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Politica / Natura

ARMIN LINKE
L’apparenza di ciò che non si vede

Milano – Padiglione d’Arte Contemporanea
A cura di Ilaria Bonacossa e Philipp Ziegler
Sino al 6 gennaio 2017

Palazzi, paesaggi, montagne, gallerie, antenne, quadri, parchi, stamperie di banconote, uffici della Borsa, sale dell’ONU, musei di guerra, il Senato italiano, la Camera dei Deputati, palazzi di giustizia in Germania, campi Rom a Milano, le tende di Occupy Frankfurt, la Basilica di San Pietro, il Louvre, mercati nigeriani, centrali nucleari giapponesi, il Museo di Storia Naturale di Firenze, pascoli in Argentina, giardini botanici in Congo, dighe cinesi, disegni di Niemeyer, sedi del CNR a Roma, materiali nanoporosi, riproduzioni della Torre di Babele nel museo di Babilonia, una tromba d’aria a Pantelleria, la vita e il lavoro nelle Alpi svizzere, austriache, francesi, italiane…
No, non si tratta di uno degli elenchi fantastici che intessono la narrativa di Borges. Qui non ci sono la visionarietà e l’ironia dell’argentino. E tuttavia c’è un’analoga potenza di visione. Perché il mondo non sta negli enti ma in colui che guarda. La realtà abita nella mente.
Addossata a un angolo del Padiglione d’Arte Contemporanea c’è una grande foto di quello stesso angolo del Pac appoggiata al muro che essa raffigura. Un effetto di vortice e di profondità che è letterario, poetico, metaforico, iconico, dentro una mostra che è tutta politica. Le immagini di Armin Linke documentano infatti i luoghi e le azioni del potere e della resistenza, della memoria e della distruzione, del denaro come immaterialità, del flusso senza requie che è la vita nel presente.

L’itinerario è accompagnato dalle voci degli studiosi e degli amici di Linke che hanno selezionato le immagini dal suo «archivio a crescita progressiva sulle diverse attività umane e i nuovi paesaggi naturali e artificiali». Bruno Latour si sofferma sui luoghi nei quali si crea il denaro o un suo equivalente -come i blocchi di sale in Niger-, denaro diventato ormai «l’interfaccia più astratta del mondo» poiché il cuore dell’economia non è più il capitale ma è il credito, vale a dire «un business all’interno del quale si vende la propria presenza al futuro e si operano scambi in nome del futuro. […] Il denaro si è smaterializzato in dati, sicché abbiamo perso il controllo. La crisi economica non è altro che la crisi dell’astrazione»  (dalla Guida alla mostra).
linke_varsavia_2013Astrazione che viene plasticamente ed evidentemente mostrata da un’immagine che raffigura la XIX Conferenza sui cambiamenti climatici svoltasi a Varsavia nel 2013. La sede fu uno stadio. Ma lo stadio era vuoto. Tutto avveniva dentro un edificio artificiale e climatizzato, eretto nel campo di gioco. «In quest’immagine -continua Latour- c’è un’enorme ironia», c’è l’arroganza di chi edifica ovunque i simboli della propria potenza e impedisce ai resistenti di avere un luogo. Ai partecipanti al movimento Occupy Frankfurt è stato ad esempio impedito «di fissare le proprie tende conficcando i picchetti nel terreno. Vi è dunque un’intera architettura politica da inventare, cui non è però consentito di consolidarsi e di organizzarsi in modo durevole».
La hybris del potere giunge al culmine nel progetto cinese delle Tre Gole, con la completa trasformazione antropologica e paesaggistica causata da un’immensa diga e da un bacino per costruire i quali «lungo 600 chilometri sono stati sommersi oltre milletrecento siti archeologici, tredici città, centoquaranta paesi e più di milletrecento villaggi. Ciò ha comportato il trasferimento di circa 1,4 milioni di abitanti. Le autorità cinesi prevedono il trasferimento di almeno altri quattro milioni di persone dalla zona delle Tre Gole nel periodo 2008-2023».

