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Callas / Dioniso

La presentazione del volume Mille e una Callas nel Foyer del Teatro Bellini di Catania è stata un’occasione di confronto e di arricchimento al di là dei confini disciplinari.
Metto qui a disposizione la registrazione audio del mio intervento, che si può anche ascoltare e scaricare da Dropbox: Biuso_Callas_13.5.2017.
La durata è di 13 minuti circa.

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2017/05/Biuso_Callas_Catania_13.5.2017.mp3]

Augenblick

Der Augenblick
Zeit und ästhetische Erfahrung bei Kant, Hegel, Nietzsche und Heidegger mit einem Exkurs zu Proust
di Günter Wohlfart
Verlag Karl Alber
Freiburg/München 1982
Pagine 182

In queste lezioni Günter Wohlfart espone una concezione/interpretazione estetico-linguistica della temporalità, nel duplice senso per cui l’arte nasce dal tentativo di comprendere il tempo e il tempo si compie nell’istante in cui accade l’esperienza del bello («Augenblick der Erfahrung des Schönen», p. 16).
I dispositivi concettuali attraverso i quali si tenta di cogliere tale dinamica in Kant, Hegel, Nietzsche, Heidegger e Proust sono l’unità delle forme temporali (passato, presente e futuro) e l’ἐξαίφνης, l’improvvisa comprensione del tempo nella mente. Ciò fa del tempo una vera e propria epifania, un’esperienza di claritas della mente. Questo è il Kαιρός la pienezza del tempo. Pienezza che traluce, senza però ancora esserlo, nel Kρόνος e nell’Aἰών.
Come somma di ‘ora’ che si aggiungono all’ ‘ora’ e poi a un altro ora, il tempo è per Hegel cattiva infinità, è «das Schicksal des in sich nicht vollendeten Geistes» (il destino dello spirito incompiuto, 67), è tempo astratto perché è astratto presente che non coglie mai se stesso in una pienezza che non rinvii sempre ad altro. Il tempo concreto è invece la vera infinità dell’ora che è ora è basta, dell’Io che è uguale a se stesso «im Sinne der absoluten Vernunftidentität» (nel senso dell’assoluta identità della Ragione, 89). In tale identità razionale dell’Io con se stesso si dà, si comprende e si esplica per Hegel il presente come καιρός, «‘das Jetzt ohne Vor und Nach’, das alle Unterschiede der Zeit in sich enthält» (il presente, l’istante-ora senza un prima e un poi, che in sé contiene tutte le differenze temporali, 69)
La parola che in Nietzsche dice καιρός è amor fati, la formula più alta della benedizione, nella quale si coniugano secondo Wohlfart il dionisiaco e l’eterno ritorno dell’identico, il dionisiaco come eterno ritorno. L’arte è quindi il tessuto della temporalità nietzscheana come temporalità del ritorno. In essa «der Augenblick der ewigen Wiederkehr ist der Augenblick der ästhetischen Epiphanie des Dionysos. […] Der Augenblick, in dem die Welt vollkommen wird, ist der Augenblick, in dem die Welt als ästhetisches Phänomen erfahren wird» (l’istante dell’eterno ritorno è l’istante dell’epifania estetica di Dioniso […] L’istante in cui il mondo è perfetto è l’istante nel quale il mondo è vissuto/esperito come fenomeno estetico, 107).
L’unità metafisica ed estetica del tempo diventa unità estatica in Sein und Zeit. Unità che Heidegger chiama Zeitlichkeit, temporalità. Avvenire, essente stato e presente non sono coniugati a posteriori in una mente o in una qualche interpretazione ma «sind gleich ursprünglich» (sono già in se stessi originari, 117). Tale unità originaria rappresenta «ein Schwerpunkt der Fundamentalontologie» (un nucleo dell’ontologia fondamentale, 123). Ontologia che in Heidegger è costitutivamente linguistica poiché si dà mondo / comprensione del mondo soltanto nel e attraverso il linguaggio, che è linguaggio del tempo nel duplice senso del genitivo: linguaggio che nel tempo accade, linguaggio nel quale il tempo parla.
Nell’Augenblick/Kαιρός «die eigentliche Zukunft heißt Vorlaufen […] Die eigentliche Gewesenheit heißt Wiederholung […] Die eigentliche Gegenwart heißt Augenblick» (il futuro autentico è precorrimento […]. L’autentico essente stato è ripetizione […] Il presente autentico è l’istante-ora, 118-120).
È in Proust che tutto questo acquista la vividezza del tempo/parola, è in Proust che l’esperienza della bellezza diventa «die Erfahrung der höchsten Aufgabe des Lebens» (l’esperienza del più alto compito della vita, 163). La memoria del corpo, la memoria involontaria, la memoria che d’improvviso (plötzlich, ἐξαίφνης) fa rinascere mondi da tazze di te, da campanili, da pavimenti sconnessi è la Mnemosyne divina, madre delle Muse e madre del linguaggio. L’opera proustiana fa splendere la parola nel tempo e il tempo nella parola.
Nel linguaggio -specialmente in quello artistico e poetico ma non soltanto in esso- l’umano dà ordine al mondo come successione di eventi. In questa unità estetica ed estatica del tempo si compie l’esistenza umana, il suo senso, il senso del morire: «Der Sinn des Daseins erfüllt sich in dem Augenblick, in dem sich die Zeit erfüllt. Es ist der Augenblick der Liebe, der der Tod gleich ist» (Il senso del vivere si compie nell’istante in cui a compiersi è il tempo. È l’istante dell’amore, identico al morire, 174). Con queste parole si chiude un percorso coerente e fascinoso dentro l’enigma della temporalità.

