Skip to content


Spinoza

Il problema Spinoza
(The Spinoza Problem, 2012)
di Irvin D. Yalom
Trad. di Serena Prina
Neri Pozza Editore, 2013
Pagine 444

«Il mio professore affermava che Spinoza era l’uomo più intelligente che avesse mai posato il piede sulla terra» riferisce il dottor Pfister, uno dei personaggi del romanzo (pag. 236). Affermazioni come queste sono naturalmente sempre iperboliche ma nel caso di Bento Spinoza si avvicinano molto alla realtà. La figura, l’opera, le idee di questo filosofo hanno costituito sempre “un problema” per ogni individuo e ogni comunità arrancanti dietro un dogma nell’accidentato percorso del vivere. Spinoza, infatti, fu soprattutto un uomo che pose al centro della propria esistenza la libertà dalle verità rivelate e dalle passioni, «la libertà di pensare, di analizzare, di trascrivere i pensieri poderosi che gli echeggiavano nella mente» (108). Obiettivo e modalità di vita del tutto incompatibili con ogni chiesa e ogni religione. Che si tratti di ebraismo (la concezione di vita nella quale venne educato), di cristianesimo, di islamismo o d’altro, «le autorità religiose di tutti i generi cercano di impedire lo sviluppo delle nostre facoltà razionali» pensava Bento (165). Tali autorità cercano infatti di tenere gli umani sotto controllo tramite l’alternarsi di paure e di speranze, paura delle punizioni terrene ed eterne, speranza che il singolo possa sopravvivere per sempre, al di là della sua morte. Spinoza desiderava invece vivere libero da tali emozioni e per questo auspicava «la fine di tutte le tradizioni che interferiscono con il diritto di chiunque di pensare con la sua testa» (248) e si oppose quindi non soltanto ai dogmi dell’ebraismo ma anche al culto idolatrico che gli ebrei rivolgono verso la Scrittura. Il risultato fu il cherem del 27 luglio 1656, una scomunica e una maledizione implacabili, che Yalom riporta per intero alle pagine 200-201. Ne trascrivo qui una parte, con una diversa traduzione:

«In conformità alla decisione degli angeli e al pronunciamento dei santi, secondo l’ispirazione del sommo Iddio e l’approvazione di questa comunità, bandiamo, scomunichiamo, malediciamo e scacciamo Baruch de Espinoza. […] Sia maledetto di giorno e sia maledetto di notte, sia maledetto quando si posa e sia maledetto quando si leva, sia maledetto quando esce e sia maledetto quando entra. Che Dio non lo perdoni mai! Che l’ira e il furore di Dio si infiammino contro quest’uomo e su di lui riversino tutti gli anatemi e le maledizioni che sono iscritti nei libri della Legge. Dio annienterà il suo nome sotto il cielo e lo separerà, per il suo male, da tutta la stirpe d’Israele con tutte le maledizioni del cielo che sono iscritte nei libri della Legge. […]  Noi ordiniamo che nessuno abbia rapporti con lui né orali né scritti, che nessuno gli presti alcun soccorso, che nessuno stia mai insieme a lui sotto un tetto o nel raggio di quattro passi, che nessuno legga mai un’opera scritta e pubblicata da lui».