Il Padiglione d’Arte Contemporanea diventa così ciò che ogni luogo pensato dell’architettura è sempre: uno spazio profondamente politico, non soltanto nel suo utilizzo ma anche nella sua stessa concezione. Lo conferma un video con la conversazione tra Armin Linke e Jacopo Gardella, figlio dell’architetto Ignazio che progettò il PAC negli anni Cinquanta. Gardella afferma che la vera architettura è l’interno, è il vuoto; l’architettura è un’arte del tempo perché lo spazio va attraversato e per farlo è necessario il tempo. Nel pensare il Padiglione, suo padre ebbe rispetto per il passato del luogo, per le antiche scuderie della villa, delle quali l’edificio ha conservato la struttura. Al di là del razionalismo più ortodosso, Gardella ha introdotto leggere curvature, ha edificato delle pareti diagonali, ha concepito uno spazio e un soffitto mossi, in modo da trasmettere un’idea di accoglienza, di dinamismo, di dialogo. L’idea di che cosa debba essere la politica.

Struggle for Life

Revenant – Redivivo
(The Revenant)
di Alejandro González Iñárritu
USA, 2015
Con: Leonardo Di Caprio (Hugh Glass), Tom Hardy (John Fitzgerald)
Trailer del film

Le montagne del Missouri nei primi anni dell’Ottocento. Si contendono il territorio orsi, sciacalli, corvi, inglesi, francesi, nativi pellerossa. Tra le acque, gli alberi, i prati, il gelo, è una guerra senza fine. Hugh Glass conosce bene l’ambiente, ha sposato una nativa e da lei ha avuto il figlio che porta con sé. Aiuta gli inglesi a cacciare per rifornirsi di pelli. Un orso lo assale e lo riduce in fin di vita. La spedizione non può portarlo con sé. In cambio di danaro John Fitzgerald si offre di assisterlo sino alla fine, in compagnia del figlio di Glass e di un altro giovane. Fitzgerald ha fretta e lo abbandona alla morte. Glass è però tenace. Sopravvive. Cerca la vendetta.
Un film cupo e desolato, fatto di silenzi umani e dei suoni di una natura strabordante, incontaminata, implacabile, nella quale l’unica armonia è quella dei nativi, dei loro gesti, credenze, sguardi. Gli europei sono invece dismisura. Con quest’opera Iñárritu punta al mistico ma rimane soltanto la violenza.

Konrad Lorenz

Natura e destino
di Konrad Lorenz
(Das Wirkungsgefüge der Natur und das Schiksal des Menschen, 1978)
A cura e con introduzione di Irenäus Eibl-Eibesfeldt
Traduzione di Alvise La Rocca
Mondadori, 1990
Pagine 392

