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Distruzione a distruzione

La colpa canta, sussurra, grida, latra, decide, in una vicenda che è il trionfo di Erinni. Una «πρώταρχον ἄτην; colpa originaria»1 generata molto tempo prima, quando Atreo imbandì al fratello Tieste la carne dei suoi figli, per vendicarsi dell’adulterio di costui con la propria moglie. La maledizione di Tieste all’accorgersi del fiero pasto scende adesso sull’intera stirpe, sull’intera «casa imbrattata di sangue; αἵματι δ᾽ οἶκος ἐφύρθη» (v. 732; p. 442).
Il figlio di Atreo, Agamennone, ha dovuto sacrificare ad Artemide la propria figlia Ifigenia. Un evento che lungo i dieci anni di guerra sotto Ilio ha trasformato Clitemnestra in una macchina di vendetta. Quando il marito torna ad Argo, lei lo accoglie come un sovrano assoluto, un re dell’Oriente, facendolo entrare nella reggia su tappeti di porpora e preparandogli il bagno. Ma nella vasca lo colpisce tre volte. Non è lei sola che lo uccide – proclama – ma è Ἄτη, la signora degli umani, colei che porta distruzione, follia, azioni irreparabili ed estreme. Clitemnestra è diventata Ate, è diventata l’Erinni, e lo sa.
Al di sopra degli antichi Titani, al di là dello stesso Zeus e dei suoi fratelli che dominano il mare e la terra, i veri signori del mondo hanno nome Ἐρινύες, Mῆνις, Ἄτη, Μοῖραι, Ἀνάγκη. Sono queste le forze che involvono distruzione a distruzione; che trasformano le vite, gli imperi, le passioni umane; che gorgogliano dalla materia e non lasciano scampo al suo stare, al permanere, alla fissità dell’istante, del potere, della gioia e del dolore. Il vero signore del cosmo è Χρόνος, il divenire infinito, che assume le sembianze narrative e mitologiche di Κρόνος, figlio del Cielo e della Terra, padre di Zeus.
C’è qui una sapienza antropologica stupefacente e sicura. C’è la lucida e dolorosa consapevolezza che  tutti gli enti sono frammenti del tempo e del suo destino, sono espressione della necessità e delle sue forme, sono il frutto effimero e cangiante dell’intero.
«Πάθει μάθος; con il dolore si impara» (v. 177; p. 406). Che cosa si impara con il dolore? Si apprende quello che l’ambiguo Apollo, il Λοξίας, fa anche in questa tragedia:  «παιᾶνα τόνδ᾽ Ἐρινύων; un peana alle Erinni» (v. 645; p. 438), in questo caso elevato per bocca di Ares, un altro dio della distruzione infinita. In Apollo, davvero, «una pericolosa combinazione di salvezza-distruzione connette il canto salvifico con gli dèi della morte» (Monica Centanni, p. 989). Quegli dèi che vincono sempre poiché ««noi non possiamo fare a meno di cercare una conciliazione tra l’intelligibilità e il tempo, pur sapendo che prima che si riesca a darne ragione, sarà esso, per gioco, ad avere ragione di noi»2.
Anche per questo «τὰ δ᾽ αὖτε κἀπίμομφα τίς δὲ πλὴν θεῶν / ἅπαντ᾽ ἀπήμων τὸν δι᾽ αἰῶνος χρόνον; chi, a parte gli dèi, è immune dal dolore per tutto il tempo della sua vita?» (vv. 553-554; p. 433).
L’animale umano cerca, inventa, vive le soluzioni più diverse al frutto di Ἀνάγκη, al dolore d’esserci e alle sue molteplici manifestazioni: l’abbandono, la nostalgia, l’esilio, la violenza, l’inganno. Il Coro di Agamennone accenna a una delle soluzioni più intime e più profonde: «πάλαι τὸ σιγᾶν φάρμακον βλάβης ἔχω; da tempo ho trovato nel silenzio un rimedio al dolore» (v. 548; p. 430).
Le passioni sono ragione di esaltazione e di pianto. La passione fondamentale è ἔρως, è per gli uomini la donna. Elena percorre in modo sottile ma costante questa tragedia. Elena che tradì il fratello di Agamennone, per riportare la quale in Grecia anche Ifigenia dovette morire e poi tanti tanti guerrieri. Elena che nella casa di Menelao e poi in quella di Paride appariva come «ἀκασκαῖον δ᾽ ἄγαλμα πλούτου; una splendida statua divina, muta e preziosa» (v. 741; p. 442), Elena che è «pura epifania della bellezza e della potenza della seduzione, perfettamente amorale e irresponsabile delle sue azioni» (Centanni, p. 995).
A Elena si contrappone sua sorella, Clitemnestra dal cuore che non trema, che appare forte e decisa come un maschio, che colpisce per tre volte con gioia Agamennone spingendolo verso l’Ade, che è diventata alla fine Re, proprio Re non Regina. Accanto a lei Egisto sembra «κόμπασον θαρσῶν, ἀλέκτωρ ὥστε θηλείας πέλας; vanitoso, tronfio come un galletto vicino alla sua femmina» (v. 1671; p. 510), disprezzato dal Coro dei vecchi argivi, per i quali si prospetta la tirannide di costui, di un vigliacco, un destino inaccettabile poiché per  i Greci «πεπαιτέρα γὰρ μοῖρα τῆς τυραννίδος; la morte è un destino più dolce della tirannide» (v. 1365; p. 488).
Insieme e al di là di Elena e di Clitemnestra, una terza donna appare come potenza di pensiero, di delirio, di lucidità e di pianto: Cassandra. Questa ragazza è Apollo, è la sua parola, è la sua ironia, è la sua ferocia. Uccisa accanto ad Agamennone, la sua morte diventa richiamo della morte che afferrerà la sua assassina.
In attesa che Δίκη ritorni a sancire altre colpe, è Cassandra a descrivere nel suo intimo e nella sua evidenza la vita del mortali, il loro essere ombre, segni vani, nulla:

ἰὼ βρότεια πράγματ᾽: εὐτυχοῦντα μὲν
σκιά τις ἂν τρέψειεν: εἰ δὲ δυστυχῇ,
βολαῖς ὑγρώσσων σπόγγος ὤλεσεν γραφήν.
καὶ ταῦτ᾽ ἐκείνων μᾶλλον οἰκτίρω πολύ.

«Ah, le vicende dei mortali! Se c’è buona fortuna basta un’ombra a farla svanire! E se la fortuna è cattiva, un colpo di spugna e si cancella il disegno! E tra le due, questa è la sorte che compiango di più» (vv. 1327-1330; p. 484).


Note
1. Eschilo, Agamennone (Ἀγαμέμνων, 459 a.e.v.), verso 1192, p. 474, in Le tragedie, traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori 20133, pagine LXXXII-1245. Le successive citazioni saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti dal numero di pagina dell’edizione Meridiani.
2. K. Pomian, «Tempo /Temporalità», in Enciclopedia Einaudi, vol. XIV, Einaudi 1981, p. 94.

Il tempo, le larve

Piccolo Teatro Strehler – Milano
La notte dell’Innominato
da Alessandro Manzoni
Regia e adattamento Daniele Salvo
Con: Eros Pagni (L’Innominato), Gianluigi Fogacci, Valentina Violo, Simone Ciampi
Produzione Centro Teatrale Bresciano e Teatro de Gli Incamminati
Sino al 31 ottobre 2021

La notte è il luogo della pace ma anche dell’angoscia, dei tormenti che da nulla possono essere attutiti, risolti, ribaltati. L’intero peso della vita a volte si raggruma nell’insonnia, nelle ragioni disperate e violente che impediscono al corpomente di placare la propria fame di dolori. Onde su onde allora rendono il tempo un istante che non finisce più e al quale l’albeggiare sembra offrire solo i segni lividi della morte che si è stati, della morte che si è desiderato essere. Questo può accadere anche a un uomo spietato, sicuro sino alla tracotanza, portatore di morte e di dolore per tanti. Ma Francesco Bernardino Visconti (1579-1647) non sentiva più soddisfazione nel crimine e anzi «già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze» (I Promessi Sposi, a cura di Giovanni Getto, Sansoni Editore, Firenze 1985, cap. XX, p. 475).
E allora bastò -nella finzione del romanzo- che davanti a quest’uomo di malaffare piangesse una donnetta per ridurlo all’angoscia più insostenibile. «Cos’è stato? che diavolo m’è venuto addosso? che c’è di nuovo? Non lo sapevo io prima d’ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne?» (Ivi, cap. XXI, pp. 502-503), dice nella notte a se stesso rimproverando nella notte se stesso, cercando a tentoni nel buio l’uomo che è stato e che ora non è più. A ogni modo pur di scrollare da sé quel tormento, è pronto a liberare la ragazza. Lo farà. Subito, al mattino. Ma «poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l’altro? che farò dopo doman l’altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!» (Ivi, cap. XXI, p. 506).

