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Teatro / Mente

Synecdoche, New York
di Charlie Kaufman
USA, 2008 (distribuito in Italia nel 2014)
Con Philip Seymour Hoffman (Caden Cotard), Samantha Morton (Hazel), Catherine Keener (Adele Lack), Michelle Williams (Claire Keen), Tom Noonan (Sammy Barnathan), Emily Watson (Tammy), Hope Davis (Madeleine Gravis), Dianne Wiest (Ellen Bascomb/Millicent Weems)
Trailer del film

SynecdocheLa sineddoche -insieme alla metonimia- è una delle figure retoriche più importanti, che utilizziamo di continuo nel nostro parlare. Consiste infatti nella sostituzione di un termine con un altro che abbia in comune con il primo elementi quali il genere, la quantità, l’estensione, come quando ad esempio si dice ‘molte braccia’ per indicare ‘molti lavoratori’, ‘due ruote’ per indicare una motocicletta oppure ‘l’italiano è estroverso’ per dire che a esserlo sono gli italiani. La parte per il tutto. Un singolo essere umano per l’intera specie.
Ciascuno, in realtà, pensa a se stesso come all’esempio e all’incarnazione universale dell’umanità. Così, quando il regista Caden Cotard comincia a percepire nel proprio corpomente i sintomi della decadenza, della malattia, della depressione e della morte, è l’intero mondo che muta. Un premio ricevuto per la sua attività artistica gli consente di progettare, provare, realizzare l’opera totale: una messa in scena della propria vita mentre essa accade. Centinaia di attori, spazi enormi, scenografie che si moltiplicano perché dovrebbero rappresentare un intero mondo. Le identità/differenze tra gli attori, i personaggi, gli attori che interpretano gli attori del suo spettacolo mentre lo recitano, si confondono sino ad annullarsi. Nel senso che lo spettatore del film non riesce più a comprendere davvero chi sia chi, se si stia recitando il film o se si stia recitando dentro il film. I piani spaziali e temporali si confondono anch’essi, si dilatano, toccano il trascorrere di anni in pochi minuti e poche scene, mentre una sola giornata si allunga.
Sino a un certo momento tutto questo è tenuto sotto controllo. Poi, da quando la moglie di Cotard si trasferisce a Berlino con la propria amante e la bambina -gettando nella disperazione il marito-, l’intreccio di esistenza, teatro, eventi, incontri, repliche degli incontri, attori, sosia degli attori, diventa uno straordinario e lucido delirio identitario e spaziotemporale, la cui spiegazione è però incisa in due nomi: Capgras e Cotard.

Il nome di Capgras compare sul citofono dell’appartamento affittato dalla moglie del regista. Mentre gli altri nomi sono quasi illeggibili, questo viene messo in evidenza con dell’adesivo. Un cognome non certo casuale. I soggetti colpiti dalla sindrome di Capgras sono infatti convinti che familiari e amici siano in realtà dei sosia, degli attori che hanno preso il posto dei loro cari allo scopo di ingannare, far del male, distruggere la persona.
Il regista si chiama Caden Cotard. La sindrome di Cotard è ancora più grave, forse la più grave patologia psichiatrica che sia concepibile. Nella sua forma estrema il soggetto è convinto di essere morto. Nessuna persona, nessun ragionamento, nessuna prova possono smuoverlo da tale convinzione. La spiegazione più plausibile di questa tragedia della psiche sta nel fatto che a causa di lesioni organiche o di processi degenerativi i centri sensoriali non interagiscono più con le aree emotive dell’encefalo. Il cervello però cerca disperatamente di dare un significato al deserto emozionale che ne consegue. La spiegazione più logica è che chi non prova nessuna emozione deve in realtà essere già morto.
In una delle battute il regista afferma esplicitamente che «non è uno spettacolo solo sulla morte». Certo. Perché è a partire dal nostro essere finiti che la vita si declina secondo tutte  le sue strutture. Il morire non è una parte dell’esistere ma costituisce il suo tutto, la sua sineddoche.
«Non è che l’esserci riempia con le fasi delle sue realtà effettuali istantanee una pista o un segmento sottomano “della vita”, ma estende se stesso, sì che il suo esser proprio è fin dapprincipio costituito come estensione. Nell’essere dell’esserci sta già il “tra” riferito a nascita e morte. […] L’esserci fattizio esiste per nascita, e per nascita muore anche proprio nel senso dell’essere-alla-morte. Entrambi i “capi” e il loro “trasono, finché l’esserci fattiziamente esiste, ed essi sono in quel modo che unicamente è possibile sulla base dell’essere dell’esserci come cura. Nascita e morte si “con-nettono”, nel modo che è proprio dell’esserci, nell’unità di dejezione e sfuggente o precorrente essere-alla-morte. In quanto cura, l’esserci è il “tra”» (Martin Heidegger, Essere e tempo, trad. di A. Marini, Mondadori 2006, § 72, p. 1051).
Capolavori. Sia il libro di Heidegger sia il film di Kaufman.