In questa antologia curata da Eibl-Eibesfeldt, Konrad Lorenz ripropone alcune delle tesi fondamentali della sua opera e offre gli strumenti per coniugare filosofia e scienze naturali, legame che costituisce uno degli obiettivi della sua ricerca. Lorenz è infatti avverso a ogni forma di riduzionismo gnoseologico e ontologico, sia esso l’assolutizzazione del metodo matematico, il dualismo “natura-spirito” o la confusione tra i livelli dell’essere, vale a dire «quegli sconfinamenti “verso l’alto” come il meccanicismo, il biologismo e lo psicologismo, che si arrogano il diritto di spiegare i processi caratteristici degli strati superiori con le categorie evolutive, per principio inadeguate, di quelli inferiori» (p. 259). È anche per questo che Lorenz attacca frontalmente il behaviorismo che riduce l’animale -compreso quello umano- a un fascio di reazioni condizionate, che fa della persona un ente privo di libertà e di dignità, malleabile nelle mani di demagoghi e ideologi, pronto a farsi strumento della tirannide. Desiderio di potere e acquiescenza alle mode culturali hanno contribuito a determinare l’ampio successo del comportamentismo nel Novecento: «Per chi desidera poter manipolare masse umane, sapere che l’uomo non è altro che il risultato dell’ammaestramento esercitato su di lui fin dall’infanzia dall’ambiente vivente e inanimato deve rappresentare la soddisfazione dei sogni più arditi. […] Il verbo to control che vuol dire “dominare” […] compare troppo spesso in Skinner»  (155)
A Charles Darwin Lorenz riconosce di dovere moltissimo, così come a Nicolai Hartmann e a Kant. Di quest’ultimo egli reinterpreta in chiave evolutiva sia l’apriori gnoseologico sia l’imperativo etico. Molte strutture presenti in natura costituiscono una sorta di apriori che rende possibile all’animale di potersi muovere, vivere, adattare al proprio ambiente; l’imperativo categorico traspone nel linguaggio dell’etica la scelta fra distruzione dell’ambiente e accettazione del posto del singolo nella biocenosi, nella comunità dei viventi.
Anche per questo Lorenz è uno dei fondatori del pensiero ecologico. Egli ritiene che i meccanismi che inibiscono la violenza verso gli altri animali siano diretti anche a impedire la violenza verso altri umani. La crudeltà verso gli altri animali contribuisce quindi al dilagare della violenza all’interno della nostra specie. In generale, «l’uomo tecnomorfo è sempre e comunque un predatore; quando sfrutta un sistema vivente, lo distrugge in breve tempo» (368). Il problema di fondo è che nell’essere umano filogenesi e ontogenesi hanno ritmi di sviluppo completamente diversi: «Considerato come specie, l’uomo, nello stesso lasso di tempo che gli è occorso per diventare signore della terra, non ha compiuto il più piccolo passo avanti per diventare signore di se stesso» (312).
Il veloce ritmo del cambiamento culturale e tecnologico non ha dato tempo ai meccanismi inibitori di svilupparsi adeguatamente; ciò comporta che nessun dispositivo naturale può frenare un uomo dal prendere una decisione che comporta la distruzione di migliaia di altre vite. È però sempre possibile lo scarto culturale, la capacità di pensare, la responsabilità per le conseguenze delle proprie azioni.

È quindi un errore accusare di determinismo e di fatalismo Lorenz e in generale gli etologi. Il concetto di innato non implica quello di destino ineluttabile ma anzi la comprensione dei meccanismi naturali a cui anche l’uomo è sottoposto diventa una condizione per approntare strumenti efficaci –non ideologici né totalitari- di controllo. La guerra, ad esempio, «è un prodotto culturale umano che, pur non privo di componenti istintive, non è tuttavia esclusivamente tale» e quindi si può, perché si deve, sottoporre al controllo della ragione e dell’etica (281).
Che molti comportamenti animali e umani siano innati o istintivi, per l’etologia significa esattamente e solamente due cose:
1) «analogie di comportamento (come pure analogie morfologiche), riconoscibili in diversi animali nonostante condizioni di allevamento completamente diverse, possono ritenersi fissate nel genoma» (117);
2) è innato ciò che è adattato filogeneticamente. In particolare, «della natura istintiva, pulsionale, dell’aggressività umana non si può seriamente dubitare» (305) senza che questo implichi per Lorenz l’adesione ai concetti freudiani di impulso di morte, violenza inconscia, perversione originaria, che egli anzi esplicitamente respinge.

Se Lorenz ha fornito un contributo decisivo all’antropologia nel suo senso più ampio e più profondo, è perché la sua prospettiva etologica distingue ma non separa l’uomo e la natura, la cultura e la biologia, il pensiero razionale e le sue basi istintive. Filosofia, religioni, estetiche, etiche si elevano –e non potrebbe essere altrimenti dato che l’uomo è corporeità- sulle fondamenta di comportamenti ereditari e cioè filogeneticamente adattati: «Con troppa facilità gli uomini si considerano il centro dell’universo, qualcosa di estraneo e di superiore alla natura. Questo atteggiamento deriva da una sorta di orgoglio che ci preclude quella forma di riflessione su noi stessi di cui oggi avremmo tanto bisogno. Le grandi scoperte delle scienze naturali inducono l’uomo a un senso di umiltà: proprio per questo vengono a volte avversate» (42).
L’umano è davvero, come Nietzsche ha intuito, una «corda tesa fra la bestia e lo Übermensch», è l’animale che nella corrente della vita potrebbe non essere altro –come scrive Eibl-Eibesfeldt- «che un fenomeno assolutamente transitorio. Un giorno non rappresenteremo più il culmine dell’evoluzione, e potrà accadere che la nostra specie si evolva ulteriormente o che, come tante altre prima di noi, si estingua senza discendenza immediata» (8). Non sarebbe una perdita più grave di tante altre.