Gnosi

The Turin Horse
(A torinói ló)
di Béla Tarr e Ágnes Hranitzky
Ungheria, Francia, Svizzera, Germania, USA, 2011
Con: János Derzsi (Ohlsdorfer, il vetturino), Erika Bók (la figlia di Ohlsdorfer), Mihály Kormos (Bernhard,  il conoscente), Ricsi (il cavallo)
Musica di Mihály Vig
Trailer del film

«La verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli e in immagini. Non la si può afferrare in altro modo»
(Vangelo di Filippo, 67, 10)

«Del cavallo si sono perse le tracce» è detto nel prologo. Il cavallo è quello che Nietzsche avrebbe abbracciato il 3 gennaio 1889 a Torino. Un episodio probabilmente spurio, ma questo non ha importanza. Il cavallo ritorna con il suo padrone a casa, dove li attende la figlia. La campagna, brulla e affaticata, è battuta da un vento che mai posa nei sei giorni in cui si dipana il racconto. Padre e figlia ripetono i gesti della terra e della miseria. Vivono nel silenzio e in una luce d’argento che illumina e ferisce. La prima sera il padre nota che dopo tanti anni non si sentono più i tarli. Il giorno dopo Ricsi, il cavallo, si rifiuta di incamminarsi verso la città. Città che forse non esiste più, come racconta Bernhard -un amico venuto a comprare liquori- in un monologo colmo di tragedia, di energia, di accuse nei confronti di un dio incapace e complice del male, nei confronti dell’arconte la cui «creazione è la cosa più orribile che si possa immaginare», nei confronti degli umani la cui lotta «è subdola e meschina», tanto che «tutto quello che toccano, e loro toccano tutto, viene avvelenato. […] Va avanti così da secoli. Sempre così. Sempre e solo questo». Passa un carro con degli zingari, che attingono al pozzo e regalano alla figlia un libro sacro. Ricsi si rifiuta di mangiare. Il pozzo si prosciuga. Il vento continua, come la luce. Sino a che al sesto giorno d’improvviso cessa. Insieme al vento si spegne la luce nel cielo, nelle lampade, nelle braci. «Che cosa sta succedendo, papà? Non lo so». Ombre distinguibili a fatica. Una lampada arde ancora. Poi il buio.
Il cavallo di Torino ha la sapienza di un mito gnostico e la potenza di un affresco medioevale. Nessuna immagine è gratuita o superflua. Lo spazio/ambiente si amplia a poco a poco illuminando gli angoli. Le ore scorrono nella ripetizione. Davanti alla finestra padre e figlia osservano l’esterno e reclinano i significati. Dappertutto fluisce la dissoluzione. Il vento è sentito in ogni trama: regolare, furente, senza posa. Un vento che è magnifica e luttuosa metafora del tempo che tutto intride, penetra, vince, disgrega, in un contrappunto incessante di tenebra e di luce.
Questo film disegna la condizione umana, il suo modo e il suo andare, il suo tramontare per i singoli e per l’intero. Una condizione che secondo il Vangelo di Filippo è simile a quella dell’asino che girando intorno a una mola, «fece cento miglia; quando fu sciolto, si trovò ancora allo stesso posto. Certi uomini camminano molto, ma non arrivano mai da nessuna parte; quando per loro giunge la sera non vedono né città né villaggio né creazione né natura né forza né angelo. Miserabili, hanno sofferto invano»1.
The Turin Horse sembra intuire «quel mistero che sa perché sono sorte le tenebre, e perché è sorta la luce»2. In questo film si dispiega dunque la conoscenza gnostica, la quale «ora avendo il dominio osserva la luce, / ora precipitata nelle miserie piange […] Ora nasce / e infelice non avendo scampo dai mali / vagando entra nel labirinto. […] Cerca di fuggire il caos amaro / e non sa dove passare. / Per lei mandami, Padre della Luce: / avendo i sigilli scenderò, / traverserò distese infinite di tempo / rivelerò gli enigmi / mostrerò le figure degli dèi. / L’arcano del cammino sacro, / chiamandolo gnosi, rivelerò»3.
Lo splendido bianco e nero dell’opera e la sua lentezza non possono essere apprezzati in televisione o su un computer. Il grande schermo della Cineteca Italiana/Spazio Oberdan di Milano ha invece permesso di immergersi nella sua struttura gnostica.
La musica di Mihály Vig pervade il film e ne scandisce l’Aδράστεια, l’Inevitabile.

