Skip to content


Pina

Pina
di Wim Wenders
Germania, 2011
Trailer del film

«Ich würde nur an einen Gott glauben, der zu tanzen verstünde» (“Potrei credere solo a un Dio che sapesse danzare”, Così parlò Zarathustra, Libro primo, “Del leggere e dello scrivere”). Facile citazione, quando ci si riferisce a Pina Bausch (1940-2009). Ma citazione necessaria. La sua opera è il sacro che diventa movimento, è la grande malinconia della vita che si fa danza. È una bellezza pura, silenziosa, ma nella quale il corpo disegna parole, si fa linguaggio. C’è molta solitudine nella coreografia di Pina Bausch. Il corpo prende se stesso, afferra i propri arti e li sposta di qua e di là, si accarezza, si stringe. E poi cerca, disperatamente, un contatto con gli altri corpi. L’incontro avviene in una stupefacente leggerezza, come se l’aria abbracciasse se stessa. E sedie, prati, luoghi partecipano a questa danza che il corpomente scolpisce nello spazio, come un arabesco della memoria e dell’attesa.
A questo movimento Wim Wenders ha offerto la propria meditazione cinematografica, facendo parlare gli artisti che hanno interpretato i lavori di Pina, che l’hanno amata e perduta. E facendo parlare soprattutto i loro magnifici corpi d’aria e di canto. Un sorriso compare alla fine. Sorriso dionisiaco e calmo.

Il passato che non si vuole fare passare

Il debito
di John Madden
(The Debt)
Con: Helen Mirren (Rachel Singer), Jessica Chastain (Rachel da giovane), Jesper Christensen (Dieter Vogel), Ciarán Hids (David), Sam Worthington (David da giovane), Tom Wilkinson (Stephan), Marton Csokas (Stephan da giovane)
Usa, 2010
Trailer del film

Nel 1966 a Berlino Est tre agenti del Mossad (il servizio segreto israeliano) rapiscono e catturano Dieter Vogel (“il medico di Birkenau”) allo scopo di condurlo a Gerusalemme e sottoporlo a processo. Qualcosa però va storto e i tre rimangono imprigionati insieme al criminale nazionalsocialista in un appartamento berlinese, dove Vogel si mostra assai più abile di quanto avessero immaginato. Decenni dopo, la verità ufficiale che li ha resi eroi si scontra con una verità diversa. E la lotta sembra non finire, intrecciandosi ai rapporti affettivi mai sopiti tra la ragazza e i due uomini, adesso tutti maturi sessantenni.
Si tratta del remake di Ha-Hov di Assaf Bernstein (Israele, 2007), una Spy Story piuttosto improbabile, il cui elemento migliore sono le scene d’azione, appunto. L’andare e venire tra il passato di Berlino e il presente di Tel Aviv rimane meccanico nel rendere il peso della memoria e di una menzogna prolungata nel tempo. E alla fine si ha la sensazione di un’apologia del feroce servizio segreto israeliano. Un libro di Ernst Nolte criticava sin dal titolo il pietrificarsi del passato –Germania: un passato che non passa (Einaudi 1987)- ritenendolo un’assurdità storiografica e metafisica. Nietzsche ha difeso con molti argomenti la necessità del dimenticare per vivere ancora. Due grandi accordi di pace come l’Editto di Nantes (1598) e il Trattato di Vestfalia (1648) prevedevano delle esplicite “clausole d’oblio”. Esattamente l’opposto delle troppe “giornate della memoria”, uno dei cui effetti è mantenere vivo il rancore, la violenza, l’odio. Forse è bene che anche al cinema, che se ne è occupato in una miriade di modi, quel passato ebraico lasci il posto ad altri stermini, più recenti e non meno atroci.

Impazzire di gioia

Impazzire di gioia. Su Nietzsche e i suoi Wahnbriefe
in Studia humanitatis. Saggi in onore di Roberto Osculati
A cura di Arianna Rotondo
Viella, Roma 2011
Pagine 465-474

 

Ho partecipato con convinzione a questo volume di saggi in onore di uno dei più importanti, preparati e amati studiosi della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Catania. Ringrazio Arianna Rotondo che mi ha permesso di pubblicare un testo nel quale ho tradotto in italiano alcuni «biglietti della follia» non ancora apparsi nell’edizione completa dell’epistolario nietzscheano Adelphi.

