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Il vulcano della storia

Maxim Kantor. Vulcano
Fondazione Stelline – Milano
A cura di Alexandr Borovsky e Cristina Barbano
Sino al 6 gennaio 2013

Siamo seduti sul vulcano della Natura e su quello della storia. Pronti a inghiottirci entrambi in qualunque istante. Conoscerli è il lavoro della cultura. La razionalità dovrebbe indurci a rispettare sempre la Natura come la madre dalla quale traiamo respiro, vita e senso. Essa non è benevola né matrigna (è questo l’errore antropomorfico del grande Giacomo); per certi versi essa neppure è. Ciò che chiamiamo Natura non è struttura ma è un’immagine del divenire innocente e immenso della materia, nella quale abbiamo il peso di un granello di sabbia su una spiaggia tropicale.
La stessa razionalità dovrebbe indurci a non piegarci mai all’apologia della storia, se essa si presenta come apologia del potere. Neppure la storia in realtà esiste, se con essa si intende un processo teleologico, una provvidenza immanentistica. Schopenhauer, Tolstoj, Popper hanno mostrato in modi diversi come si tratti soltanto di un coacervo feroce di eventi ai quali si attribuisce a posteriori un senso.
Sono gli artisti -almeno qualche volta- a mostrare la miseria del potere e della storia. Maxim Kantor (1957) è tra questi. Le sue grandi tele si muovono tra il riferimento all’iconismo russo e la chiara continuità con l’espressionismo europeo, con la declinazione grottesca degli spazi, delle figure, delle situazioni. I ritratti di  Tolstoj, Marx, Lenin hanno l’ingenuità della tradizione popolare. Sarcastici e implacabili, invece, sono i dipinti dedicati alla Torre di Babele (2005, chiaramente ispirato al grande modello di Bruegel); alla Società aperta (2002), descritta come società della miseria e della fame; alla Folla solitaria (2011-2012), un’ammucchiata di solitudini; e soprattutto allo Stato (1991), un potente vortice di dolore, di erotismo e di prevaricazione.

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Paideia

Platone sta al centro della seconda tappa dell’itinerario di Werner Jaeger (1888-1961) dentro la forma-uomo ellenica. L’analisi delle opere della «più grande personalità di educatore apparsa nella storia del mondo occidentale» (Paideia. La formazione dell’uomo greco. II Alla ricerca del divino, trad. di A. Setti, La Nuova Italia, 1978, p. 40) permette di penetrare a fondo nella complessità dell’antropologia greca. Essa si fonda sull’assunzione della natura come norma e direzione dell’esistere di ogni ente. L’avventura umana consiste nell’aprire lo spazio di massima libertà consentito dalla struttura finita perché biologica della specie. Solo così si comprendono gli importanti legami e debiti di Platone con la medicina greca. Egli trovò la soluzione più originale al problema che muoveva tutta la cultura arcaica e che ha in Eschilo la sua espressione più chiara: l’uomo che erra lo fa perché indotto dagli dèi e tuttavia non per questo la sua colpa è meno grave. Platone contrappone alla forza di Ate la paideia, che ha come «presupposto la libertà della scelta, laddove il potere del demone appartiene al regno della necessità» (643). È qui che nasce l’individuo europeo e cioè la forma umana che oppone alla comunità, allo Stato, a Dio la propria irriducibilità  di singolo. A coloro, come Popper, che guardano con occhi moderni e prevenuti il progetto platonico, va quindi ricordato che «se lo Stato disegnato da Platone è Stato autoritario, ciò non deve però farci dimenticare che la sua fondamentale esigenza –inattuabile nella realtà politica- di fare della verità filosofica l’istanza suprema del potere, scaturisce in realtà da un immenso valore dato alla libera personalità spirituale, non già da un disconoscimento di un tale valore» (471-472).
Il fatto è che si sbaglia completamente prospettiva se si guarda al Platone politico separandolo dall’educatore, come anche viceversa. La centralità dell’impulso educativo da cui muove tutta la filosofia platonica è una cosa sola con l’esigenza di trovare una risposta al problema del potere. Fra individuo e comunità, società e psiche, Platone -come Socrate- instaura una dinamica di reciproca dipendenza per la quale l’uomo equilibrato può crescere solo sul terreno di una società giusta e questa è a sua volta frutto della giustizia nella coscienza del singolo. «Realizza il vero Stato nella tua psyché» (Repubblica 592 A-B) è il finale invito di Platone, con il quale l’unità arcaica fra il singolo, la famiglia, il clan, la polis, si spezza definitivamente.

