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Karamazov, il tempo, la Russia

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Le memorie di Ivan Karamazov
dal romanzo I fratelli Karamazov di Fëdor Michajlovič Dostoevskij
drammaturgia Umberto Orsini e Luca Micheletti
con Umberto Orsini
regia di Luca Micheletti
produzione Compagnia Umberto Orsini
Sino al 16 ottobre 2022

«Prigioniero di quell’aula, di un finale mai scritto, di una sentenza sbagliata, il nostro Ivan continua ad aggirarsi tra i frammenti della sua esistenza, osservati come prove materiali di fatti e memorie che riemergono a strappi, negli spazi di lucidità che gli concedono le febbri cerebrali, nel circolare affastellarsi di teorie e ricordi» (Programma di sala, p. 9).
Così il regista sintetizza il senso di questa presenza sulla scena di Ivan Karamazov e del suo alter ego Umberto Orsini. Terza presenza, dopo lo sceneggiato Rai del 1969 e dopo la Leggenda del grande inquisitore di quasi dieci anni fa al Teatro Elfo-Puccini di Milano, una leggenda che mi sembrò troppo discontinua, claustrofobica, priva del respiro epico del romanzo e del suo protagonista (qui la mia recensione).
Ora invece Orsini occupa da solo la scena, lo spazio, il tempo. In questo modo fa sentire la propria consustanzialità con un personaggio dall’apparenza fredda e che invece possiede tutta l’energia, la logica e la follia della grande cultura russa, così come splende ad esempio in Tolstòj.
L’attore svela che già all’epoca di uno sceneggiato tra i più riusciti della Rai dovette difendere Ivan «da una sceneggiatura che lo penalizzava, battendomi per dare lo spazio adeguato all’importanza del suo “Grande Inquisitore”, inizialmente dato per troppo cerebrale e dunque probabilmente indigesto al grande pubblico»  (Programma di sala, p. 6).
Le poche pagine che Fëdor Dostoevskij dedicò al febbrile e lucido racconto del grande inquisitore sono diventate un emblema della contemporaneità, dell’enigma del sacro, della propensione dell’umano alla schiavitù.
Ricordo ancora una volta le parole di pietra con le quali l’inquisitore condanna il ritorno di Cristo tra gli umani: «Perché dunque sei venuto a darci impaccio? […] Ma domani stesso, io ti condannerò e ti brucerò sul rogo come il peggiore degli eretici. […] Tu ci hai sanzionato colla tua parola, Tu ci hai concesso il diritto di legare e di sciogliere, e, certamente, non puoi neppur pensare di venire a toglierci questo diritto ora. Perché dunque sei venuto a darci impaccio? […] Ci sono tre forze, soltanto tre forze sulla terra, capaci di vincere e di catturare per sempre la coscienze di questi impotenti ribelli, per la loro stessa felicità: e queste forze sono il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu hai rifiutato la prima e la seconda e la terza. […] Tu hai giudicato troppo altamente degli uomini, giacché, in fin dei conti, costoro son degli schiavi, seppure con la costituzione del ribelle» (I fratelli Karamazov, trad. di  Agostino Villa, Einaudi 1981, vol. I, pp. 334-341).
Dopo questo vertice di antropologia sacra e dopo la sentenza che condanna il fratello Dmitri per l’assassinio del padre, Dostoevskij non parla più di Ivan. Da qui parte invece Orsini, riprendendo il non finito, ritrovandolo «tra le mani oggi, come “in-finito” e dunque meravigliosamente rappresentabile perché immortale e dunque classico» (Programma di sala, p. 7).
Classico è infatti l’antiumanesimo greco che fa dire a Ivan: «Sono un uomo cattivo, come tutti gli uomini», parole con le quali queste Memorie hanno inizio. Costante è la domanda sul male del mondo. Perenne è la lotta con le illusioni etiche, religiose, politiche, oltre le quali Dostoevskij sempre si pone. Classica è la domanda sul tempo, interrogativo sul quale lo spettacolo si chiude. Ivan accenna al «tempo nemico», a questa concezione ingenua e distorta che ogni volta dimentica che il tempo siamo noi, il nostro transitare nell’essere che precede la nostra piccolezza e per sempre la segue. Nichilismo è esattamente questo: l’incomprensione del tempo benedetto.