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2017/05/Vig_Turin_Horse.mp3]

Note

1 Trad. di Luigi Moraldi, 63, 10.2, in I Vangeli gnostici, Adelphi 1991, p. 58.

Pistis Sophia, a cura di Luigi Moraldi, Adelphi 1999, II, 91, 10, p. 177.

3 Salmo dei Naasseni sulla ψυχή, in Ippolito, Confutazione V 10, 2, in Testi gnostici in lingua greca a latina, a cura di Manlio Simonetti, Fondazione Valla / Arnoldo Mondadori Editore 1993, pp. 85-87 (con modifiche nella traduzione).

Il Grande Altro

26 aprile 2017 –  Teatro Massimo Bellini – Catania
Ætna String Quartet
Marcello Spina / violino; Alessio Nicosia / violino; Gaetano Adorno / viola; Alessandro Longo / violoncello

Programma
Wolfgang Amadeus Mozart
Quartetto per archi in Do maggiore Kv. 157
Aleksandr Porfir’evic Borodin
Quartetto per archi in re maggiore n. 2
Antonin Dvorak
Quartetto per archi in Fa maggiore n. 12 op 96 «L’Americano»

La vitalità di un teatro -pubblico o privato che sia- si misura anche con il coraggio. Il coraggio di proporre percorsi un po’ meno ovvi, di non puntare sul sicuro ma di educare oltre che intrattenere il pubblico. Il Teatro Massimo Bellini di Catania a volte lo fa, altre no. Si ha il timore che un repertorio meno conosciuto allontani i cittadini dalla fruizione della musica. Quanto interessante sarebbe, invece, ascoltare più spesso musica della seconda metà del Novecento e del XXI secolo.
I compositori in programma per la piacevolissima serata del 26 aprile sono nomi grandi e sicuri. I brani sono stati ben eseguiti dall’Ætna String Quartet ma il repertorio non è tra i miei preferiti. Propongo quindi l’ascolto di un Mozart certamente anch’esso assai conosciuto ma sempre emozionante, quello nel quale il Grande Altro della morale ascetica si scontra con l’emblema della trasgressione e del piacere.
Don Giovanni viene stritolato dalla Statua del Grande Altro -non può essere altrimenti- e tuttavia non si è piegato alla sua miseria. E dunque ha vinto. Perché c’è stato un momento nel quale ha potuto dire a se stesso: «Sono felice». Cosa che al Grande Altro non accade mai.
«Questa è mediocrità [Mittelmäßigkeit]: sebbene venga chiamata moderazione [Mäßigkeit]» (Così parlò Zarathustra, III, ‘Della virtù che rende meschini’).

Don Giovanni a cenar teco

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Da qual tremore insolito

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2017/04/Don-Giovanni_Da_qual-tremore.mp3]

Don Giovanni: Ruggero Raimondi; Il Commendatore: John Macurdy; Leporello: José van Dam (Orchestra e coro dell’Opera di Parigi, diretta da Lorin Maazel)