Pienezza

Philippe Parreno. Hypothèsis
HangarBicocca – Milano
A cura di Andrea Lissoni
Sino al 14 febbraio 2016

Non è una mostra, non è un’installazione. È piuttosto un racconto che luci e suoni fanno a se stessi, un evento drammaturgico, un set cinematografico nel quale si viene immersi, diventandone attori nello spazio.
Si inizia con la citazione delle stranezze di Duchamp, diventate trasparenze. Si prosegue nel luogo più vasto del grande Hangar, nel quale una lampada si muove ellittica a indicare il cammino del Sole e proiettare sul muro le ombre delle Marquees (le insegne luminose che negli anni Cinquanta reclamizzavano i film nei cinema statunitensi) che ad altezze diverse scandiscono l’intero corridoio, nel quale vengono proiettati dei film di Parreno, vengono eseguite da pianoforti musiche di vari compositori, si illuminano dei led formando strutture e immagini.
Dinamismi, luci, suoni, sinestesie, generano nel corpomente una sensazione di rilassamento, di quiete, di silenzio abitato dalle forme. Si è immersi in un ambiente naturale, artificiale, ambiguo e quotidiano, soprannaturale, cinematografico.
Natura e artificio vi appaiono infatti profondamente coniugati. Il cielo, la pioggia, le nuvole, i tuoni, le albe e i crepuscoli, lampadine, cavi, canzoni. Il parlante silenzio della materia. E poi il rumore dei programmi televisivi, della radio, della pubblicità. Frammenti di insensatezza nella pienezza di un mondo sovrano e indifferente alla stupidità. La deriva dell’acqua, la sua potenza e la sua calma. Oggetti d’arredo nelle case. Lo spazio domestico sembra abituale e tuttavia appare inquietante. La Scrittura vergata sul palinsesto del mondo. Voci, parole, forme luminose. Tra Neuromancer e Blad Runner ma con maggiore raffinatezza.
Così vince il divenire, cosi  trionfa il Tempo.kiefer_dipinti

Dallo spazio di Hypothesis si accede ai Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefel, ai quali da poco sono stati aggiunti dei dipinti dello stesso artista. Enormi tele che descrivono piramidi rovesciate e costellazioni celesti; Dike, la bilancia e la giustizia cosmica; l’arcobaleno dei filosofi tedeschi; la polvere della terra e del tempo. Tutto questo esprime la fragile stasi dell’eterno, dell’archetipo, dell’arcaico. Un cammino iniziatico, un percorso verso la Pienezza.

Alieni

Mito e Natura. Dalla Grecia a Pompei
Palazzo Reale – Milano
A cura di Francesco Venezia
Sino al 10 gennaio 2016