[La foto di scena è di Fabrizio Sansoni]

Lucrezia Fava su Disvelamento

Lucrezia Fava
Recensione a Disvelamento. Nella luce di un virus
in Vita pensata, n. 27 – Settembre 2022
pagine 76-80

«Il successo e il senso di Disvelamento sta infatti nel mostrare tutto il male emerso dallo scoppio dell’epidemia Sars-Cov2, o meglio, da una minaccia specifica denominata Sars-Cov2 che secondo l’autore è servita come combustibile di dinamiche politiche, sociali, economiche e culturali che sono distruttive per l’esistenza, che hanno una logica nichilista, che non soltanto esulano dal campo delle azioni necessarie o per lo meno utili a immunizzare l’individuo dal virus, ma anche limitano, logorano, contrastano ciò che realmente serve a tutelare, curare, migliorare la salute umana. Queste dinamiche, dunque, mentre vengono pubblicizzate e imposte come necessarie a proteggere il nostro organismo dalla Sars-Cov2, al contrario disintegrano proprio le condizioni indispensabili alla buona salute dell’individuo e della sua comunità. Non può che essere così, se è vero, come sostiene Biuso, che al fondo di esse vi sono l’ignoranza, l’alterazione, l’incomprensione dei significati di salute e malattia e più in generale di che cosa sia il corpo umano, di come si compia la sua identità, il suo senso, la sua vita piena e gaia. […]
Nel tentativo di debellare la Sars-Cov2 i corpi collettivi si sono poi confinati in un isolamento estremo, suicida, in cui la persona sospende la sua normalità, le sue possibilità esistenziali, si angoscia e si spegne. Si è fuggito il contatto con i propri cari, l’esperienza vivificante della condivisione del mondo sentito, interpretato, mostrato, rivelato dagli altri, e ci si è persi, inghiottiti nel vuoto che si estende ovunque quando si assottiglia il proprio legame naturale all’altro, quel rapporto dinamico, mutevole, che impegna il sé nella sua integralità e unicità, che lo mantiene permeabile all’alterità dell’altro grazie alla quale definisce se stesso e si comprende. […]
Ma tra tanti fattori del male presente mi sembra che uno in particolare, più o meno nascosto tra le righe di questo libro, stia al fondo di tutti gli altri: l’inadeguatezza generale degli umani alla comprensione e al compimento delle loro stesse migliori condizioni di vita. È allora fondamentale, per garantire la nostra sopravvivenza, imparare a elaborare dei dispositivi non di potere ma di conoscenza che insegnino a pensare e a sanare “uno dei frangenti più stupidamente tragici della storia contemporanea”».

Il virus come tramonto

Non so chi sia l’autore del testo che pubblico qui sotto (letto in Rete) e sono pronto ad aggiungere il suo nome, se mi sarà segnalato. Anche se l’estensore confonde il green pass del gennaio 2021, necessario per uscire e rientrare dall’Italia, con quello imposto con il DPCM del 6.8.2021, universale e quindi assai più grave, credo che in queste righe si colga uno degli elementi profondi e capaci di descrivere ciò che sta accadendo. I filosofi, e più in generale gli studiosi, dovrebbero avere la funzione di comprendere e comunicare tali dinamiche ma uno degli elementi più tristi del presente è proprio la trahison des Clercs (Jules Benda), il tradimento degli intellettuali.

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OBBEDISCI

Fin dall’inizio la gente si è siringata per poter continuare a fare le cose di prima.