Nonostante tutta l’importanza che attribuisce all’educazione, Platone «non crede alla uguaglianza meccanica dei suoi risultati, ma fa molto conto delle differenze individuali di temperamento» (404), sa che una precondizione è l’armonia tra intelletto e carattere; inserisce il fatto educativo nella più vasta dimensione sociale, ritenendo responsabili del successo o del fallimento l’intera comunità e non soltanto gli educatori; rifiuta sia la mera costrizione autoritaria come la riduzione del sapere a un gioco; è convinto, infine, con Socrate, che «l’educazione vera è il risvegliare facoltà che nell’anima sono sopite» (512). Proprio per tutto questo, la paideia si rivolge soltanto a coloro che promettono un qualche esito positivo e non a tutti indistintamente. Solo la prontezza nel capire, delle buone doti mnemoniche e specialmente una vera e propria avidità di sapere, richiedono e permettono la paideia. La selezione è quindi un prerequisito della pedagogia platonica, in modo che –al di là delle differenze di nascita, di classe e di sesso- sia la capace intelligenza della persona il criterio di un’educazione giusta.
Qualunque cosa si pensi della terapia platonica, la diagnosi è di grande verosimiglianza. La sua attualità dipende anche dalla perennità della natura umana, alla quale Platone riconosce la possibilità di cogliere il divino ma anche quella di albergare in sé un male profondo che solo la paideia può contenere. Anche per Platone, come per Nietzsche, l’ordine e la razionalità degli Elleni si ergono su uno sfondo di violenza e di furia. Per entrambi al centro sta il sapere, una scienza gaia, poiché «la conoscenza del significato delle cose è anche la forza creatrice che tutte le guida e le ordina […] e trasforma in un valore positivo tutto ciò che è vita, anche quello che sta ai confini oltre i quali il pericolo comincia» (297 e 306).
Il filosofo al potere -un progetto intessuto di convinzione profonda e di rassegnata malinconia- non ha quindi nulla di autoritario e neppure di professorale. Il filosofo è l’uomo formato nella paideia.

[Sul primo volume dell’opera: Educare
Sul terzo volume dell’opera: «Quell’antica luce risplende ancora»]

Natura Regina

God Save the Queen
Gerardo Di Fiore

A cura di Mario Franco
MADRE – Museo d’Arte Contemporanea Donna Regina – Napoli
Sino al 25 giugno 2012

La Regina da salvare è la Terra stessa, è la Natura sovrana di noi tutti, è la forza e il silenzio della Materia. Il felice paradosso è che a pregare per la salvezza dei corpi, delle nuvole, delle tigri, del cielo è un elemento artificiale come la gommapiuma. Gerardo Di Fiore utilizza infatti questo materiale per le sue sculture, trasformandolo in metafora, simbolo, invocazione e ironia.
Così la Risacca trasporta sulle spiagge frammenti umani e animali che emergono dal mare distrutto, diventato catrame; Cave canem è l’annuncio di una morte, un cane appunto senza più vita ma che riflette negli specchi infitti dentro il suo corpo la nostra vita; God Save the Queen racchiude dentro una foresta di bambù una tigre fiera ma perduta in quel labirinto di gommapiuma.
E infine l’opera forse più vorticosa tra le quattro: Gli angeli ribelli. È un bassorilievo nel quale le creature alate, dolci e potenti hanno finalmente abbandonato il loro casto ologramma e si danno all’amore più puro e più sfrenato, in una varietà di posizioni che ci invitano dentro l’Eros della terra madre.
In tutte le opere il biancore della gomma è interrotto da fili rossi e blu che tramano di sé lo spaziotempo e sono forse il baluginio della materia primordiale e di quella attuale, sempre identica e sempre differente.