160-P74Natura e materia. Altro non c’è nel mondo, altro non è neppure pensabile. La potenza inimmaginabile ed eterna della Terra e del Cielo genera tutte le forze che plasmano gli enti e si contendono il dominio sul divenire. I nomi degli dèi sono i nomi degli alberi e delle foreste, dei raccolti, delle acque, degli antri, dei vortici, delle stelle. Dioniso -una cui statua incoronata di pampini apre la mostra e la cui presenza tutta la pervade- è la vite; Apollo è palma e alloro; Zeus è la quercia; Atena l’ulivo; Demetra  è la spiga di grano. Da queste forze sgorga l’agricoltura come dono degli dèi: il vino, i cereali, l’olio, la frutta, l’ombra, lo stormire del vento tra le piante.
Circa centocinquanta opere dall’VIII sec. prima dell’e.v al II sec. dopo l’e.v. testimoniano di questa Stimmung, di questa potente tonalità dell’esistere e del pensare. Tra di esse un bel cratere ateniese con disegnate sul bordo delle navi da guerra che avanzano sul mare; un grande bacile con Viaggio di Nereidi su mostri marini per consegnare armi ad Achille, splendido anche perché policromo; un elegantissimo lekytos (vaso per unguenti) con sfondo bianco che raffigura Demetra con spighe nella mano e in compagnia della figlia Persefone; vari paesaggi nilotici ritovati a Roma; i lussureggianti giardini raffigurati a Pompei, a Paestum e in altre località, emblema della potenza che è il divino. Il Giardino delle Esperidi si trova all’estremo Occidente del mondo e rappresenta il luogo dove vivere felici. Non un paradiso eterno come retribuzione degli atti compiuti in qualche decina d’anni -contraddizione clamorosa che rende assurda ogni idea di premio o castigo dopo la morte- ma semplicemente e profondamente un luogo terrestre dove la felicità è possibile, dove l’animale che pensa è una cosa sola con la lussureggiante vegetazione, con gli altri animali, con gli dèi.
Ovunque l’interazione e l’integrazione tra architettura e paesaggio è profonda, lontanissima dallo stupro urbanistico ed ecologico del nostro tempo.
Infine, colma di gioia e di commozione è la Tomba del tuffatore, dipinta a Paestum nel V secolo. Un giovane spicca un tuffo da un piedistallo che forse rappresenta le porte dell’Ade. Nelle acque fioriscono delle belle piante e nella tomba sono raffigurate scene di vita. Il tuffo è anche una metafora del passaggio dalla vita alla morte. Questa magnifica opera è pervasa da una tale serenità e da un così intimo rapporto con gli elementi naturali da essere impensabile nel cristianesimo e negli altri monoteismi, tutti volti al macabro, al lugubre, al doloroso, al disprezzo della vita.
Davvero i Greci -e gli antichi in generale- rimangono degli alieni, nonostante secoli di studi su di loro. Rimangono alieni della serenità, del disincanto, della misura. Questa splendida mostra milanese ci fa almeno intuire perché tali siano e tali restino.