De vero arbitrio

La libertà del volere umano
di Arthur Schopenhauer
(Über die Freiheit des menschlichen Willens, 1838)
Traduzione di Ervino Pocar
Laterza, 19882 (1981)
Pagine 152

Inserendosi esplicitamente nella linea che va da Lutero a Hobbes, da Vanini a Hume, da Priestley a Voltaire e soprattutto a Spinoza, Schopenhauer offre una risposta coerente e profonda al problema della libertà del volere.
L’esperienza quotidiana e l’autoscoscienza ci dicono, certo, che noi possiamo fare ciò che vogliamo ma la questione è un’altra: posso anche volere ciò che voglio? Non si cerca la libertà del fare, che è evidente, ma quella del volere. Possediamo la prima forma di libertà (l’actus imperatus) ma non la seconda (l’actus elicitus). Questo è il senso della distinzione spinoziana fra libertà e costrizione: chiamiamo libere quelle azioni che non sono ordinate da una potenza esterna ma vengono imposte dalla natura stessa dell’agente. Azioni che tuttavia rimangono in ogni caso determinate.
Ritenere la volontà un prius senza fondamento è ragionare sul nulla, addirittura sull’impensabile. In realtà, ogni volere e quindi ogni azione si fondano su due elementi: il carattere perenne e la motivazione occasionale. Insieme, essi producono la ferrea necessità dell’agire umano.

Come una palla di bigliardo non può mettersi in moto prima di aver ricevuto un urto, nemmeno l’uomo può alzarsi dalla seggiola prima che un motivo lo attiri o lo spinga: allora però il suo alzarsi è necessario e immancabile come il rotolare della palla dopo l’urto. E aspettarsi che uno faccia qualcosa alla quale non lo inviti alcun interesse è come attendersi che un pezzo di legno si muova verso di me senza che ci sia una fune a tirarlo (p. 89).

La differente risposta alla miriade di sollecitazioni e di motivi che l’esperienza offre dipende dalla diversità delle nature umane. Il carattere di ciascuno è, infatti, individuale, empirico (e quindi conoscibile solo con l’esperienza), costante nel tempo, innato: «data un’educazione e un ambiente perfettamente uguali, due bambini rivelano chiaramente caratteri del tutto diversi» (98). Il carattere rappresenta la generale modalità dell’agire, il motivo è la singola causa scatenante. La verità è che operari sequitur esse ergo unde esse, inde operari (118). Non c’è spazio per rimorsi e rimpianti, anche le circostanze apparentemente più casuali sono il frutto di un’infinita serie di concatenazioni. Allorché una di esse incontra un determinato carattere, scaturisce immancabile la scelta, quella scelta e nessun’altra. «Dobbiamo considerare gli avvenimenti con gli stessi occhi coi quali consideriamo lo stampato che leggiamo, ben sapendo che c’era prima che lo leggessimo» (107).
L’accettazione di questa verità è per Schopenhauer la pietra di paragone che permette di distinguere le menti filosofiche dalle altre. Esattamente come per Spinoza e per Nietzsche. Per essi sapere che «tutto ciò che avviene dal fatto più grande al più piccolo avviene necessariamente. Quidquid fit necessario fit» (106) è la premessa della più solida tranquillità.
Tuttavia Schopenhauer lascia un ampio spazio all’agire dell’uomo. Il suo determinismo -come quello, ancora una volta, di Spinoza e di Nietzsche- non ha nulla di fatalistico, passivo, amorfo. Se il carattere è di fatto immodificabile -tanto da spiegare il sistematico fallimento di tutti i moralismi-, c’è un ambito in cui il miglioramento è possibile: esso è la conoscenza. Emerge qui tutto il socratismo di Schopenhauer:

Il carattere è immutabile, i motivi agiscono con necessità, ma devono passare attraverso la conoscenza che è l’intermediaria dei motivi. Essa però ha la capacità di allargarsi nel modo più vario, di rettificarsi continuamente per gradi innumerevoli, e a questo mira ogni educazione. Il perfezionamento della ragione mediante ogni sorta di nozioni e intuizioni diventa moralmente importante in quanto apre l’accesso a motivi dai quali senza di essa l’uomo rimarrebbe precluso (97).

Aiutandoci a capire, Schopenhauer ha allargato lo spazio della nostra libertà. L’operari è necessario ma l’esse è libero perché avrebbe potuto essere diverso: «Tutto dipende da ciò che uno è; ciò che fa risulterà poi da sé come corollario necessario» (146).

La Rochefoucauld, o della saggezza

Massime.
Riflessioni varie e autoritratto
(1665)
(Reflexions ou sentences et maximes morales)
di François de La Rochefoucauld
Rizzoli 1978
Pagine 464