Senza il green pass, di cui si è parlato a gennaio, in piena concomitanza con l’inizio della campagna va**inale, solo il 10% della popolazione, si sarebbe va***nata. Altro che 50%. Qui, dunque, non siamo di fronte a un’umanità dedita alla scienza. Qui siamo al nichilismo puro. Non c’è nessuna fede nella scienza. C’è semplicemente il doversi siringare. Ma il bello è che questo siringarsi, per-poter-fare (lavorare, andare a un concerto, prendere un treno), è quel crepuscolo degli idoli di cui parlava un filosofo il secolo scorso. È di fatto, la piena attuazione, della fine delle ideologie. Di ogni valore, finora conosciuto. È l’abbattimento della coscienza, della libertà, della persona, della storia. È la fine dell’uomo, come l’avevamo conosciuto. È chiaro che eravamo già pronti. Ma qualcosa avrebbe ancora resistito. Grazie alla pandemia, abbiamo definitivamente abbandonato tutto quel mondo. Ci siamo scoperti ‘niente’. Cioè, oltre il lavorare, andare a un concerto, andare a un museo, non siamo niente. Solo fruitori, utenti, clienti. Più nessuna idea sulle cose e sul mondo. Sulla vita, e sugli altri. Nessuna idea. Nessun pensiero. Nessuna visione. Nessun desiderio. Nessun io. Nessuna prospettiva. Solo, la pura obbedienza. Obbedire, per poter fare le cose di prima. Obbedire, perché altrimenti non era possibile farle. Tutta la pandemia è stata indirizzata sul nulla dell’uomo, e nell’uomo. E la scienza è stato il disperato tentativo di far reggere un’ideologia che ti chiedeva invece di sottomettere il tuo corpo per prendere un treno, o mangiare una pizza al chiuso. Il nulla, quindi, se il discorso verte sul lato ‘ideale’. 

Nietzsche, senza dubbio, ha visto tutto. E credo lo si capirà bene quando dei racconti di Zarathustra si saprà cogliere l’aspetto conoscitivo, più che quello esortativo. Zarathustra, vede, e non necessariamente vuole, quello che racconta. La sua partecipazione è una finzione scenica. È probabilmente l’umano troppo umano che c’è in lui, la sua ‘malinconia’. La scena del siringaggio al mercato, tra la frutta e la verdura, di una persona che non sa neppure quello che sta facendo, con una risata senza senso, ricorda certe figure dello Zarathustra, nella sua forza dirompente, nell’intensità distruttiva che emana. 

L’uomo covidiano è l’uomo privo di un qualunque pensiero sul mondo, senza più una ragione, una comprensione di quello che ha intorno. È la risata ebete del pazzo, completamente staccato da ogni universo di valori e significati condivisi.
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Con l’invenzione politica (e non sanitaria) del SuperGreenPass la tonalità sociale è ulteriormente peggiorata; dilagano l’intolleranza, la violenza, la discriminazione verso chi esercita il diritto -sempre più fragile- al controllo del proprio corpo.
Lo ha chiarito assai bene Giorgio Agamben in due recenti occasioni: nella sua audizione in Senato il 7.12.2021, quando ha parlato in modo esplicito di terrore politico e tradimento medico, ricordando che il primo governo europeo a imporre leggi invasive della corporeità fu il governo nazionalsocialista; in un breve intervento a un convegno, nel quale ha affermato con chiarezza che «il governo attuale ha abbandonato ogni legalità»:

Una conferma alle parole di Agamben è costituita da quanto accadrà tra due giorni, a partire dal 15.12.2021, con l’espulsione di tanti docenti, maestri e professori, dalla scuola italiana. Qualcosa di inaudito, che ricorda gli anni più oscuri del Novecento. Riporto qui sotto la testimonianza di uno di questi maestri e la dichiarazione di piena solidarietà ai colleghi delle scuole da parte dei docenti universitari firmatari del manifesto contro il lasciapassare sanitario. Le preoccupazioni sulla gravissima discriminazione in atto (denunciata da quello e da altri analoghi documenti) si stanno rivelando fondate.

 

 

Gli «effetti collaterali» dei vaccini, i rischi anche gravi e persino fatali che si corrono, sono oggetto dei due documenti che allego qui sotto. Il primo è una sintesi dei rischi accertati sino alla data della sua stesura, 17.2.2021; il secondo è un breve articolo di Panorama del 1.12.2021, che consiste di due elementi: una serie di dati ufficiali -e quindi assai probabilmente sottostimati- e alcune testimonianze di persone che hanno subìto gravi danni dopo l’inoculazione.