La Statua del Commendatore
Don Giovanni, a cenar teco / M’invitasti e son venuto!
Don Giovanni
Non l’avrei giammai creduto; / Ma farò quel che potrò. / Leporello, un’ altra cena / Fa che subito si porti!
Leporello (facendo capolino di sotto alla tavola)
Ah padron! Siam tutti morti.
Don Giovanni (tirandolo fuori)
Vanne dico!
La Statua (a Leporello che è in atto di parlare)
Ferma un po’! / Non si pasce di cibo mortale / chi si pasce di cibo celeste; / Altra cure più gravi di queste, / Altra brama quaggiù mi guidò!
[…]
La Statua
Verrai?
Leporello (a Don Giovanni)
Dite di no!
Don Giovanni
Ho fermo il cuore in petto
Non ho timor verrò!
La Statua
Dammi la mano in pegno!
Don Giovanni (porgendogli la mano)
Eccola! Ohimé!
La Statua
Cos’hai?
Don Giovanni
Che gelo è questo mai?
La Statua
Pentiti, cangia vita / È l’ultimo momento!
Don Giovanni (vuol sciogliersi, ma invano)
No, no, ch’io non mi pento, / Vanne lontan da me!
La Statua
Pentiti, scellerato!
Don Giovanni
No, vecchio infatuato!
La Statua
Pentiti!
Don Giovanni
No!
La Statua
Sì!
Don Giovanni
No!

Lezioni 2017

Lunedì 13 marzo avranno inizio le lezioni dei tre corsi che svolgerò nel 2017 nel Dipartimento di Scienze umanistiche di Unict.
Riassumo qui i loro titoli e i testi che analizzeremo. Lo faccio per comodità degli studenti e per informazione di quanti vorranno assistervi. Una delle caratteristiche più belle e democratiche dell’Università italiana (altrove non funziona così) è infatti che tutti i cittadini possono partecipare alle lezioni, che l’accesso è gratuito, che non è necessario mostrare iscrizioni, tessere, autorizzazioni.
Chiunque vorrà parlare di filosofia e di altro sarà il benvenuto.

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FILOSOFIA TEORETICA
(Corso triennale di Filosofia – aule e orario delle lezioni)
TEORIA GENERALE DEL TEMPO COME IDENTITÀ E DIFFERENZA

Antonio Cimino, Ontologia, storia, temporalità. Heidegger, Platone e l’essenza della filosofia, Edizioni Ets 2005
Platone, Sofista (qualunque edizione con testo greco a fronte)
Martin Heidegger, Il ‘Sofista’ di Platone, Adelphi 2013, §§ 33-80
Alberto Giovanni Biuso, Aión. Teoria generale del tempo, Villaggio Maori Edizioni 2016

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SOCIOLOGIA DELLA CULTURA
(Corso triennale di Filosofia – aula e orario delle lezioni)
SOCIAL NETWORK E DOMINIO

Rocco De Biasi, Che cos’è la Sociologia della cultura, Carocci 2008
Guy Debord, Commentari alla società dello spettacolo, in La Società dello Spettacolo, Baldini & Castoldi 2013, pp. 185-248
Cristoph Türcke, La società eccitata. Filosofia della sensazione, Bollati Boringhieri 2012: Premessa e capitolo 1
Renato Curcio, L’Impero virtuale. Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale, Sensibili alle foglie 2015
Giuseppe Frazzetto, Epico Caotico. Videogiochi e altre mitologie tecnologiche, Premessa e 6 capitoli: Playing Class Hero; Altri pianeti, altre vite;  Gioco e mobilitazione della vita; Di macchine e animali; Selfie e altri punti di vista; Miti Wikipedia. Fausto Lupetti Editore 2015
Alberto Giovanni Biuso, «La società videocratica», in L’anarchismo oggi. Un pensiero necessario – Libertaria 2014

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FILOSOFIA DELLA MENTE
(Corso magistrale di Scienze filosofiche – aule e orario delle lezioni)
LA MENTE, IL CORPO E IL BELLO. MODELLI GRECI

Alberto Giovanni Biuso, La mente temporale. Corpo Mondo Artificio, Carocci 2009 (capp. 1 e 2, Una storia della mente – Il corpo dentro il mondo)
Anthony A. Long, La mente, l’anima, il corpo. Modelli greci, Einaudi 2016
Bruno Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi 2002 (Introduzione e capitoli I-VIII)
Friedrich W. Nietzsche, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, Adelphi
Alberto Giovanni Biuso, «Abbiamo l’arte per non naufragare nella verità». Sull’estetica dionisiaca di Nietzsche, in Koiné, Anno XIV – nn. 1-4, Gennaio/Dicembre 2007

Colpa

La ragazza senza nome
(La fille inconnue)
di Jean-Pierre Dardenne e Luc Dardenne
Belgio, 2016
Con: Adele Haenel (Jenny), Olivier Bonnaud (Julien), Jérémie Renier (Vincent), Louka Minnella (Bryan)
Trailer del film

I dintorni di Liegi non sono un ambiente facile, tra miseria autoctona e miseria dei migranti, ma Jenny è appassionata del suo lavoro di medico, che svolge con cura e con il necessario distacco emotivo. Una sera, ad ambulatorio ormai chiuso da un’ora, qualcuno suona. Julien, collaboratore di Jenny, si alza per aprire ma lei gli dice che è tardi e che i pazienti «devono avere rispetto della nostra stanchezza». Quest’ordine è anche un modo «per imporsi» -come lei stessa ammetterà- su Julien, semplice studente di medicina. Il giorno dopo la polizia chiede a Jenny i filmati della videocamera di sicurezza, perché una ragazza è stata trovata morta nei dintorni. È la stessa persona che aveva suonato all’ambulatorio. Non ha documenti, viene seppellita senza nome. Jenny è sconvolta e inizia una sua tenace ricerca dell’identità di questa morta.