Leonardo / L’intero

Leonardo da Vinci 1452-1519
Palazzo Reale – Milano
Sino al 19 luglio 2015

Il mondo di Leonardo da Vinci. Una parte, certo, di quel mondo ma esposta con cura e in un intelligente percorso, che si snoda soprattutto attraverso i disegni. Vi sono il suo maestro Andrea del Verrocchio e i contemporanei Filippino Lippi, Botticelli, Perugino, Bramante, Luca Pacioli. Vi sono -nelle due ultime sezioni- l’eredità di Leonardo (con gli allievi che dimostrano l’abisso che c’è tra un artista assoluto e i suoi imitatori) e il mito di Leonardo, con la Gioconda ridipinta da Duchamp, Warhol, Baj e soprattutto con una assai bella Donna con la sua perla, di Corot (1858-1868 ca. ) decisamente pervasa da spirito leonardesco.
Quest’uomo fu pittore, ingegnere, mago, filosofo. Fu una confluenza di storia e natura. Leonardo raccolse il mondo antico, con il quale il suo confronto fu costante, nonostante non conoscesse né il greco né il latino. L’Uomo vitruviano sta lì a dimostrarlo con la potenza della sua perfezione geometrica. Ma sempre per Leonardo «l’imitazione delle cose antiche è più laudabile delle moderne».
Storia sono gli eventi che Leonardo dipinse, la varietà di invenzioni già in parte progettate da ingegneri precedenti o coevi ma portate da Leonardo a una plausibilità tecnologica che non aveva più nulla di fantasioso. Storia sono anche l’astrologia e l’esoterismo, da Leonardo coltivate con la curiosità che sempre immetteva nella vita. Storia sono alcuni sorprendenti disegni ideali: città a livelli sovrapposti, altre con canali perpendicolari tra di loro, una Milano divisa in 10 sezioni. La bellissima Città ideale di Anonimo conservata a Urbino (e qui esposta ) non è la città di Leonardo, al quale interessava sempre anche la realizzabilità di tutti i suoi progetti. E gli interessava soprattutto l’unità dei saperi, riflesso e forma dell’unità del mondo.
Per Leonardo infatti arte e scienza coincidono anche perché l’arte è il modo più profondo ed efficace di comprendere e comunicare la natura. L’unità del mondo naturale e artificiale non è un concetto, non è un’ipotesi o un auspicio. Per Leonardo è una realtà. I riccioli del Battista, ad esempio, sono fluidi come acqua che scorre tra le terre. La pittura è per lui «figlia di natura» e la natura è energia senza posa che produce, annienta, trasforma ogni essente.
Dai grandi affreschi ai piccolissimi disegni, l’artista dedica alle sue opere la stessa cura, la medesima potenza. Perché la pittura è soprattutto «cosa mentale». I ritratti, ad esempio, restituiscono i «moti mentali» della persona. Così, il Ritratto di musico (1485 ca.) è collocato in questa mostra accanto al folgorante Sorriso dell’ignoto marinaio di Antonello da Messina. E sembra di entrare nei pensieri stessi degli umani. Umani dei quali Leonardo coglie con implacabile rigore anche l’inconsistenza. Le Cinque teste grottesche sembrano una plastica testimonianza dei tanti, dei troppi, i quali «altro che transito di cibo e aumentatori di sterco -e riempitori di destri- chiamar si debbono» (Leonardo, Pensiero 111, in Scritti letterari, a cura di A. Marinoni, Nuova edizione accresciuta con i Manoscritti di Madrid, Rizzoli, 1991, p. 76). Di fronte a costoro si levano i pochi che conducono una vita tale da potersi definire compiuta in qualunque momento essa si interrompa. Sono i pochi capaci di capire e di esser giusti, che per il socratico Leonardo è la stessa cosa. Questi uomini sono i «salvatici» e cioè «quel che si salva», coloro per i quali «imparare a vivere» coincide con l’«imparare a morire» (Pensieri 98 e 90, ivi, pp. 74 e 73).
Il naturalismo di Leonardo è uno dei fondamenti di una una moralità tanto rigorosa quanto concreta che identifica lo specifico dell’essere umano nell’azione e nel conoscere, nel porsi di fronte all’esistenza in modo sempre attivo e realistico, nel rifiuto di ogni inutile crudeltà. Leonardo era infatti vegetariano. Ed era un pagano. Il quale dipinge una potente Leda abbracciata al Cigno, con i quattro gemelli da lei generati (Elena, Clitemnestra, Castore e Polluce). Anche nella copia non leonardesca degli Uffizi questa donna ha lo stesso sguardo di una madonna. Sguardo che nel ritratto di Lucrezia Crivelli diventa movimento del corpo e degli occhi. Nel mondo di Leonardo il cristianesimo è paganizzato, l’essere è divenire.

Essere è tempo

Past, Present, and Future
A philosophical essay about Time
di Irwin Chester Lieb
University of Illinois Press
Urbana and Chicago 1991
Pagine 260

We are temporal, through and through (p. 40)

Past-Present-and-Future-Lieb-IrwinComprendere il tempo implica la conoscenza della mole di informazioni, di dati, di certezze e di interrogativi che le scienze della natura offrono, coniugandole tra loro mediante un linguaggio e una metodologia che del tempo intendono capire l’essere, la verità, l’identità/differenza.
Il Saggio filosofico sul tempo di Irwin C. Lieb è un esempio assai chiaro di questa metodologia. Il suo titolo è tanto semplice quanto impegnativo: Past, Present, and Future. La tesi fondamentale di Lieb è che passato, presente e futuro esistano. Che esistano davvero, che possiedano una densità ontologica e non soltanto una modalità psichica o epistemologica. Il tempo sarebbe quindi una realtà piena, totale e pervasiva. Il tempo infatti «not derived from anything else and its reality is most evident in the continuous passing in everything that moves, changes, lasts, or even remains the same» (p. 4); c’è «something continuous, steady, and indipendent of other motions, and this can be called time self», questo qualcosa è insieme «in the things themselves and in their relations to one another» (6).
Ciò che per lo più impedisce di intendere tale realtà piena, sostanziale e relazionale del tempo è il riduzionismo ontologico che ritiene esserci una e una sola forma di esistenza reale, identificata con la massa/volume/peso. Contro tale monoteismo metodologico dobbiamo capire che «the distinction we need is not between what is and not real but between kinds of reality. Everything is real, but things are real in different ways» (3). La natura scaturisce infatti da una continua produzione d’essere, da una costante e indefinita generazione del nuovo. Tale potenza creativa produce i due elementi fondamentali dei quali l’esseremondo è composto: Time e Individuals. Entrambe le parole non si riferiscono a degli enti ma a dei processi, i quali rendono possibile l’esistenza degli enti e ne garantiscono la comprensibilità.