Secondo alcune letture di questi due anni di epidemia, al fondo della vicenda ci sarebbero anche le preoccupazioni maltusiane già sollevate dal Club di Roma con I limiti dello sviluppo (Rapporto Meadows, 1972), vale a dire l’assillo per l’incremento demografico assolutamente fuori controllo della specie umana, sicura ragione di esaurimento delle risorse del pianeta e dunque della vita su di esso. Anche per questo ai danni immediati dei vaccini, e ovviamente a quelli del virus, sembra che si aggiunga un probabile effetto di sterilizzazione sui giovani vaccinati.
Se fossero davvero queste alcune delle motivazioni del diffondersi sia del virus Sars-Cov-2 sia di vaccini molto pericolosi, si potrebbe essere disponibili ad accettare la loro funzione di salvaguardia dell’intero rispetto al dilagare di una sua parte, rispetto dunque all’effetto tumore che Homo Sapiens esercita sulla biosfera.

Nichilismo e Differenza

Nichilismo e Differenza
in InCircolo. Rivista di filosofia e culture
Numero 11 – «Dal corpo oggetto alla mente incarnata»
Giugno 2021
Pagine 459-466

La sezione «Controversie» della rivista InCircolo ospita una discussione a più voci su Emanuele Severino, a partire da un saggio di Dario Sacchi dal titolo Emanuele Severino: il cerchio dell’apparire, un vero e proprio corpo a corpo con i fondamenti logici e le articolazioni fenomenologiche del pensiero di Severino, condotto con maestria da Sacchi.
Nel mio contributo ho cercato di concentrarmi su quanto Sacchi definisce oggettivazione dell’io, che per l’autore costituisce un elemento negativo in quanto ridurrebbe l’umano a un elemento del «destino della necessità» ma che a me pare proprio per questo fecondo. Tale “oggettivazione” infatti inserisce l’ente umano nell’inevitabile andare degli enti, degli eventi e dei processi. Termini ed espressioni, queste, che Severino non avrebbe naturalmente accolto e che tuttavia possono aprire un dialogo non soltanto critico con il suo pensare.
Severino infatti tenta un’operazione diversa ma anche vicina a quella compiuta da Giovanni Gentile (pensatore che nel cammino di Severino ha contato molto) nei confronti della metafisica greca. Se per Gentile il limite originario di tale metafisica è il realismo ontologico, per Severino è il realismo temporale. Per Severino il tempo è un errore e un’illusione, è un deserto nel quale cresce il nulla dell’alienazione che è ogni divenire e ogni credenza in esso. In realtà a me sembra nichilistico il negare la molteplice potenza della Differenza a favore di una sempre uguale Identità.
L’esito nichilistico del pensare severiniano avrebbe potuto essere diverso se il filosofo fosse rimasto più fedele ai notevoli risultati teoretici ed ermeneutici ai quali era pervenuto sin dalla tesi di laurea dedicata a Heidegger e la metafisica (1950). Dall’ontologia fenomenologica di Heidegger Severino fa in questo testo correttamente derivare sia il radicarsi di Heidegger nel terreno del sacro sia il rifiuto heideggeriano dell’etica. La ricchezza dell’ontologia è una delle ragioni dell’insufficienza di ogni sguardo morale sul mondo. È infatti non a causa del suo agire ma per il suo essere una parte dell’intero che il Dasein è intessuto di nulla, poiché in quanto ente non è l’essere. Anche senza esplicitamente tematizzarla, Severino riconosce la natura gnostica del pensare heideggeriano, a partire dall’«esser fondamento di una nullità: Grundsein einer Nichtigkeit».

[Nello stesso numero della rivista si può leggere un denso saggio di Elvira Gravina, mia allieva alcuni anni fa nel corso di filosofia della triennale a Unict, dal titolo Il Sé temporale]

 

Deserto

«Die Wüste wächst: weh Dem, der Wüsten birgt!»
‘Il deserto cresce: guai a chi nasconde in sé deserti!’
Nietzsche, Also sprach Zarathustra IV (Unter Töchtern der Wüste / Tra le figlie del deserto)
Il Covid19, ciò che scatena nel corpo collettivo, è una forma sempre più evidente di nichilismo, di nascondimento dei volti, di dissoluzione della socialità, di timore diffuso e contagioso, di ignoranza dei corpi, di tramonto del senso, di declino della razionalità, di ubbidienza fanatica, di rifiuto del limite, di negazione della insecuritas, di terrore.
È questa la follia del presente, è questo il cuore nero della desacralizzazione del mondo, lo sgomento per la  sua misura mortale e finita.
Uno spettacolo tragico e mirabile per chi conosce la pochezza della nostra specie.

