà delle sue espressioni storiche che vanno dall’Oriente e dal Mediterraneo antichi sino ai politeismi polinesiani e africani, una forma nella quale l’umano esplica la propria tensione verso l’intero, prima di ogni dualismo e oltre ogni speranza. La sua logica non chiede rinuncia o ascesi, non perviene agli estremi di un impossibile amore universale –pronto naturalmente a capovolgersi in ipocrisia e in guerra- ma fa delle relazioni umane il luogo naturale di un conflitto non mortale, preparato sempre alla mediazione della prestazione e del possesso. Il paganesimo è meno di una religione perché non possiede dogmatiche, caste sacerdotali e aspirazioni alla trascendenza. Ed è più di una religione poiché costituisce un integrale stile di esistenza radicato nella corporeità gloriosa delle statue e degli idoli, nella ricchezza delle relazioni e dei conflitti, nella benedizione del tempo. Di questo tempo e non dell’eterno. Il paganesimo offre la serenità dell’inevitabile e relativizza le pretese di assoluto. La grandezza del paganesimo sta nel sapere e non nello sperare. Anche per questo una rappresentazione adeguata del divino pagano sono i kouroi, il loro enigmatico sorriso.

Non si tratta di reinventare improbabili culti neo-pagani o di indugiare in un paganesimo estetico e letterario; si tratta di comprendere le ragioni per le quali ancora oggi l’Europa non può non dirsi pagana e da questa comprensione far discendere delle coordinate esistenziali differenti, davvero nuove perché radicate in una identità ancora viva. Allo storicismo, alla temporalità lineare e irreversibile che postula un significato intrinseco della storia -intrinseco poiché radicato nella volontà dell’unico Dio- va opposta la consapevolezza (anche cosmologica) che non si dà alcun inizio assoluto del tempo e ogni passato è ancora da venire. Il divino non abita nel totalmente Altro, al di là e al di fuori della natura, delle cose, del mondo. Dio si dispiega qui e ora.

La contraddizione sta in ogni società, individuo, esperienza; la differenza significa ricchezza, confronto, arricchimento reciproco; la vita stessa è molteplicità di forme, obiettivi, strutture. Sensibile alla dissonanza, il paganesimo è l’opposto dell’evangelico «tutti siano uno» (Gv., 17, 11-23). Il precetto dell’unità giustifica ogni inquisizione ed è una delle radici dei moderni totalitarismi, i quali hanno  tentato di rendere una l’umanità a partire da un principio fortissimo, esclusivo, salvifico, che fosse la razza, la classe o il libero commercio.

Abitare il Tempo in forma pienamente sacrale significa farlo nei modi di un vivere familiare, iniziale, straordinario eppur misurato. Di questo soggiornare, la filosofia è la forma suprema. Non c’è stata caduta ma il limite fa da sempre parte dell’essere, non esiste colpa se non quella di esistere. Non ci sono peccati al di fuori dell’ignoranza «di chi eravamo, di che cosa siamo diventati, di dove eravamo, di dove siamo stati gettati, del luogo verso cui tendiamo, di che cosa possa liberarci, di che cosa sia davvero stato la nascita, di come possiamo riscattarla e finalmente rinascere» (Excerpta ex Theodoto, 78). La conoscenza di tutto questo è la Filosofia. Non una fede o un procedimento soltanto logico ma un sapere intuitivo della condizione umana e cosmica;  non una teologia ma un’esperienza completa, sofferta e gloriosa dello stare al mondo; non un ripetere formule altrui ma il ripercorrere da sé il cammino di ogni ente dalla Pienezza al Limite.

L’umanità è intrisa di Luce dionisiaca e di titanica cecità. L’umanità è una goccia del Sacro annegata nel mare dell’ignoranza. Lo scopo vero dell’esistenza, quello per il quale merita esserci, consiste nel conoscere questa nostra natura, nel riconoscerla, nella immensa serenità che tale sapere offre. La comprensione intellettuale non è mai -se è davvero comprensione- separata dai gesti e dal corpo. Il Corpo è sacro. I corpi degli Dèi che gli umani hanno bisogno di sentire accanto a sé, impressi nel marmo e nel bronzo. Le chiese cristiane sono davvero povere e malinconiche. Esse sostituiscono al tripudio della carne il gusto del soffrire, alla gloria di Zeus quella di un condannato a morte, sostituiscono ad Afrodite -la divinità che solleva la propria veste in un gesto di divertita conquista- la paura del corpo. Ma il bisogno della Bellezza Sacra permane, aere perennius, e con esso quella degli Dèi. Morto il Dio monoteistico (ebraico, cristiano, islamico), vive il Divino molteplice, panteistico, enoteistico.

Nelle pieghe del mondo. È lì che gli Dèi si sono nascosti ma è nello spazio sacro, nel loro tempo eterno, che abitano ancora. «Ταῦτα δὲ ἐγένετο μὲν οὐδέποτε, ἔστι δὲ ἀεί·»  (Salustio, 4, 8, 26), queste cose mai avvennero e sempre sono.

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