Individuals è il termine chiave di questa ontologia poiché con esso Lieb intende qualcosa che esiste nel passato, nel presente e nel futuro. Qualcosa dunque che non c’è soltanto spazialmente ma che possiede perduranza (per usare la definizione/distinzione di D.K.Lewis): «Individuals are conceived to extend from the present into the future and the past, and each state of them is different from the others. […] Individuals are always changing, through and through. Their fundamental change is to reconstitute themselves. […] Not being confined wholly to a moment, individuals are spread through time. Time and individuals are inseparable» (11). Come si vede, individuals non sono degli enti ma della attività, delle strutture ontologiche che esistono perché accadono. Incessantemente accadono. Questo costante accadere è la struttura ontologica di base. È il fondamento. Il mutamento consiste nel diventare passato di qualcosa che continua a esistere anche nel presente, proprio perché «the being of an individual is not wholly present» (191).
Il presente è quindi il tempo degli enti singoli, degli enti astrattamente intesi perché privi di relazione.  Senza questa modalità del tempo non potrebbero naturalmente esserci le altre -«the present is nodal for the other parts of time» (12)- ma non bisogna da ciò concludere che le altre siano soltanto un ricordo, un’attesa. È esattamente tale errore categoriale e ontologico a produrre molti equivoci sulla temporalità, a partire da quelli -fondamentali- della estensione del tempo e dunque sostanzialmente della sua spazializzazione. Il presente non è un punto nel tempo poiché il presente da solo è un’astrazione. Ma anche il passato da solo è un’astrazione, così come il futuro. Il tempo è unitario, sono le azioni nel tempo a poter essere presenti, passate e future. Se l’accadere è possibile è perché il presente, il passato e il futuro sono tutte strutture e modalità reali della natura. In modi diversi, certo, ma tutti reali. Ciò che rende possibile l’identità del tempo e la differenza dei suoi modi è l’intreccio indissolubile di essere e divenire.

There are two fundamental realities and they are together. […] There are beings and becoming; realities that are together are also distinct. There should therefore be a twining of the traditions: because individuals and time are each real and are inseparably together, being and becoming are equally fundamental and, by being so, they ensure that the change of the world. (81)