 

La grande reclusione

Ha ben appreso il significato della filosofia, e quindi, dell’esistenza, chi pensa che «la vita non vale niente se non vale più della vita». È quanto scrive un mio allievo a conclusione di una testimonianza straordinaria nella sua lucidità, nel suo dolore, nella consapevolezza e nella verità.

«Caro Professore,
Le scrivo per dirLe che al momento non mi sento una persona felice.
Da mesi ormai sento che la vita mi si dà soltanto come ricordo e come esigenza. Al mattino sto, inerte, innanzi alle mie aspettative e a quelle altrui, incapace di rispondere sia alle une che alle altre, e la sera ascolto gli echi della mia vita passata, l’unica che riesco a portare al livello della presenza. Nei miei vent’anni, sento che la vita mi chiede molto e sento di voler chiedere molto alla vita: il peso dei miei desideri e del futuro mi opprime in modo silenzioso, è sufficiente la loro sola esistenza. E le suole di piombo del mio passato mi impediscono di compiere anche un solo passo in avanti.
Da mesi ormai la mia vita è questo oscillare tra il prima e il dopo, senza una linea continua che li unisca e che possa chiamare presente. Mi è stato chiesto di vivere di meno e l’ho accettato, non posso  altrimenti. Ne soffro e mi viene chiesto di sentirmi in colpa per questo, perché è poca cosa vivere a un metro dagli altri, perché ho ancora tutta la vita davanti, perché bisogna fare sacrifici e avere rispetto dei morti, dell’emergenza sanitaria, bisogna essere responsabili e comportarsi bene. Per carità, non lo nego.
Ma la filosofia mi ha insegnato che per avere rispetto della vita occorre avere rispetto del tempo e della morte, porgere loro la propria amicizia. Ho imparato presto qual è la differenza tra una vita e un’esistenza e temo che la nostra epoca abbia, da molto ormai, dimenticato che la vita è un’altra cosa dall’essere-in-vita, dai parametri che la medicina, l’economia e la politica usano per governare i nostri corpi. La vera tragedia di questa pandemia non è né la morte né il dolore, ma le morti asettiche in ospedale, il fallimento delle attività commerciali, la privazione di un sorriso o di un abbraccio. Per molti la filosofia è solo chiacchiera; per me è l’unico vaccino che ci salva.
E così sto qui, ad un metro di distanza dalla vita, a ricordare impotente che la vita non vale niente se non vale più della vita.
La ringrazio per l’ascolto,
D., uno studente responsabile».

La condizione della quale parla D. è complessa. Un suo evidente elemento è la clausura, la reclusione, il confino. Elementi che non a caso sono parte delle strutture punitive degli Stati. Elementi che, al di là degli autoinganni della cosiddetta ‘società aperta’, diventano sempre più universali, imponendosi a tutti i cittadini. Infatti, «oltrepassata la soglia, la società diventa scuola, ospedale, prigione, e comincia la grande reclusione. Occorre individuare esattamente dove si trova, per ogni componente dell’equilibrio totale, questa soglia critica» (Ivan Illich, La convivialità, Red, Como 1993, pp. 11-12).
Del tutto empatico con quello dello studente D. è stato il mio sentimento di docente di tre corsi svolti nel Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict nell’a.a. 2019-2020. Conclusa la finta lezione, posto fine al collegamento, rimaneva l’aula silenziosa, vuota, perduta. L’amarezza di quegli istanti per il mancato incontro, per la distruzione del fatto educativo – che è un evento in primo luogo fisico, corporeo, spaziotemporale – è un sentimento che non dimenticherò.
Una conseguenza positiva è che questi sentimenti di amarezza e dolore mi hanno aiutato a capire. Mi hanno aiutato a comprendere meglio le motivazioni delle potenze economiche digitali (come Microsoft, proprietaria di Teams e cioè della piattaforma utilizzata per le finte lezioni di Unict) e dei decisori politici al loro servizio, come il governo italiano e le amministrazioni universitarie. E mi hanno quindi spinto ad agire  come posso – insieme ad altri colleghi – contro la distruzione dell’Università, perché è questo l’obiettivo ultimo: la trasformazione delle Università pubbliche in cloni di Unipegaso.