Mente & cervello 86 – Febbraio 2012

La sezione più interessante di questo numero di Mente & cervello è costituita forse dalle due paginette conclusive dedicate alle recensioni. Vi si parla, infatti, di tre libri fra di loro collegati e dedicati rispettivamente alle dipendenze, al piacere e al determinismo genetico. Nel suo L’istinto del piacere, Gene Wallenstein cerca di spiegare come mai «il nostro cervello è disposto a subire sacrifici, persino sofferenze, prefigurandosi un intenso piacere, anche di breve durata, che ne potrà derivare» (P.Garzia, p. 104). Una disponibilità che ha come effetto la possibile dipendenza da innumerevoli fonti di piacere, molte delle quali dannose. «Ciò che indirizza le nostre preferenze in termini di piacere varia, a volte moltissimo, non soltanto nelle diverse fasi della vita ma pure in rapporto all’ambiente. Potente motore evolutivo, il piacere orienta e guida ogni scelta della nostra vita» (Id., p. 105). “In rapporto all’ambiente”, certo, ma anche con una componente innata di estrema potenza. È quanto sostiene Dick Swaab -recensito da M.Capocci- in Noi siamo il nostro cervello. Il neurobiologo olandese ritiene infatti che noi diventiamo assai presto ciò che siamo: «È la vita intrauterina a decidere molti aspetti della nostra personalità: scelte sessuali, integrazione familiare, fragilità emotive, schizofrenia, nonché altri tratti più o meno patologici sono dovuti alla chimica che il feto esperisce all’interno del ventre materno, oltre che alla genetica ereditata dai genitori» (104).
Ancora una volta, tuttavia, va superata la sterile contrapposizione tra ambiente e genetica. Gli umani sono degli animali sociali che plasmano il proprio cervello in relazione alla cultura e creano cultura con i neuroni. Alcuni esempi? Il sesso: «Per il comportamento sessuale il cervello è essenziale quanto gli organi riproduttivi» (K.Lambert, 41); le malattie, comprese le più gravi: «Negare l’esistenza di una relazione fra sistema immunitario e psicologia non è più possibile ai giorni nostri. Sono infatti troppe le prove che l’organizzazione psicologica o gli eventi stressanti possono influire sulla risposta immunitaria. La branca superspecialistica che se ne interessa è la psiconeuroendocrinoimmunologia, un termine complicato che indica soltanto le possibili interrelazioni fra sistema nervoso centrale, equilibri ormonali e sistema immunitario» (L.Tondo, 7); i sogni, i quali -al di là delle interpretazioni mitologiche o psicoanalitiche (che, in verità, sono quasi identiche, e anzi quelle freudiane sono ancor più arbitrarie di qualunque mito)- non sarebbero altro «che il pensiero di un cervello che si trova in uno stato biochimico diverso. Infatti le esigenze fisiologiche del sonno alterano il suo funzionamento» (D.Barret, 25-26); il sonno stesso -soprattutto quello REM- ha lo scopo psicosomatico di consolidare la memoria.
Ma nell’umano la chimica è inseparabile dalla semantica e quindi «i nostri comportamenti e perfino le nostre reazioni fisiologiche dipendono in larga misura dall’immagine che abbiamo del mondo, più che dalla realtà stessa», come dimostra M.Barberi in un istruttivo e divertente articolo dedicato al bluff in tutte le sue forme e non soltanto in quelle classiche del poker (51-52). Il titolo, infatti, è «la vita è un bluff», per spiegare il quale serve una vera e propria ermeneutica fisiologica oltre che filosofica.

Consilience

L’armonia meravigliosa
Dalla biologia alla religione, la nuova unità della conoscenza
di Edward O. Wilson
(Consilience, 1998)
Trad. di Roberto Cagliero

Il titolo italiano di quest’opera cerca, senza riuscirci, di restituire la densità di contenuto di un termine dell’inglese arcaico come Consilience. Coincidenza, convergenza, unificazione; questo è il plesso semantico che il titolo originale intende evocare. Convergenza tra che cosa? Tra il sapere scientifico e quello umanistico, non due campi separati e distinti -come induce a pensare lo specialismo che va diventando una palude di discipline minori dentro le quali affonda la comprensione del mondo- ma due ramificazioni dell’unico sapere umano e naturale, da apprendere nella sua unitarietà originaria e profonda. La complessità del mondo è incomprensibile senza una visione capace di sintetizzare science e humanities. Infatti,

l’idea centrale della visione coincidente del mondo è che tutti i fenomeni tangibili, dalla nascita delle stelle al funzionamento delle istituzioni sociali, sono fondati su processi materiali in ultima analisi riconducibili alle leggi della fisica, indipendentemente dalla tortuosità e dalla durata delle sequenze (pag. 305).