C’è qualcosa di profondo, ancestrale, biologico, metafisico nel senso di colpa che attanaglia gli umani. Tutte le religioni nascono di fatto da tale sentimento, espresso con il racconto di una caduta originaria da uno spaziotempo senza il male. Le spiegazioni soltanto psicologiche, sociologiche, culturali, di questa tonalità emotiva e metafisica rimangono incapaci di coglierne la vastità, l’universalità e il significato.
Lo stile asciutto e insieme colmo di pietà dei fratelli Dardenne riesce a esprimere due elementi della colpa.
Il primo è la convinzione di essere sempre noi i facitori delle nostre azioni. Anche se Jenny non ha nessuna responsabilità in ciò che è accaduto, se ne assume per intero la colpa, convinta che sarebbe bastata una sua piccola azione -aprire la porta- per evitare la tragedia. Il film chiarisce bene, invece, che tutto è accaduto e tutto accade sempre per l’insieme di circostanze che definiamo casuali, imprevedibili, particolari, meschine, ambientali e il cui intreccio contribuisce a formare ciò che chiamiamo Necessità. L’Ananke è in gran parte questo, è il convergere in ogni istante della vita individuale e collettiva di una miriade di cause che precedono la nostra stessa nascita e sulle quali il nostro controllo è illusorio. Sarebbe più saggio «vedere nel mondo un gioco crudele e nei mutamenti il frutto del caso e della necessità congiunte, costituenti l’unica infinita trama delle cose. Negli eventi che sembriamo dominare come in quelli che ci vedono oggetti passivi delle circostanze» c’è «una innocenza primigenia che non esclude però, anzi rafforza l’oscura colpa complessiva dell’esistere. Il destino del saggio Edipo sta lì a testimoniarlo. Il re di Tebe non era affatto responsabile di ciò che aveva fatto e tuttavia la pena che lo colpisce è giusta. Edipo aveva ragione a dichiarare che non siamo colpevoli dei nostri sogni ma non lo siamo neanche della veglia. Nondimeno la pena, una qualche pena, punisce lecitamente le nostre innocenti passioni. Non c’è colpa, infatti, nell’albero che un fulmine colpisce eppure quel lampo, quella morte sono tanto naturali quanto il crescere delle foglie sui rami» (L’antropologia di Nietzsche, p. 179).
Il secondo elemento che questo film è capace di esprimere è il legame tra colpa e corporeità. Il fatto che dobbiamo morire -ironica, unica e paradossale certezza della vita- genera la domanda sul perché della morte e dunque il disperato bisogno che il nostro cervello sente di trovare una spiegazione all’impensabile, all’orrore, al nostro non essere più, diventare nulla, sparire. Si tratta di un’altra potente radice del sentimento religioso, legata ai limiti inaggirabili della corporeità che siamo. In questo film la dottoressa Jenny tocca continuamente dei corpi feriti, vecchi, convulsi, derelitti, gonfi. La colpa primordiale sta nell’essere corpo. È del tutto conseguente che divieti, tabù, regole e consuetudini morali riguardino nella quasi totalità l’uso dei corpi.

Il corpo mostra con implacabile potenza tutti i nostri limiti.
L’intreccio degli eventi mostra con inesorabile potenza tutti i nostri limiti.
Su questi scogli si infrange l’illusione del libero arbitrio e su questi scogli naufraga la vanità umana. «Un’umanità il cui sentimento fondamentale è e rimane quello per cui l’uomo è l’essere libero nel mondo della necessità, l’eterno taumaturgo, sia che agisca bene, sia che agisca male, la sorprendente eccezione, il super-animale, il quasi-Dio, il senso della creazione, il non pensabile come inesistente, la parola risolutiva dell’enigma cosmico, il grande dominatore della natura e dispregiatore di essa, l’essere che chiama la sua storia storia del mondo! Vanitas vanitatum homo» (Nietzsche, Umano, troppo umano II, af. 12, in ‘Opere’ IV/3, Adelphi 1967, p. 141).

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