Skip to content


Castelbuono

Intanto partendo dalla zona etnea ci si arriva attraversando i magnifici, freschi, silenziosi boschi dei Monti Nebrodi. Dopo Cesarò (arroccata su uno sperone di roccia che al di là del Simeto guarda tutta la magnificenza dell’Etna) e prima di Sant’Agata di Militello c’è solo San Fratello (arroccato anch’esso tra i monti e il mare). Nel mezzo faggi, querce, lecci, roverelle e altri alberi, il respiro della Terra. Nel mezzo cavalli, piccoli maiali neri, mandrie di mucche, greggi di pecore e capre. Nel mezzo la nebbia anche ad agosto, la pioggia, la frescura.
Poi l’autostrada da Sant’Agata sino a Castelbuono. Dove le case e le strade sono circondate da montagne, alture, boschi che si vedono, intravedono e ammirano da ogni punto del paese. Dove l’intrico delle stradine medioevali scandisce un’armonia fatta di pietre, di scalinate e di una toponomastica nella quale una stradina a gradoni, ricolma di belle piante, è intitolata a «Giovanni III di Ventimiglia, I Principe di Castelbuono (1550-1619)».
Fu infatti la famiglia dei Ventimiglia, originaria della Liguria, a fortificare questo luogo con un Castello che al paese dà non soltanto il nome ma anche l’identità e la bellezza. L’esterno è di una semplicità che ben si coniuga alla potenza. L’interno è sede del Museo Civico, articolato nelle sezioni di archeologia medioevale, urbanistica (attualmente chiusa), arte sacra, arte moderna e contemporanea e l’assai bella Cappella Palatina, decorata in ogni angolo dagli stucchi di Giuseppe e Giacomo Serpotta.
A breve distanza dal Castello si trova la Matrice Vecchia, un vero e proprio museo d’arte sacra dentro il quale si rincorrono affreschi medioevali alle colonne, il fastoso Polittico rinascimentale dell’Altare Maggiore e una cripta interamente decorata da affreschi che narrano la Passione.
Tra le altre (tante) chiese, due sono di particolare rilievo: la prima è San Francesco d’Assisi, che ospita il mausoleo e le tombe dei Ventimiglia e un bel chiostro dove meditare; la seconda è dedicata alla Madonna dell’Itria, un edificio in non ottime condizioni e il cui ingresso è in parte occupato e nascosto dai tavolini di un bar ma che ha un altare dedicato alla Vergine Odigitria, una singolare madonna viaggiatrice.
Tutto a Castelbuono ruota sull’asse che collega il Castello a Piazza Margherita ed entrambi gli spazi alle altre strade che da qui si dipanano e che questi luoghi intersecano. Nelle vie del centro storico tutto è pulitissimo, nessuna cartaccia a terra, nessuna sporcizia. Una rarità per la Sicilia.
Gli abitanti di questo luogo sono particolarmente gentili. Che discendano dai contadini, dai campieri, dai mercanti, dagli artisti e forse anche dai signori, l’impressione è che sappiano di non essere lì per caso, di avere un’identità che affonda nel tempo. Condizione essenziale per essere abitatori di una città e non soltanto gli occupanti delle sue case, condizione essenziale per essere degli umani radicati in un territorio e non i sudditi dello sradicamento (Bodenlosigkeit) e della devastazione (Verwüstung), pericolo dal quale i Taccuini neri (Schwarze Hefte) di Heidegger mettono con saggezza in guardia.

 

Randazzo

Da ragazzo ho molto frequentato e vissuto questa città normanna e in essa torno sempre volentieri. Città fortezza fatta di pietra lavica (il cratere centrale del vulcano dista soltanto 15 chilometri), di chiese la cui materia è nera, la cui forma è gotico-rinascimentale, le cui pale, altari, affreschi, soffitti, le rendono musei per tutti.
A San Nicolò (a destra) si giunge attraversando Via degli Archi, un pezzo di Medioevo ancora intatto con i suoi archi a sesto acuto, le bifore, lo spazio ristretto tra le mura. In fondo alla Via si arriva a un lato della chiesa, girando intorno al quale si apre una facciata che sembra un funerale pronto per la festa.

San Martino (a sinistra) ha un magnifico campanile puntato verso la luna, i sogni, le nuvole. Vicino alla chiesa si trova l’unica torre della cinta muraria (voluta da Federico II Hohenstaufen) sopravvissuta alle vicende della storia, il «Castello svevo», che fu prima dimora di signori e poi carcere e adesso è sede di un Museo archeologico purtroppo aperto soltanto di mattina.

Tornando indietro verso il centro del borgo si trova il Municipio, un piccolo monastero con il suo bel chiostro, sempre tutto nero.
E poi si incontra il capolavoro della città, la Chiesa Basilica di Santa Maria, costruita nella prima metà del Duecento quasi a picco sulla valle dell’Alcantara, con un magnifico portale gotico, con imponenti strutture che sembrano pronte a sostenere l’invasione di mille diavoli, con un interno scandito da colonne tutte in pietra lavica (immagine di apertura).
Il nero su nero di Randazzo è circondato a sud dalle alture dell’Etna, a nord-ovest, oltre il fiume, dalle colline d’argilla dei Nebrodi, che si perdono e diramano a est verso Taormina. Lo spazio e il tempo diventano e sono qui davvero inseparabili. La forma urbis così regolare e così antica dà ragione a Giambattista Vico sulla possibilità che gli umani hanno di conoscere alla fine soltanto ciò che essi stessi fanno, costruiscono e immaginano: le case, le strade, la storia. «Questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana» (Scienza nuova, libro I, sezione 3).

Vai alla barra degli strumenti