Comprendere la condizione umana significa anzitutto capire i geni e la cultura. E non come ambiti e funzioni autonome ma nella loro essenziale coevoluzione. L’evoluzione del cervello e quella dei comportamenti hanno proceduto insieme per milioni di anni. La radice di molti dei pericoli che sovrastano la Terra e l’umanità risiede proprio nel fatto che da alcuni millenni -dalla Rivoluzione neolitica- l’evoluzione culturale è diventata incomparabilmente più veloce di quella genetica. Tuttavia, ancora oggi

la cultura è creata dalla mente comune e ogni mente individuale a sua volta è il prodotto del cervello umano, che è strutturato geneticamente. I geni e la cultura sono dunque collegati in modo inscindibile. Ma il collegamento è flessibile, in termini finora quasi del tutto incommensurabili. Ed è nel contempo tortuoso: i geni codificano regole epigenetiche, che sono i percorsi neurologici e gli aspetti regolari dello sviluppo cognitivo grazie ai quali la mente individuale si assembla. La mente cresce dalla nascita fino alla morte assorbendo parti della cultura esistente che trova disponibili, avvalendosi di selezioni guidate dalle regole epigenetiche ereditate dal cervello individuale (144, corsivo dell’Autore).

I concetti chiave sui quali si fonda questo tentativo di unificazione della conoscenza sono i seguenti: epigenesi, natura umana, naturalismo etico, panteismo biologico.

L’epigenesi «definisce lo sviluppo di un organismo sotto l’influsso congiunto dell’eredità e dell’ambiente» (221-222). Educazione e geni, storia e biologia, appreso e innato non sono per nulla in conflitto tra di loro proprio perché «nell’ampia zona che sta a metà tra le visioni estreme del Modello Standard delle Scienze Sociali e il determinismo genetico, le scienze sociali sono essenzialmente compatibili con quelle naturali» (216).

Homo sapiens è una specie appartenente all’ordine dei Primati, la cui identità è data dalle regole epigenetiche, dalle «regolarità ereditarie dello sviluppo mentale che spingono l’evoluzione culturale in una direzione e non in un’altra, collegando così i geni con la cultura» (188). Non c’è nulla di fatalistico in una simile visione dell’umanità. Nessun sociobiologo ha mai sostenuto che le forme specifiche di cultura, i valori di una popolazione, le sue credenze, siano dettati dai geni. Sono gli scienziati sociali, invece, ad assolutizzare una delle due dimensioni, ignorando -a volte ostentatamente- i contributi della genetica e dello studio del cervello umano, l’organo dal quale, dopotutto, nasce ogni pensiero, valore, principio di comportamento. Anche a causa di tale ignoranza, gli scienziati sociali vengono regolarmente colti di sorpresa dallo sviluppo dei fenomeni che pure studiano con assiduità, data la tipica tendenza a sopravvalutare i sistemi ideologici (credenze religiose, dottrine politiche, strutture economiche) a detrimento di concause di tipo biologico (territorialismo, disponibilità delle risorse, aggressività intraspecifica). La cultura è certo lo scarto della nostra specie rispetto a ogni altra ma anch’essa è -e altro non potrebbe essere- il prodotto più recente della storia genetica dell’umanità. All’ingenuo antropocentrismo dominante nelle scienze sociali e umane bisogna opporre il dato di fatto che «la nostra specie e il suo modo di pensare sono un prodotto, e non il fine, dell’evoluzione» (35). L’universo non è stato certo pensato a misura di una specie abitante su un piccolo pianeta alla periferia della Via Lattea. Piuttosto che crederci padroni della Terra, converrebbe -prima di tutto a noi stessi- mostrarci rispettosi della miriade di forme di vita con le quali conviviamo e da cui dipende la nostra sopravvivenza.