«Durante la lettura di questa maledizione si sentiva di tanto in tanto cadere la nota lamentosa e protratta di un grande corno; le luci che si vedevano ardere brillanti al principio della cerimonia, vennero spente ad una ad una, a mano a mano che si procedeva, fino a che alla fine si spense anche l’ultima, simboleggiando l’estinzione della vita spirituale dello scomunicato, e l’assemblea rimase completamente al buio»1.
Che cosa scatenò una simile violenza da parte della comunità sefardita di Amsterdam? È anche a tale domanda che cerca di rispondere questo «romanzo di idee», come lo definisce il suo autore (7), strutturato in una trama che alterna l’Olanda del Seicento con la Germania del XX secolo. Yalom prende infatti spunto dall’espressione che si legge nel rapporto steso da un ufficiale nazionalsocialista in occasione della confisca attuata nel 1942 -dai reparti speciali di Alfred Rosenberg- dei 151 volumi della Biblioteca di Spinoza a Rijnsburg, presso la casa-museo dedicata al filosofo. In tale rapporto (siglato nel processo di Norimberga come “documento 17b-PS”) si accenna alla necessità della confisca anche in relazione all’«esplorazione del problema Spinoza» (426 e 439). Da questo accenno Yalom fa partire una storia che ha come protagonista, insieme a Spinoza, l’ideologo del Partito Nazionalsocialista Alfred Rosenberg, il cui totale antisemitismo razziale si immagina essere stato turbato sin dagli studi liceali dal sapere quanto e come Spinoza fosse stato venerato da alcuni dei più grandi filosofi e artisti tedeschi, tra i quali Hegel, Schopenhauer, Nietzsche e soprattutto Goethe, il quale afferma che la lettura dell’Ethica contribuì in modo determinante a restituirgli serenità e fiducia nella razionalità umana. In una pagina di Poesia e verità Goethe riconosce in tutta la sua ampiezza l’influsso esercitato da Spinoza su di lui: «Dopo che mi ero guardato attorno in tutto il mondo per trovare un mezzo di foggiare la mia strana natura, mi imbattei alla fine nell’Ethica di quest’uomo. Non saprei render conto di quello che ho tratto dalla lettura di quell’opera, di quel che ci ho messo di mio: basti dire che vi trovai un acquietamento delle passioni, e parve che mi si aprisse un’ampia e libera veduta sul mondo sensibile e morale. Ma quel che mi avvinse di più fu lo sconfinato disinteresse che traspariva da ogni massima. Quelle parole singolari: “Chi ama Dio davvero non deve pretendere che Dio a sua volta lo ami” con tutte le premesse su cui si basano, con tutte le conseguenze che ne derivano, riempirono tutta la mia facoltà di riflessione»2.
Yalom suppone che Rosenberg fosse stato tormentato per tutta la vita dalla profonda ammirazione e gratitudine dell’‘ariano’ Goethe verso l’‘ebreo’ Spinoza e su questo inventa una storia plausibile, affascinante e originale nell’alternarsi di epoche, di uomini, di tragedie. Il valore filosofico del romanzo sta nel suo essere intessuto e percorso da moltissime citazioni tratte dai libri di Spinoza. Tra queste ricordo soltanto due brani: nella prefazione alla terza parte dell’Ethica Spinoza afferma che «humanas actiones atque appetitus considerabo perinde ac si quæstio de lineis, planis aut de corporibus esset», vale a dire – come scrive Yalom – che intende «trattare le azioni, i pensieri e gli appetiti umani proprio come se fossero composti di linee, piani e corpi» (275); le parole con le quali si chiude l’Ethica sono queste: «Sed omnia præclara tam difficilia quam rara sunt» che qui diventano «Tutte le cose eccellenti sono difficili, poiché sono rare» (412). Ma il libro, e questo è un suo limite consistente, è anche impregnato di psicoanalisi, la quale può certamente illuminare molte delle ragioni profonde dei sentimenti e dei comportamenti umani ma che qui appare come l’unica capace di pervenire alle loro radici3.
Il pensiero e l’esistenza di Bento Spinoza non possono essere ricondotti a una psicologia del profondo bensì a una metafisica razionalistica che però è ben consapevole della natura umana, per la quale -come sintetizza correttamente Yalom- «solo un’emozione più forte può avere la meglio su un’altra emozione. Il mio compito è chiaro: devo imparare a trasformare la ragione in una passione» (285); la prop. 14 della IV parte dell’Ethica afferma infatti che «vera boni et mali cognitio quatenus vera nullum affectum coercere potest sed tantum quatenus ut affectus consideratur (la vera conoscenza del bene e del male non può impedire nessuna passione in quanto vera, ma soltanto in quanto è considerata come passione essa stessa)». Spinoza riconosce che le passioni costituiscono la potenza più grande e quindi l’uomo saggio trasforma la conoscenza nella passione suprema, l’unica in grado di sottomettere tutte le altre. Parte fondamentale di tale metafisica è la concezione della mente umana come identica alla corporeità -modi diversi della stessa sostanza-, mente la cui potenza consiste anche nel determinare «quello che è spaventoso, privo di valore, desiderabile, inestimabile, e quindi è la mente, e solo la mente, che deve essere modificata» (32).
E Rosenberg? E i nazionalsocialisti? Di fronte a uomini come Spinoza, Goethe, Nietzsche, il manipolo di sedicenti Übermenschen che si raccolsero intorno a Hitler non possono che apparire -non soltanto in questo romanzo ma in ogni ricostruzione storica e biografica- come dei soggetti del tutto ignoranti e ottusi nel loro ripetere all’infinito e in modo ossessivo il mantra della razza; gente capace di semplificare in modo rozzo ogni più complessa questione. Tra costoro Rosenberg fu l’ideologo del regime, le cui astrusità nessuno però prendeva sul serio, neppure il suo Führer, al quale rimase tuttavia fedele sino alla fine, sino a Norimberga e all’impiccagione: «A differenza degli altri imputati, Rosenberg non ritrattò mai. Alla fine rimase l’unico a crederci ancora veramente» (432-433). Esempio chiaro di come ben poco si possa fare quando un coacervo di passioni domina gli umani. Quel coacervo che l’intera filosofia di Spinoza cerca di sciogliere, illuminare, capovolgere in saggezza. È anche per questo, per il modo in cui lo ha fatto, che Spinoza è davvero uno degli uomini più intelligenti e più liberi che siano mai esistiti.