Dato che le azioni e gli eventi non esistono soltanto come presente e nel presente, la struttura del mondo è assai più complessa, più creativa e insieme più ordinata rispetto a come il monoteismo temporale la immagina. Gli individuals sono eventi singoli e separati nel presente, là dove sono anche parziali. Essi diventano completi nel passato mentre le parti del loro essere non ancora compiute costituiscono il futuro.
Ciò che chiamiamo spazio è questo presente che estrapola dall’intero dell’essere una sua parte e la rende visibile qui e ora. Passato e futuro sono dunque modalità diverse rispetto al presente anche perché è soltanto nel presente che gli enti/eventi (individuals) sono discreti, diventano singoli. Nel passato e nel futuro gli stessi enti/eventi sono coniugati con il tutto -«in the past and future parts of them individuals are merged together»- e costituiscono l’intero. (31) Gli individuals diventano passato mentre stanno diventando presente e anche questo rende il passato del tutto reale. Non soltanto, quindi, perché ciò che accade ora è conseguenza e séguito di ciò che è accaduto prima ma anche e soprattutto per altre due ragioni. La prima è che «what is in the past is like a possibility that that has been affected by being actualized» (115), a conferma della struttura dinamica dell’essere; la seconda è che «the past has mighty effects in the present, not by acting on it -the past has no agency- but in the way in which we shape and form ourselves on it» (255), a conferma della struttura mentale dell’essere.
Il futuro è per Lieb altrettanto reale per due ragioni. La prima riguarda l’apertura degli enti/eventi alle loro stesse possibilità; se il futuro non fosse reale, infatti, non potremmo comprendere che cosa gli enti sono, come possono agire, quali sono le loro possibilità. La seconda ragione concerne la comprensibilità del cambiamento: è evidente che senza la realtà del futuro non potremmo descrivere nessun movimento e mutamento.
L’esistenza in sé di passato, presente e futuro è mostrata per Lieb anche da ragioni assiologiche oltre che da quelle ontologiche ed epistemologiche. Gli eventi possiedono nel futuro un valore estetico, essendo costituiti anche dall’immaginazione come possibilità; nel presente un valore etico, dato che comportarsi significa sempre valutare alternative e scegliere quelle che vengono ritenute buone, le migliori; nel futuro un valore storico, frutto della sedimentazione dell’accaduto nei parametri del tempo in cui è accaduto e in quelli del tempo in cui viene valutato, in modo da trovare e dare loro un significato razionale.
Da ogni punto di vista, dunque, e in ogni struttura del reale l’essere è tempo, «whatever is cannot but be in time» (183) e «our final reality is not something apart from time but is instead the whole of the past, the present, and the future and all the value there is and can be in them» (251).

Partito da una serie numerosa e serrata di interrogativi essenziali -ad esempio: «Why, how, when, and in what ways do they change, and is their having to change connected with each moment’s having to be new?» (9-10)-, l’analisi di Lieb si pone in modo franco e coraggioso contro le risposte di moltissimi filosofi. Non soltanto di coloro che hanno negato esplicitamente il tempo; non soltanto contro la lunga tradizione parmenidea che intesse il pensiero occidentale; non soltanto contro le prospettive riduzionistiche -antiche o contemporanee che siano- volte a confinare la temporalità dell’essere alla misurabilità dei tempi della fisica; ma anche contro numerosi fra coloro che vengono di solito ritenuti sostenitori della realtà del tempo, i quali pensano il tempo come flusso in cui soltanto il presente è davvero reale e il resto è realtà degradata, derivata, seconda.
A tali prospettive Past, Present, and Future oppone una peculiare forma di platonismo e di spinozismo dinamico, per il quale «the passage of time and the activity of individuals are strands of process inside the unchanging totality of the real» (12). Il mondo delle forme e dei paradigmi non sta, come Platone ritiene, al di là del tempo e separato dal tempo. È piuttosto l’accadere senza posa e ordinato del mondo a produrre le forme, i paradigmi e il loro intreccio. Infatti, «the most general idea in this essay is that what is real is an unchanging totality; there can be no additions to it, and nothing can be taken from it. This does not mean, however, that things do not change and that there are no novelties. It means that all processes and the passage of time itself take place inside the otherwise unchanging totality» (257).

In tale profonda e feconda compresenza di essere e divenire traluce la struttura metafisica e gnoseologica che sola permette di comprendere ciò che è perché di ciò che è costituisce la forma naturale e il riflesso mentale: la dinamica di identità e differenza. Se la capacità che il corpomente umano e animale ha di riconoscere regolarità e identità nel mondo «depends on our ability to remember what has occurred and to recognize important kinds of similarities» (216), è perché «the natures of individuals also change; they are modified but remain the same. These natures are the general ways in which individuals change and act» (193). Essere, verità, identità/differenza, tempo vengono così coniugati nel profondo delle loro relazioni costituenti la natura. È anche questo che fa della metafisica la più radicale e profonda conoscenza che del tempo sia possibile nel tempo maturare.

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