Sta qui la necessità di un’etica naturalistica, i cui capisaldi possono essere così sintetizzati: centralità del corpo; coesistenza di passione e razionalità; rifiuto della credenza nel libero arbitrio; altruismo e fitness. L’etica nasce dal basso del corpo e delle sue esperienze e non dall’alto di una rivelazione. Certo, aggiunge Wilson, «la fiducia nel libero arbitrio è biologicamente proficua. In sua mancanza la mente, imprigionata nel fatalismo, rallenterebbe e finirebbe per deteriorarsi» (137).

L’ultima -ma decisiva- espressione della consilience è ciò che potremmo definire panteismo biologico. Wilson riconosce la profondità del bisogno del sacro nell’uomo e individua nelle realtà fisiche scoperte dalla scienza un fascino superiore a quello delle cosmologie religiose.

Qual è lo scopo finale di questa proposta scientifica? Contribuire, ancora una volta, a capire chi e cosa siamo e -da qui- comprendere una serie di gravi questioni per tentare di affrontarle meglio. Il problema principale è la progressiva scomparsa della biodiversità, causata soprattutto dalle enormi esigenze materiali della specie umana: «la crescita della popolazione può essere giustamente definita il mostro della Terra» (331) e contro di essa bisogna operare con consapevolezza, convinzione e decisione, pena la scomparsa della maggior parte degli ecosistemi, delle specie viventi e, infine, della stessa umanità.
Cervello e cultura sono dunque unificati da questo libro in una prospettiva biologica che è materialistica senza però essere riduzionistica.

Mente & cervello 81 – Settembre 2011

Che cos’è un rito? Come nasce? Quale funzione svolge? A queste domande cercano di rispondere da tempo discipline quali l’antropologia, l’etnologia, la sociologia della cultura, l’etologia. Un contributo importante può venire anche delle scienze della mente. Il ricco dossier di questo numero di M&C lo dimostra.
«Nella definizione dei rituali -specialmente di quelli che non riguardano la realtà quotidiana- spiccano di solito quattro caratteristiche fondamentali: ruolo del corpo, formalità, modalità e trasformazione» (A. Michaels, p. 54). A essere coinvolto in un rito è sempre l’intero corpomente in modi formalmente stabiliti e rigorosi, con modalità che differenziano lo stesso gesto se compiuto nel quotidiano o se invece inserito in una forma rituale, avendo come obiettivo una trasformazione di condizione interiore o di status comunitario.
I riti di iniziazione e di passaggio, ad esempio, sono tra i più importanti e prevedono tre fasi: di separazione dal luogo o dallo status precedente, liminale di transizione e di abolizione dell’ordine precedente, di integrazione nel nuovo luogo o nella nuova condizione. In generale, un rito fa parte di una ben precisa cultura e solo in quel contesto acquista il suo senso, si struttura in un linguaggio che spesso produce azioni -come quando un funzionario civile o religioso dichiara due persone marito e moglie-, ha una qualità estetica specifica e caratterizzante, segna una interruzione e un rallentamento del consueto flusso temporale attraverso il tempo della festa, del passaggio o del lutto. 

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Natura/Artificio

Loris Cecchini
Genova – Palazzo Ducale
Sino al 17 luglio 2011

Su questa mostra io e Giusy Randazzo abbiamo scritto un articolo uscito sul numero di luglio 2011 di Vita pensata, al quale dunque rimando.
Qui ribadisco tutto il valore e il significato dell’arte concettuale, che è capace di contaminare tra di loro scultura, design, pittura, fotografia, architettura, trasformando la materia in pensiero e il pensare in forma visibile. L’immagine che vedete a sinistra è una parete che vibra, sono sinapsi in azione, è l’antichissima perfezione del cerchio che si apre alla dissoluzione nel tutto.
Artisti come Cecchini mostrano -con l’evidenza che gli oggetti sanno dare- che la nostra specie non si muove e vive solo in un mondo pre-dato al quale cerca di adattare al meglio se stessa in vista della sopravvivenza ma produce in gran parte tale mondo che risulta un inseparabile intreccio di natura e di artificio.

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