Note

1 Emilia Giancotti Boscherini, Baruch Spinoza 1632-1677, Dichiarazione rabbinica autentica datata 27 luglio 1656 e firmata da Rabbi Saul Levi Morteira ed altri, Roma, Editori Riuniti 1985, pp. 13 e sgg.

2 In F. Mignini, Introduzione a Spinoza, Laterza 1984, p. 194; testo citato in parte da Yalom a p. 58. Nietzsche così ricorda la venerazione di Goethe per Spinoza: «Spinoza, di cui Goethe diceva: “mi sento molto vicino a lui, benché il suo spirito sia molto più profondo e puro del mio”,- chiamandolo talvolta il suo santo» (Frammenti postumi 1887-1888, in «Opere», vol. III/2, 9 [176], p. 91).

3 L’Autore è psichiatra alla Stanford University e già in E Nietzsche pianse (Rizzoli 1993) ricostruiva il pensiero nietzscheano a partire da un incontro immaginario tra Nietzsche e Josef Breuer, di fatto uno dei fondatori/ispiratori della psicoanalisi.

 

Nord

Nord
(Gallimard, 1959)
di Louis-Ferdinand Céline
Traduzione di Giuseppe Guglielmi
In TRILOGIA DEL NORD
Edizione presentata, stabilita e annotata da Henri Godard
Einaudi, Torino 2010
Pagine XXXIX-1092 (Nord, pp. 293-683)

 

Zornhof è il luogo a cento chilometri a nord di Berlino dove il narratore viene confinato dopo aver girovagato da un castello all’altro. Ancor più che a Sigmaringen, la putrefazione del regime nazionalsocialista è qui evidente. Lo è al modo di un teatro di marionette nel quale tutti -feudatari prussiani, matrone russe, prigionieri politici, militari tedeschi, zingari, profughi- recitano la propria parte di folli in un mondo estremo, il mondo nel quale «la ragione è morta nel ’14, novembre ’14…dopo è finito, tutto scazza…» (pag. 443).
In questo mondo di pazzi la lucidità di Cèline è stupefacente. Lucidità su se stesso, sulla «magia della sua povera persona, così gratuita» e capace d’essere riuscita «in questa acrobazia che si trovano tutti d’accordo, un attimo, destra, sinistra, centro, sagrestie, logge, cellule, carnai, il conte di Parigi, Joséphine, mia zia Odile, Krukrubezev, l’abate Tiralira, che [io] sono la più gran sozzeria vivente» (469 e 599).
L’inquietudine che non gli fa godere l’istante è stata presa per inaffidabile cattiveria. L’innata curiosità che gli farebbe «scalare la torre Eiffel con i miei due bastoni» «per imparare anche una piccola cosa, una sciocchezza» (548) è scambiata per cinismo. L’anarchismo -«anarchico sono, come ieri domani, e me ne frego proprio delle opinioni!» (383)- è diventato immoralità. Ma è che «tutti i vinti son spazzatura!…lo so…eccome…» (303).
E tuttavia questo sconfitto della storia ha saputo persino profetizzare il futuro dell’Europa fatto di moneta  unica, di pensiero unico: «Berlino, Parigi, un’ora appena! […] il progresso di domani! dopo la guerra!…una sola moneta e l’aereo! un’ora!… piú passaporti!» (458-459). Questo sconfitto dalla passione ha descritto il patetico dell’umano e dell’amore come solo Proust ha saputo fare:

Ma i «figami» non sono solo corpi!… zotico! sono «compagne»! e i loro cinguettii, incanti e ghingheri? buon pro vi facciano! se ci avete il gusto del suicidio, incanti e cinguettii, tre ore al giorno, impiccarvi vi farà un bene boia!… lunga! corta!… sia detto senza cattiva intenzione! o passerete tutta la vecchiaia ad avercela col vostro uccello per avervi fatto perdere tanti di quegli anni a piroettare, scalpitare… fare il bello, sulle vostre zampe anteriori, su un piede, l’altro, per avere l’elemosina di un sorriso…(463)

Tutti cerchiamo di elemosinare un sorriso dentro «sta troia merda di esistenza…» (444). C’è chi per carattere e per storia ha imparato a pensare soltanto a sé, e sono la più parte -«quando la gente si preoccupa di te è a loro che pensano» (622)- e c’è chi commette l’errore che anche Proust aveva compreso quando afferma che «le due massime cause d’errore nei nostri rapporti con un’altra persona sono di aver buon cuore, oppure, quell’altra persona, amarla. Si ama per un sorriso, per uno sguardo, per una spalla. Tanto basta» (La fuggitiva, Einaudi 1978, p. 121). Anche Céline pensa che «il crimine, umanamente parlando, l’imperdonabile errore: pensare agli altri!…Prudenza, Egoismo fanno una coppia perfetta, schifosa, merdosa, ma così compatta; adorabile, solida!» (520). Non è forse vero, ad esempio, che bisogna possedere almeno un poco di nobiltà per continuare a rispettare una persona che ti ama molto e che si prostra ai tuoi piedi, al tuo cuore? Quante persone conosci, lettore, capaci di tale rispetto?
Ma nonostante la nostra specie che «infila, genera, stronca, squarta, si ferma mai da cinquecento milioni di anni…che ci sono uomini e che pensano…storto e di traverso, vai a capire, ma forza! copulano, popolano, e braoum! tutto esplode! e tutto ricomincia!» (517), nonostante la storia e la ferocia degli umani «c’è del buon cuore dove che sia, non si può dire che tutto è crimine…» (409).
Quel qualcosa di buono che pur esiste va prima visto per poter essere poi anche vissuto. E «non vediamo che quel che guardiamo e non guardiamo se non quello che abbiamo già in mente…» (479). La più parte degli umani è cieca alla luce. E forse soltanto il bagliore immenso di una catastrofe tecnologica e bellica potrà aprirle gli occhi.
Tutto questo può fare a meno del contesto in cui Nord si svolge. Al di là della storia, al di là della contingenza e dell’ora di un momento -che sia il 1944 o altro- la parola di Céline è al sempre che guarda, è il sempre che coglie.

 

Nazisti ad Atene

Appartamento ad Atene
di Ruggero Dipaola
Con: Gerasimos Skiadaressis (Nikolas Helianos), Laura Morante (Zoe Helianos), Richard Sammel (Il capitano Kalter), Vincenzo Crea (Alex Helianos), Alba De Torrebruna (Leda),
Italia, 2011
Trailer del film