Questo il nucleo di una messa in scena fedele al testo del romanzo e capace di rinnovarne la lettura tramite dipinti che diventan vivi -Bosch, Antonello e altri-; mediante il trasformarsi dei terrori interiori dell’Innominato in figure orribili e potenti; attraverso quella tonalità gotica che costituisce uno dei segreti dei Promessi Sposi.
È in questa notte che Manzoni ha toccato uno dei vertici della sua arte: il tempo, la noia, il vuoto, l’essere per la morte. Sì, gli esistenziali di Essere e tempo: «Ricaduto nel vòto penoso dell’avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti» (Ibidem). Quest’ultima frase non vale soltanto per un criminale incallito, per un delinquente diventato vecchio, per un personaggio di romanzo, per una psiche ormai consunta. Questa frase suona per noi, vale per tutti; è vera per l’umano fatto di tempo, divenire, attesa; costituito di «gewesen-gegenwärtigende Zukunft», ‘avvenire essente-stato-presentante’ (Sein und Zeit, §§ 7C e 65).
Quando il tempo diventa il nemico e l’andare delle ore si trasforma nell’insostenibile itinerario dell’assurdo, vuol dire che intorno a noi si addensano le allucinazioni delle quali questo spettacolo è cosparso: nere come la notte, lugubri come il terrore, impersonali come il vuoto. Larve che scandiscono il fallimento dell’esistere e trasformano i corpi nel battere irrefrenabile dei denti, della febbre, di un’alba che è ancora notte.

La grandezza di Manzoni sta anche nel disvelamento della psiche umana ma abita soprattutto nella piena consapevolezza gnostica del male. L’Innominato è questa  psicologia, è questa conoscenza. Certo, poi tale consapevolezza si dissolve nella gloria edificante della provvidenza incarnata dal cardinale Borromeo. Ma a quel punto interviene un bisogno di superficiale redenzione morale. La sostanza profonda sta nelle altre poche pagine dalle quali l’assurdo dell’esserci, di ciò che si è fatto, del vuoto che si farà, emerge come un mostro indicibile dal lago del tempo.
«Un qualche demonio ha costei dalla sua, – pensava poi, rimasto solo, ritto, con le braccia incrociate sul petto, e con lo sguardo immobile sur una parte del pavimento, dove il raggio della luna, entrando da una finestra alta, disegnava un quadrato di luce pallida, tagliata a scacchi dalle grosse inferriate, e intagliata più minutamente dai piccoli compartimenti delle vetriate. – Un qualche demonio, o… un qualche angelo che la protegge… Compassione al Nibbio!… Domattina, domattina di buon’ora, fuor di qui costei; al suo destino, e non se ne parli più, e, – proseguiva tra sé, con quell’animo con cui si comanda a un ragazzo indocile, sapendo che non ubbidirà, – e non ci si pensi più. Quell’animale di don Rodrigo non mi venga a romper la testa con ringraziamenti; che… non voglio più sentir parlar di costei. L’ho servito perché… perché ho promesso: e ho promesso perché… è il mio destino» (ivi, cap. XXI, p. 496).
Il destino, appunto, il demone che esso è per l’umano. Ἀνάγκη, l’inevitabile. Sino a che la morte verrà a offrire a questo grumo di passioni la grazia. E allora la notte sarà solo pace.

Euripide, il Sacro

Il Sacro in Euripide
in Dialoghi Mediterranei
Numero 51, settembre-ottobre 2021
Pagine 62-76

Indice
-Premessa
-Gli eroi
-Le donne
-La legge
-Il divino

Ho tentato un percorso dentro la grandezza di Euripide, dentro il suo sguardo nello stesso tempo empatico e distante sul divino, l’umano, la follia, il cosmo, la storia. Il suo teatro è una festa sacra. Festa di passione, di vendetta, di ironia, festa di Ἀνάγκη.
Un abisso c’è tra tale modo di intendere l’esistere e la sensibilità dell’Europa moderna. Un abisso tra questa potenza selvaggia dell’inevitabile e la compassione universale verso gli umani, tra la consapevolezza di quanto gratuito, insensato e terribile sia lo stare al mondo e il luna park moralistico e sentimentale che afferma il valore sacro di ogni umano.