I moralisti francesi sono quanto di più disincantato, e dunque probabilmente quanto di più saggio, abbia prodotto la cultura europea dell’Ancien Régime. La Rochefoucauld condivide con Montaigne la limpida padronanza dello stile, la chiarezza di concetti senza veli, la profondità dello sguardo gettato sull’umano. In più, come giustamente osserva Macchia, possiede la precisione e la sobrietà geometrica con cui il suo secolo guardava il mondo. E dunque gli aforismi di La Rochefoucauld si articolano in una molteplicità di direzioni e risultati a partire comunque da un nucleo ben preciso: l’amour-propre.
È l’egoismo la vera spiegazione della vita. Quella idolatria del sé che rende gli uomini tiranni di altri uomini se le circostanze glielo consentono; esso è infaticabile nel porsi sempre al centro e nel posarsi sugli altri solo «comme les abeilles sur les fleurs, pour en tirer ce qui lui est propre» (“come le api sui fiori, per trarne ciò che loro serve”, p. 258) [le traduzioni sono mie]). È l’egoismo che rende la ragione umana più debole della volontà, che ci subordina alla forza delle passioni, la cui durata non dipende da noi più di quanto ne dipenda la vita e che zampillano dal cuore dell’uomo in modo che solo una nuova passione può scacciarne una antica. È l’egoismo che fa della più grande fra le passioni -l’amore- una forma di guerra mortale fra i sessi, più simile all’odio che all’amicizia, secondo un’intuizione che Nietzsche e Strindberg faranno propria: «Il n’y a point de passion où l’amour de soi-meme regne si puissement que dans l’amour; et on est toujours plus disposé à sacrifier le repos de ce qu’on aime qu’à perdre le sien» (“non c’è passione dove l’amore di sé domina così potentemente come nell’amore; e si è sempre più disposti a sacrificare la tranquillità di chi si ama che a perdere la propria”, af. 262, p.172). Non soltanto sull’amore i debiti di Nietzsche verso La Rochefoucauld sono evidenti; la distinzione fra cattiveria e malvagità sulla quale si impernia la Genealogia della morale ha qui una sua formulazione già radicale: «Nul ne mérite d’etre loué de bonté, s’il n’a pas la force d’etre méchant: toute autre bonté n’est le plus souvent qu’une paresse ou une impuissance de la volonté» (“Nessuno merita di venir lodato come buono, se non possiede la forza d’esser cattivo: ogni altra forma di bontà non è il più delle volte che pigrizia o impotenza della volontà” af. 237, p.164). Anche della compassione La Rochefoucauld sostiene -al pari di Nietzsche- che bisogna guardarsi dal provarla. È sempre la forza dell’egoismo che rende agli occhi di La Rochefoucauld poco sensata la pretesa stoica di non dar peso alla morte, vale a dire a ciò che necessariamente distrugge il sé. E tuttavia nell’Autoritratto leggiamo: «Je ne crains guère de choses, et ne crains aucunement la mort» (“Temo poche cose, e non temo in alcun modo la morte”, p. 442). Tornando al tema dell’amore, s’affaccia alla memoria del lettore delle Massime il nome di Proust. E in particolare il racconto L’Indifférent con la sua folgorante intuizione del «Si je ne t’aime pas, tu m’aime» (Einaudi 1978, p. 30). Principio che sta naturalmente alla base della Recherche e che La Rochefoucauld così formula: «N’aimer guère en amour est un moyen assuré pour etre aimé» (“In amore non amare troppo è un mezzo certo per essere amati”, p. 282). Formulazione, come si vede, chiarissima a cui se ne potrebbero aggiungere altre sulla facilità con cui ci si illude d’essere amati quando si ama (p. 312) o sulla gelosia il cui tormento sta tutto nella «incertitude éternelle» (“eterna incertezza”, p. 346) o infine, e sopratutto, sulla relatività prospettivistica che rende così precario questo potente sentimento: «Quelles personnes auraient commencé de s’aimer, si elles s’étaient vues d’abord comme on se voit dans la suite des années? Mais quelles personnes aussi se pourraient séparer, si elles se revoyaient comme on s’est vu la première fois?» (“Quali persone avrebbero cominciato ad amarsi se si fossero viste all’inizio come ci si vede nel passare degli anni? Ma quali persone allo stesso modo si potrebbero separare, se si rivedessero come ci si vide la prima volta?”, p. 390). La Rochefoucauld si muove, in questa selva di temi che è l’esistere dell’uomo, fra sarcasmo, scetticismo e severa moralità. Il sarcasmo che lo induce a notare -in uno splendido, folgorante aforisma- come «nous avons tous assez de force pour supporter les maux d’autrui» (“tutti abbiamo forza sufficiente per sopportare i mali altrui”, af.19, p. 88); lo scetticismo di chi sa che il sapere e la vita sono fatti di una miriade di dettagli, la mancata- perché impossibile- consapevolezza dei quali rende la nostra conoscenza «toujours superficielle et imparfaite» (“sempre superficale e imperfetta”, af.106, p. 118), è questa la vera malinconia -sentimento che l’autore ammette di nutrire- dell’uomo di genio; la moralità di chi ritiene che in ogni caso, al di là dei risultati, del successo o del fallimento, ciò che conta e che discrimina gli uomini e le azioni sia «le dessein», l’intenzione che sta alla loro base. È per questo, per la dimensione interiore del “progetto” di un uomo, che anche La Rochefoucauld invita a ritornare in se stessi, l’unico luogo di una pace possibile, pur se precaria.

Vai alla barra degli strumenti