Atene è occupata dalle truppe tedesche. Il capitano Kalter sceglie come propria dimora l’appartamento di Nikolas Helianos, un editore di ottimi libri scolastici, un uomo colto e mite che si mette al servizio del capitano per evitare guai alla moglie e ai suoi due figli. Un terzo, il maggiore, è morto in guerra. Nonostante la sua patina di cortesia, il soldato è arrogante e violento. Quando però ritorna dopo un breve soggiorno in Germania sembra mutato. Un dolore profondo lo intride. Ma, come dice Nikolas dialogando con lui, il dolore non migliora nessuno. Può soltanto rendere più ciechi, come accadde a Edipo.
Il dramma di questa famiglia viene narrato con sobria lucidità. La luce intride gli spazi e le cose, contraltare evidente al buio della storia. Le vittime conservano la loro dignità, nonostante ciascuno lo faccia in modo assai diverso. Il dodicenne Alex con una evidente insofferenza e ribellione verso l’intruso; la sorella con il fascino infantile che la divisa esercita su di lei; la madre con una gentilezza che non diventa mai familiarità. E il padre con un moto di solidarietà che lo perderà ma che ne mostra tutta la nobiltà rispetto alla sostanziale viltà del più forte. «È la guerra. Vince uno solo. Se avessimo vinto noi, saremmo andati a occupare le case degli altri», questo dice Nikolas ai propri cari per tranquillizzarli.
Un elogio merita la recitazione in presa diretta, senza doppiaggio, che finalmente restituisce agli attori la voce del corpo.

 

Come se

« “Lo Stato non può processare se stesso”, diceva Leonardo Sciascia. E oggi Berlusconi è lo Stato». Anche per questo ieri a Brescia il Movimento 5 Stelle ha gridato insieme ai centri sociali contro la tracotanza dei mafiosi al potere. E ha fatto benissimo.
Una rivolta che le televisioni hanno ripreso e trasmesso in modo da ignorarne e cancellarne l’esistenza, confermando ancora una volta la natura reazionaria del mezzo televisivo. Su questo evento si è steso anche il gravissimo e complice silenzio del Partito Democratico e dell’inquilino del Quirinale. Ma una manifestazione organizzata da massoni (P2) e fascisti allo scopo di difendere un pubblico delinquente si è per fortuna trasformata nella dimostrazione che gli italiani conservano ancora la forza di dire no alle mire e agli interessi del tiranno. Forza che il PD ha invece perduto. Tutti i partiti politici hanno dei limiti ma essi impallidiscono di fronte all’alleanza del Partito Democratico con Silvio Berlusconi. È come se si fossero alleati con i nazisti.

 

L’orrore, lo stile

Da un castello all’altro
(D’un château l’autre, Gallimard, 1957)
di Louis-Ferdinand Céline
Traduzione di Giuseppe Guglielmi
In TRILOGIA DEL NORD
Edizione presentata, stabilita e annotata da Henri Godard
Einaudi, Torino 2010
Pagine XXXIX-1092 (Da un castello all’altro, pp. 1-291)

Nessuno probabilmente è riuscito a descrivere l’immane tragedia della Seconda guerra mondiale come ha fatto Céline. Non gli eventi, non le ragioni, gli sviluppi e le conseguenze ma il senso profondo e totale di un sabba della guerra e della morte. «Siccome la natura umana cambia in niente di niente, mai! gameti immutabili» (pag. 54) il bisogno di aggredire, far male, squartare e uccidere si ferma soltanto di fronte alla morte che arriva e alla tecnologia che manca. Quando quest’ultima offre invece gli strumenti dello sterminio, ecco che esso accade. Da quel ridotto che è il castello di Sigmaringen, luogo nel quale il nazionalsocialismo al tramonto rinchiuse Pétain e i suoi ministri, Céline è capace di esprimere il significato della distruzione  universale senza mai trascurare i piccoli eventi dei quali fu testimone, anzi stando addosso a essi come se fossero gli unici a contare. Di eco in eco, di notizia in notizia, di caduta in caduta, è però l’intera Europa che qui si dà appuntamento e che finisce. Al di là della cronologia, Céline racconta un’esistenza inventata e insieme realissima, dove ogni particolare diventa essenziale a dar luce alla tenebra generale degli eventi. Céline scrive che «la Cancelleria del Grande Reich aveva trovato per i Francesi di Siegmaringen una certa maniera di esistere, né del tutto fittizia, né del tutto reale» (219). Esattamente come il romanzo, né del tutto fittizio né del tutto reale e in questa convergenza straordinariamente vero. Perché è tutta la vita, la vita stessa, la vita intera, «uno slancio che bisogna far finta di crederci… come se niente fosse… più oltre! più oltre!» (136).
E allora il disgusto per gli umani -«Se sei quanto mai zelante puoi aspettarti il peggio…» (61)- si coniuga a una sincera e dolente pietà verso le miserie di ciascuno -«Fidato responsabile che sono! cuore d’oro! il mondo mi ci ha ben ringraziato!» (153)-, a una richiesta di «perlomeno un poco di cortesia! mica poi ci si scortica a essere un poco gentili…» (273), all’auspicio -formulato durante un’intervista radiofonica del 1961- «che nessuno soffra per me, a causa mia, intorno a me, e poi crepare tranquillamente, punto» (Prefazione, p. XXX). Ma quando l’ingiustizia e la meschinità si fanno più fonde, allora Céline giustamente non perdona. Non lo fece, non lo poteva fare, con Jean-Paul Sartre che a freddo lo calunniò scrivendo che «se Céline ha potuto sostenere le tesi socialiste dei nazisti lo ha fatto perché pagato» (Temps modernes, numero 3, qui a p. 978), mentre lo scrittore era invece -davvero- «così totale astioso di ogni traffico di soldi» (54) da non farsi pagare praticamente mai dai suoi pazienti di periferia.
Capace di una radicale gratuità, quest’uomo era capace anche di un «vero odio! mica il “pressappoco”!» (90), l’odio che si esprime in una pagina paradigmatica, plebea e raffinata come tutti i suoi romanzi:

Ma ho forse torto a lamentarmi… la prova, io sono ancora vivo… e perdo dei nemici tutti i giorni!… di cancro, di apoplessia, di ludreria… è un piacere come che si svuota il sacco!… non insisto… un nome!… un altro!… ci sono dei piaceri nella natura…  (24)

L’amore e l’ammirazione verso gli animali non umani sono invece profondi, poiché «gli animali sono innocenti» (113). Il ritratto di Betty, una delle sue cagne, è commovente:

Eppure una cagna che adoravo… e lei pure… credo che mi amava… ma la sua vita animale prima di tutto! per due… tre ore… contavo più… era in fuga, in furia nel mondo animale […] è morta qui a Meudon, Bessy, è sepolta là, proprio di fronte, nel giardino, vedo il tumulo… ha molto sofferto per morire… credo, di un cancro… ha voluto morire solo che là fuori… io le tenevo la testa… l’ho abbracciata sino alla fine… era veramente la bestia splendida… una gioia a guardarla… una gioia da vibrare… come era bella!… (112).

Nessuna bestialità, nessuna ferocia sono paragonabili a quelle degli umani. A Siegmaringen arrivano notizie e testimonianze viventi dell’orrore perpetrato e subìto. Come a Ulma -i cui bagliori ricordano agli abitanti del castello che anch’essi possono finire bruciati dai bombardamenti- e soprattutto a Dresda, il grande crimine della Seconda guerra mondiale: «Parlano mai, ed è un torto, come che i propri fratelli loro, furono trattati arrostiti in Germania sotto le grandi ale democratiche… c’è ritegno, non se ne parla… avevano solo da non stare lí!… è tutto!» (205).
Lo stile puro sino all’intransigenza di questo Maestro aveva come esplicito obiettivo di lasciar stare le “storie”, il plot, la trama, perché «è lo stile che è interessante». Non è il soggetto ma «è il modo di renderlo che conta» (da un’intervista, qui a p. XXXI). Liberarsi dal soggetto della narrazione come se ne sono liberati i pittori, «ho tentato la stessa avventura» (922). I pittori. Il riferimento non è certo casuale. Queste pagine fanno vedere l’orrore e il comico intrecciati e inestricabili. Come se Bosch, Bruegel e Grosz avessero dipinto insieme un affresco. Questo affresco è l’intera opera di Céline.