Metamorfosi

Ovidio
in Vita pensata, n. 25, luglio 2021, pagine 86-89

Un Trionfo del Tempo sono le Metamorfosi di Ovidio. Sono anche tale trionfo. Questo libro fondamentale della cultura europea è un’enciclopedia del mito e della storia, della vicenda umana nel Mediterraneo antico e delle passioni che sempre e ovunque accompagnano e costituiscono gli umani. Passioni narrate ancor prima che cantate. Ovidio ha infatti scritto un romanzo, il primo romanzo dell’Occidente. Un romanzo libero dalla psicologia, un romanzo che narra in modo insieme oggettivo e fantastico gli eventi più vari, il più imprevedibile divenire.
Anche le trasformazioni più bizzarre e impossibili appaiono plausibili sino alla naturalezza e quasi ovvie poiché sono fondate su una decisa posizione antropodecentrica, che non attribuisce alcun primato ed esclusività all’umano, il quale viene posto nella necessaria contiguità con i divini, con gli altri animali, con la natura, le cose, gli eventi che da lui non dipendono e ai quali invece è del tutto sottomesso mentre ogni ente è sottoposto alla potenza primigenia e infinita del divenire e del tempo.
Nessun antropocentrismo, nessun privilegio attribuito all’umano, anche perché tra tutte le specie viventi ed enti mondani Homo sapiens è il più distruttivo, un vero e proprio errore degli dèi e della natura. Questo «inmedicabile vulnus» (I, 190), questa incurabile ferita, va estirpata poiché «qua terra patet, fera regnat Erinys» «dovunque si estende la terra, impera selvaggia la Furia!» (I, 241; 17).
Anche Ἀνάγκη, anche le Parche sono forma, segno e strumento della potenza vera e suprema, che è il Tempo, che è il divenire, che è – nel linguaggio contemporaneo – la termodinamica. La prima delle sue leggi è infatti il vero fondamento filosofico e concettuale delle Metamorfosi, presente ovunque e sempre confermata. Il primo principio è espresso con la densa efficacia della lingua latina: «Omnia mutantur, nihil interit» «Tutto si trasforma, nulla perisce» (XV, 165; 613) perché niente nasce dal niente e nulla muta nel nulla.
Le Metamorfosi sono storie raccontate dentro altre storie, mutazioni dentro altre trasmutazioni, dentro l’incastro incessante di elementi che è il reale.

La terra invisibile

«Mεσομφάλοις Πυθικοῖς; l’oracolo pizio che sta al centro del mondo»1 ha decretato da tempi remoti la rovina della casa di Laio, di Edipo, dei suoi figli tutti. Per condurre a compimento il proprio decreto, Apollo -«φιλεῖ δὲ σιγᾶν ἢ λέγειν τὰ καίρια; il dio che ama tacere o dire parole opportune» (v. 619, p. 158)- si serve anche della maledizione che Edipo ha scagliato su Eteocle e Polinice, suoi figli e insieme fratelli, suoi eredi senza cura verso il padre. Dopo che Eteocle è venuto meno al patto di alternanza sul trono di Tebe, Polinice muove guerra a Tebe, la città che da se stessa, dalla terra, ha generato gli abitanti/guerrieri. In essa si muovono dunque le forze telluriche più fonde, immortali e potenti: le Erinni, la Moira. Le quali hanno stabilito che sette argivi combatteranno contro sette cadmei. Sei difensori della città sconfiggeranno i suoi assalitori e Tebe sarà salva ma alla settima porta i due fratelli fatali saranno l’uno per l’altro τεθηγμένον, una lama affilata (v. 715, p. 164) che toglierà loro la luce, conducendoli «νύκτερον τέλος; al termine della notte» (v. 367, p. 140), trascinandoli «ἐν ῥοθίοις φορεῖται; nel flusso del niente» (v. 362).
Il niente è uno dei veri e universali argomenti di questa tragedia scandita come un teorema; nel cui titolo compare un numero; nella cui struttura compare la Furia; nel cui andamento compare Ἀνάγκη, l’inevitabile, la necessità, la morte.
«θεῶν διδόντων οὐκ ἂν ἐκφύγοις κακά; quando gli dèi vogliono donarci sciagure, non c’è chi possa sfuggirvi» (v. 719, p. 166) ed è chiaro che la prima sciagura, condizione di tutte le altre, è nascere, è abbandonare il nulla privo di ogni pena, dolore, pianto. È proprio vero che «il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici» (Nietzsche, La nascita della tragedia, in «Opere», Adelphi 1972, vol. III/1, trad. di S. Giametta, p. 32) e al di là degli Olimpi conobbe un dio ancora più enigmatico e potente, un dio che è l’estremo della vita ed è insieme il confine del niente: «ωὑτὸς δὲ Ἀίδης καὶ Διόνυσος; lo stesso sono Ade e Dioniso» (Eraclito, detto 151 [Mouraviev], DK B 15 [Diels-Kranz]).
Ade del quale il finale non interpolato dei Sette contro Tebe, il finale autentico, costituisce un integrale e necessario trionfo:

πί τυλον, ὃς αἰὲν δι᾽ Ἀχέροντ᾽ ἀμείβεται,
[τὰν] ἄνοστον  μελάγκροκον
ναυστολῶν  θεωρίδα
τὰν ἀστιβῆ Παιῶνι, τὰν ἀνάλιον
πάνδοκον εἰς ἀφανῆ τε χέρσον.

Il colpo del remo che spinge, che sempre trasporta
                                                                          [per L’Acheronte
[la] processione senza ritorno,
il corteo velato di nero,
verso la sponda deserta di sole, dove Apollo non posa
                                                                          [il suo passo
verso la terra invisibile, che in sé tutto accoglie.
(vv. 856-860, p. 176).

Così commenta Monica Centanni: «‘Invisibile’ è la terra dell’Ade, contro la visibilità assoluta del dio della luce» (p. 845). A questa luce, a tale quia, è legato il filo della nostra vita, filo fenomenologico che tesse i pensieri invisibili con la forza della materia visibile. Prima che Àtropo ci restituisca all’intero.


Nota

1. Eschilo, Sette contro Tebe (Ἑπτὰ ἐπὶ Θήβας, 467 a.e.v.), verso 747, p. 168, in Le tragedie, traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori, Milano 20133, pagine LXXXII-1245. Le successive citazioni saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti da quelli della pagina dell’edizione Centanni/Meridiani.