Fantasmi

A proposito di Davis
(Inside Llewyn Davis)
di Joel ed Ethan Coen
USA, Francia, 2013
Con: Oscar Isaac (Llewyn Davis), Carey Mulligan (Jean Berkey), John Goodman (Roland Turner), F. Murray Abraham (Bud Grossman)
Trailer del film

davisIn un fumoso sotterraneo di New York Llewyn Davis canta un brano dedicato a un impiccato. Subito dopo il proprietario del locale gli dice che fuori lo aspetta «un amico». Uscito, Llewyn viene picchiato da colui. Si risveglia a casa di conoscenti che lo ospitano. La casa è vuota. Prende le sue cose e se ne va. Ma il gatto dei proprietari esce con lui e Llewyn se lo deve portare appresso. La scena si ripete alla fine del film, quasi identica. Quasi perché stavolta il gatto viene fermato; dopo Llewyn a cantare è un allora sconosciuto Bob Dylan; l’uomo gli spiega perché lo ha picchiato. Tra queste due scene si dispiega la vita perdente di un ragazzo di talento ma velleitario e sopratutto senza energia, oltre che senza soldi.
Il Greenwich Village degli anni Sessanta, il mercato discografico, la noiosa musica folk che pervade l’intero film, sembrano in realtà dei pretesti, delle occasioni per parlare di morti. Morto è il cantante che faceva coppia con Llewyn e che si è buttato da un ponte; morto alla coscienza è il padre di Llewyn; morituro è il bambino che Jean non vuole da Llewyn; appassionato di funerali è l’impresario (disonesto) al quale questo cantante si affida; tossico sino allo stordimento è il singolare personaggio -un omone elegante, zoppo e arrogante- con il quale Llewyn percorre in auto l’itinerario da New York a Chicago.
Assolutamente provinciale è l’intero contesto -bohémiens o agiato, cantatore o colto, militare o fricchettone- nel quale accade la vicenda. E soprattutto cadaverici sono i colori e l’aria di questo singolare film che me ne ha ricordato uno completamente diverso eppure stranamente vicino: The Others di Alejandro Amenábar. Funerei entrambi.

 

Carneficina

Carnage
di Roman Polanski
Con: Jodie Foster (Penelope Longstreet), Kate Winslet (Nancy Cowen), Christoph Waltz (Alan Cowell), John C. Reilly (Michael Longstreet)
Francia, Polonia, Germania, Spagna, 2011
Dal testo teatrale Il dio del massacro, di Yasmina Reza
Trailer del film

 

Un appartamento a New York. Penelope e Michael Longstreet si comportano come una coppia progressista, civile, tollerante che sta discutendo con Nancy e Alan Cowell -due seri professionisti pure loro- al fine di risolvere pacificamente e velocemente i problemi nati dallo scontro fisico tra i loro due figli adolescenti. Il figlio dei Cowell ha infatti colpito con un bastone quello dei Longstreet, causandogli danni alla bocca. Tutto procede in modo ineccepibile e nelle dovute forme. La coppia ospite è sempre in procinto di andarsene ma qualcosa la trattiene. Emergono così a poco a poco e implacabilmente i conflitti profondi che intramano non soltanto le relazioni fra persone che sino a qualche ora prima non si conoscevano ma anche i rapporti tra le due coppie al loro interno. Il risultato è una carneficina (Carnage) dialettica, psicologica, esistenziale.