Il passato che non si vuole fare passare

Il debito
di John Madden
(The Debt)
Con: Helen Mirren (Rachel Singer), Jessica Chastain (Rachel da giovane), Jesper Christensen (Dieter Vogel), Ciarán Hids (David), Sam Worthington (David da giovane), Tom Wilkinson (Stephan), Marton Csokas (Stephan da giovane)
Usa, 2010
Trailer del film

Nel 1966 a Berlino Est tre agenti del Mossad (il servizio segreto israeliano) rapiscono e catturano Dieter Vogel (“il medico di Birkenau”) allo scopo di condurlo a Gerusalemme e sottoporlo a processo. Qualcosa però va storto e i tre rimangono imprigionati insieme al criminale nazionalsocialista in un appartamento berlinese, dove Vogel si mostra assai più abile di quanto avessero immaginato. Decenni dopo, la verità ufficiale che li ha resi eroi si scontra con una verità diversa. E la lotta sembra non finire, intrecciandosi ai rapporti affettivi mai sopiti tra la ragazza e i due uomini, adesso tutti maturi sessantenni.
Si tratta del remake di Ha-Hov di Assaf Bernstein (Israele, 2007), una Spy Story piuttosto improbabile, il cui elemento migliore sono le scene d’azione, appunto. L’andare e venire tra il passato di Berlino e il presente di Tel Aviv rimane meccanico nel rendere il peso della memoria e di una menzogna prolungata nel tempo. E alla fine si ha la sensazione di un’apologia del feroce servizio segreto israeliano. Un libro di Ernst Nolte criticava sin dal titolo il pietrificarsi del passato –Germania: un passato che non passa (Einaudi 1987)- ritenendolo un’assurdità storiografica e metafisica. Nietzsche ha difeso con molti argomenti la necessità del dimenticare per vivere ancora. Due grandi accordi di pace come l’Editto di Nantes (1598) e il Trattato di Vestfalia (1648) prevedevano delle esplicite “clausole d’oblio”. Esattamente l’opposto delle troppe “giornate della memoria”, uno dei cui effetti è mantenere vivo il rancore, la violenza, l’odio. Forse è bene che anche al cinema, che se ne è occupato in una miriade di modi, quel passato ebraico lasci il posto ad altri stermini, più recenti e non meno atroci.

Mente & cervello 77 – Maggio 2011

Il corpo è anche la relazione con lo spazio, la struttura prossemica che segna le diverse distanze alle quali permettiamo agli altri di incontrarci, la «bolla virtuale che circonda ciascuno di noi e dove la gente non penetra abitualmente, salvo per gesti sociali ammessi, come la stretta di mano» (N. Guéguen, p. 27). Penetrare con maggiore o minore facilità nello spazio altrui, permettere che altri entrino nel nostro o proibirlo è una delle manifestazioni più chiare -perché in gran parte involontarie- della “dominanza”, di quel legame di ciascuno con ogni altro umano fatto anche di autorità e che sembra davvero non risparmiare «né le relazioni tra amici né quelle tra familiari o di coppia» (Id., 28).
La “chimica del maschio dominante”, alla quale questo numero di Mente & cervello dedica alcuni articoli, arriva al parossismo storico nel potere totalitario esercitato da alcuni gruppi, come quello nazionalsocialista. Della personalità di Hermann Goering si occupa lo psichiatra Douglas Kelley con il resoconto degli incontri che ebbe col vice di Hitler e Maresciallo del Reich, prima e durante il processo di Norimberga. Le conclusioni a cui Kelley pervenne furono che «Goering e i suoi accoliti fossero persone comuni, e che le loro personalità “potevano ripetersi oggi in qualsiasi paese del mondo”» (J. El-Hai, 53). Questo conferma che spiegare il nazionalsocialismo o qualsiasi altro fenomeno politico con la categoria della “pazzia” è del tutto privo di senso. Gli eventi storici hanno cause economiche, sociali, antropologiche e nessuna interpretazione soltanto psicologica e privata può darne conto.
La tristezza della storia collettiva ha il suo riflesso in quella delle vite individuali. Anche per questo la medicalizzazione della tristezza sotto il nome di “depressione” è in gran parte scorretta e frutto degli interessi delle case farmaceutiche e di alcuni psichiatri, come documenta il libro di Gary Greenberg dedicato alla Storia segreta del male oscuro, recensito da M. Capocci (pp. 104-105). Ai «problemi difficili della vita» si può rispondere, certo, anche con dei farmaci -visto che siamo chimica che cammina- ma soprattutto con quell’«esercizio della saggezza» che aiuti a «fare pace con il proprio passato e a proiettarsi verso il futuro» (K. Baumann e M. Linden, pp. 84-89), visto che siamo tempo che cammina.

 

Vai alla barra degli strumenti