Il nomos della terra

La distruzione della flotta persiana a Salamina da parte degli Elleni è dovuta alla ὕβρiς di Serse, dimentico del nomos terrestre, della prudenza con la quale suo padre Dario aveva rinunciato al tentativo di domare il Bosforo per sottomettere l’Europa all’Asia. Una prudente sapienza che nasceva dal rispetto per «θεόθεν γὰρ κατὰ Μοῖρ᾽ ἐκράτησεν / τὸ παλαιόν; un destino che forte vigeva in antico»1 e che i mortali, tutti, debbono sempre avere davanti nel loro scosceso cammino dentro il morire che si chiama vita. Ate, infatti, «βροτὸν εἰς ἄρκυας Ἄτα, / τόθεν οὐκ ἔστιν ὕπερ θνατον ἐξαλύξαι φυγειν; spinge il mortale dentro la rete ben tesa: da là all’uomo è preclusa ogni fuga, ogni scampo» (vv. 99-100, pp. 22-23).
Storica è dunque la prima tragedia che ci sia rimasta dei Greci? Sì, a condizione di non intendere la storia soltanto come un insieme di avvenimenti accaduti e narrati. La storia dei Persiani è infatti costruita su una antropologia sacra, su una teologia che riconosce al di là di ogni volontà umana (volontà che è una delle maggiori illusioni della cultura venuta dopo i Greci e i Romani) la presenza e la potenza di Ἀνάγκη: «ὅμως δ᾽ ἀνάγκη πημονὰς βροτοῖς φέρειν / θεῶν διδόντων; Necessità [che] costringe i mortali a sopportare sciagure» (vv. 293-294, pp. 36-37).
Ἀνάγκη che salva sempre «πόλιν Παλλάδος θεᾶς; la città della Pallade dea!» (v. 347, p. 40-41) e rispetta coloro che fanno di sé un modo di σωφροσύνη, una forma della misura dolente dell’esserci, evitando per quanto possibile la ὕβρις della quale il persiano Serse è una incarnazione evidente, plastica sino alla disperazione. Contro la tracotanza dissacrante del proprio figlio, il fantasma di Dario pronuncia parole che sono greche sino al midollo, lui che è uno dei più grandi sovrani tra i barbari. L’ironia della tragedia, in particolare di questa tragedia, sta anche nel parlare dei barbari così vicino -identico- alla Stimmung dei Greci.
Sentiamolo dunque questo fantasma di saggezza e di canto: «ὡς οὐχ ὑπέρφευ θνητὸν ὄντα χρὴ φρονεῖν. / ὕβρις γὰρ ἐξανθοῦσ᾽  ἐκάρπωσεν στάχυν / ἄτης; non deve chi è mortale esser troppo superbo. La superbia dopo il fiore dà frutto: ed è spiga di rovina da cui si miete messe di pianto» (vv. 820-822, pp. 72-73). Da barbaro sapiente, da greco, Dario esorta tuttavia i suoi antichi sudditi, che vede prostrati sino a un pianto che sembra non conoscere fine; li invita a gustare ancora il frutto di gioia che ogni giorno può aprire agli eventi: «ὑμεῖς δέ, πρέσβεις,  χαίρετ᾽, ἐν κακοῖς ὅμως / ψυχῇ διδόντες ἡδονὴν καθ᾽  ἡμέραν, / ὡς τοῖς θανοῦσι πλοῦτος οὐδὲν ὠφελεῖ; E voi, vecchi, fatevi animo: anche nella sventura dovete concedere al vostro cuore un po’ di gioia ogni giorno. Questo serve, e non altra ricchezza, a chi è destinato alla morte!» (vv. 840-842, pp. 74-75).
I Greci i quali «οὔτινος δοῦλοι κέκληνται φωτὸς οὐδ᾽ ὑπήκοοι; si vantano di non essere schiavi di nessun uomo, sudditi di nessuno» (v. 242, pp. 32-33) hanno ridotto il Grande Re, il Padrone dei persiani, il Signore dell’Asia, alla condizione di uno straccione che con vesti lacere si presenta e non parla, grida soltanto, canta la propria definitiva sciagura mentre ad attenderlo «κακοφάτιδα βοάν, κακομέλετον ἰὰν; è un urlo di morte, un canto di sciagura» (v. 936, pp. 78-79).
Questo avvenne venticinque secoli fa e tali eventi hanno per millenni garantito l’Europa dalla forma totalitaria della politica. Sino a quando al culmine della modernità che non crede nella sacralità del mondo e della materia si è installata e continua a dominare la ὕβρις. Ma tutto si paga, anche nella forma di un minuscolo virus.

 

Nota
1. Eschilo, Persiani (Πέρσαι, 472 a.e.v.), versi 102-103, pagine 20-21, in Le tragedie, traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori, Milano 20133, pagine LXXXII-1245.
Le successive citazioni saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti da quelli della pagina dell’edizione Centanni/Meridiani.

Dell’amore

Il fiume, l’amore, la morte
in MitoMania. Conversazioni con le Ninfe e i Fiumi
a cura di Sergio Russo
Diacritica Edizioni, Roma 2020
pagine 61-73

  • Indice del saggio
    -Un fluire naturale
    -Proust: una fenomenologia dell’amore
    -Gocce e frammenti
    -Il mito
    -L’estuario

Nel settembre del 2019 si svolse a Siracusa/Catania un Convegno dedicato alle Ninfe e ai Fiumi. La relazione che vi tenni è ora stata pubblicata negli Atti di quell’evento che fu insieme erudito e piacevolissimo.
Nel mio intervento cercai di argomentare delle verità evidenti, delle quali però non sempre siamo consapevoli. Per esempio del fatto che l’amore che nutriamo è così forte in noi, l’amore che riceviamo ci esalta così tanto, perché l’amore che riceviamo è in realtà un riflesso dell’amore che nutriamo. Il fluire amoroso è espressione, forma e figura dell’inevitabile solitudine dell’umano.
Ma il cuore della passione amorosa è un cuore sacro: nella vita degli umani l’irrompere dell’Altro costituisce un’epifania. Del dio l’oggetto amato possiede anche l’inevitabile carattere di distanza, di estraneità, di perfezione mai raggiunta. La passione amorosa è un fluire numinoso, che investe, trasforma, esalta e abbatte le nostre vite. L’oggetto amoroso è così potente poiché è figura dell’oggetto divino.
Ci innamoriamo anche per avere un dio da onorare ed essere onorati dall’Altro come se fossimo un dio. 

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