La prima inquadratura, quella nella quale si vedono sul campo medio gli adolescenti litigare, è incorniciata da due alberi che formano una sorta di luogo chiuso. Sulla stessa scena il film si chiude dopo essersi svolto tutto nello spazio di un appartamento. E tuttavia si tratta di un’opera estremamente dinamica. Per il modo in cui si alternano gli attori in primo piano e quelli sullo sfondo; per il continuo movimento della cinepresa, che non indugia mai sullo stesso personaggio o situazione più di qualche secondo; per la recitazione magistrale dei quattro attori (soprattutto Jodie Foster); per lo spazio che sembra pulsare, ampliarsi, restringersi, diventare il quinto personaggio del film. Film estremamente divertente. L’ironia, infatti, non sta soltanto nelle battute, nei dialoghi che oscillano tra il banale e il profondo, in alcune particolari situazioni (il vomitare di Nancy, la disperazione di Penelope per la conseguente rovina di un catalogo di Kokoschka, lo sguardo e i modi sperduti di Alan quando viene privato del suo infestante cellulare) ma l’ironia sta nella vita stessa così come emerge dalla miriade di microinterazioni che costituiscono l’opera.
Il vero limite sta nel doppiaggio, poco sensato sempre ma assolutamente dannoso in un’opera teatrale e parlata. Soltanto in Italia subiamo questa pratica così provinciale, mentre altrove è del tutto normale seguire i film in lingua originale e sottotitolati. Peccato non aver potuto gustare le voci, le inflessioni, le tonalità vere dei quattro attori. E peccato, naturalmente, che Carnage non abbia vinto nulla alla Mostra del cinema di Venezia. Peccato per Venezia, che ha perso l’occasione di premiare un film assai bello. Dalla visione si esce come purificati. Perché consapevoli che questo sono in gran parte le relazioni sociali: un massacro. Ma consapevoli anche che si può comprenderle e riderci sopra.

Basta che funzioni

di Woody Allen
(Whatever Works)
USA/Francia, 2009
Con: Larry David, (Boris Yellnikoff), Evan Rachel Wood (Melody), Patricia Clarkson (Marietta)
Trailer del film

Whatever Works

Boris è stato un grande fisico, esperto in teoria delle stringhe e meccanica quantistica. Ora è divorziato, vive in un loft, è preso da periodiche crisi di panico e non sopporta nessuno, nemmeno i ragazzini ai quali impartisce lezioni di scacchi condite da insulti vari. Una sera trova dietro la porta di casa Melody, ragazzina della Louisiana fuggita dalla famiglia. Melody è straordinariamente stupida ma tenace sino a farsi sposare dal genio. Un anno dopo arriva la madre della ragazza che da devota citatrice della Bibbia si trasforma in artista quasi porno e convivente con due uomini. La raggiunge l’ex marito che, prima scandalizzato e incredulo, ritrova poi la propria vera identità sessuale. Melody lascia ovviamente l’anziano marito, il cui tentativo di suicidio fallisce ancora una volta…

Tornato a New York (dopo le men che mediocri opere europee), Allen ritrova il proprio acquario umano e dunque se stesso, adattando una sceneggiatura scritta trent’anni fa, frizzante e -al di là delle apparenze- un poco tragica. Sino al finale politicamente ipercorretto (ma spero ironico…), il film mantiene una plausibilità che coniuga G.B.Shaw e Cioran (molte delle affermazioni di Boris sarebbero state sottoscritte da costui), permettendo al regista di dire ciò che davvero pensa degli umani e di formulare proposte come queste: «si chiede alla gente una patente per guidare e pescare ma nessuna per fare figli, che invece sarebbe la più importante». Guardando molti figli, non si può che condividere.

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