Ivan Illich aveva compreso a quale barbarie conduce il culto per la ‘vita’ a ogni costo, per un fantasma che ignora le dimensioni psicosomatiche, complesse, temporali della salute; aveva compreso dove conduce il culto per un totem collettivo al quale sacrificare ogni pietà, ogni buon senso, ogni fermarsi davanti al limite delle tecnologie sanitarie e politiche e alla necessità che gli umani nutrono di incontrare l’altro.
Il risultato è che si muore sempre più soli e sempre più disperati; l’epidemia da Covid19 sta portando al culmine tale dinamica.
«L’attuale frenesia medica è una chiara manifestazione di ciò che i greci definivano hybris: non più soltanto una trasgressione del limite -la qual cosa sarebbe ancora, malgrado tutto, un modo di riconoscerne l’esistenza- ma un’ignoranza o una ricusazione dell’idea stessa di limite. La Nemesi che colpisce questo accecamento non consiste solo nel morire male, ma anche nel vivere male. L’impresa medica, che si presenta come la punta avanzata e meno contestabile del progresso, è divenuta un fattore di decivilizzazione. Questa era, in ogni caso, la convinzione di Illich, il quale riteneva che i cittadini di un paese non avessero bisogno di una politica ‘sanitaria’ nazionale organizzata per loro, ma piuttosto di ‘fronteggiare con coraggio certe verità:
-non elimineremo mai la sofferenza;
-non guariremo mai tutte le malattie;
-moriremo’»
(Olivier Rey, Dismisura [Une question de taille, 2014], Controcorrente, Napoli 2016, p. 52; trad. di G. Giaccio).

Il lavoro filosofico questo lo sa da sempre. Ad esempio in Hegel: «Seine Unangemessenheit zur Allgemeinheit ist seine ursprüngliche Krankheit und [der] angeborene Keim des Todes [La sua (dell’animale) inadeguatezza all’universalità è la sua malattia originale; ed è il germe innato della morte]» (Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, § 375) e in Heidegger: «So wie das Dasein vielmehr ständig, solange es ist, schon sein Noch-nicht ist, so ist es auch schon immer sein Ende. [L’Esserci, allo stesso modo che, fin che è, è già costantemente il suo ‘non-ancora’, è anche già sempre la sua morte]» (Sein und Zeit, GA, vol. 2, § 48, p. 326; trad. di P. Chiodi).
Mesi di regioni ‘rosse’ allo scopo di ‘abbracciarci a Natale’. E il risultato è, appunto, «la grande reclusione». Non basteranno 10 giorni di chiusura tra il 2020 e il 2021. Non basterà mai nulla. Perché non si tratta di salute e di scelte politiche, si tratta di un’ideologia magica e fanatica. Si tratta di nichilismo.

[La lettera di D. è stata pubblicata anche in corpi e politica e su girodivite, con una breve presentazione. Photo by Denny Müller on Unsplash]

Cioran

Venticinque anni fa (!) pubblicai un saggio su Emil Cioran (1911-1995) nel quale tentavo un confronto tra le sue opere e la filosofia di Nietzsche. Di Cioran presi in considerazione i seguenti libri: Storia e utopia, Il funesto demiurgo, L’inconveniente di essere nati, Squartamento, tutti editi in italiano da Adelphi.
Metto qui a disposizione il pdf di quel testo, sperando che possa costituire uno stimolo a leggere questo scrittore tagliente e splendido, gnostico. Qualche tesi enunciata nel 1993 oggi non la formulerei. Confermerei invece senz’altro questa:
«È dunque l’antropocentrismo ciò che Nietzsche e Cioran giudicano davvero inaccettabile nel cristianesimo. L’aver esso trasformato la casualità della specie in una necessità cosmica, l’aver preso così a cuore le vicende umane da costringere persino dio a morire per esse. Ma con quale senso di esultanza e di liberazione Nietzsche racconta: “Allora mi ricordai delle parole di Platone e le sentii tutt’a un tratto nel cuore: “Tuttto ciò che è umano non è, in complesso, degno di essere preso molto sul serio; tuttavia…” (Umano, troppo umano, af. 628). E Cioran, dal canto suo, ritiene che “prendere sul serio le cose umane è segno di qualche segreta carenza” (Squartamento, Adelphi 1981, p. 115)».

in Prospettive Settanta, anno XV, numero 1/1993, Guida Editori, pagine 117-127

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