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Tempo storico e molteplicità del tempo

Come ben sanno molti lettori di questo spazio, sono contrario a qualunque forma di lezione ‘a distanza’. Faccio un’eccezione per un evento che non è una lezione ma è un intervento nell’ambito di un PRIN (Progetto di Rilevante Interesse Nazionale) del quale sono membro.
Il PRIN ha come denominazione Synchronized with Nature. Measuring time in ancient Egypt and Mesopotamia: archaeological and textual evidence e ne fanno parte soprattutto professori e ricercatori di area archeologica e storica. Mi è stato proposto di parteciparvi in quanto studioso della struttura e dello statuto del tempo.
Giovedì 31 ottobre 2024 alle 17.00 terrò un seminario dal titolo COMPUTUS. Tempo storico e molteplicità del tempo.
Il link per partecipare è: https://meet.google.com/bwb-rjyn-vmh
In questa locandina si può leggere il programma completo dei seminari, che sono pubblici.

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Ci crediamo avanzati, colti, disincantati, razionali, esperti.
Eppure cadiamo nell’ingenuità di credere che il modo nel quale pensiamo e computiamo il tempo – noi, adesso – sia stato uguale da sempre o che almeno sia assai antico.
Non è così. Nelle società arcaiche, nei grandi imperi orientali, in Grecia, a Roma, nel Medioevo e sin nel cuore del XIX secolo ciò che a noi sembra naturale quanto il sole e il respiro – la conoscenza esatta dell’ora sino ai minuti e ai secondi – era sconosciuto o secondario. E questo semplicemente perché non era necessario e perché il tempo riguardava altre dimensioni rispetto a quelle del lavoro e delle relazioni umane, a cominciare dalla dimensione del sacro.

Il corpo nello spazio

Carlo Traini. Il corpo nello spazio
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXIX – numero 80 – marzo 2023
pagine 62-67

‘Fèrmati dunque, sei così bello!’ sembra dire Carlo Traini al corpo umano. Corpo non sempre bello, anzi a volte sgraziato, obeso, anziano. Più spesso, certo, è un corpo giovane, muscoloso, desiderabile, forte. In ogni caso il fotografo lo osserva a lungo e con cura e poi lo ferma nell’istante in cui il corpo parla senza bisogno di proferire parola. A esprimersi è infatti il dinamismo dei corpi, il loro muoversi rapido nello spazio, il loro capovolgersi in verticale scattanti o in attesa di un pallone che arriva dal cielo, nelle capriole dentro le onde del mare, scrutando l’orizzonte nella luce, persino in un abbraccio sulla sdraio che sembra disegnare un ibrido, un androgino dalla testa di maschio e dal flessuoso e attraente corpo di femmina.
Un gesto d’intelligenza del fotografo è aver tradotto tutto questo in un limpido bianco e nero che ha depurato i corpi dall’eccesso di luce dell’estate, mantenendo in questo modo l’εἶδος, la loro essenza.

Fenomenologia enattiva

Recensione a:
Andrea Pace Giannotta
Fenomenologia enattiva.
Mente, coscienza e natura
Mimesis, 2022
Pagine 140
in Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia
vol. 13, n. 3/2022
pagine 241-242

Un libro agile ma molto ambizioso questo di Andrea Pace Giannotta. Lo si evince già da titolo e sottotitolo, i quali indicano nell’espressione ‘fenomenologia enattiva’ una possibile soluzione alla questione fondamentale e difficile del rapporto tra la mente, la coscienza e la natura. I presupposti metodologici sono chiari: porsi al di là della sterile distinzione tra filosofia analitica e filosofia continentale per tornare alle cose stesse come esse transitano, appaiono e si costituiscono nella coscienza umana. Un proposito husserliano che affronta in modo consapevole e corretto i numerosi problemi ancora aperti nell’ambito della fenomenologia, con l’obiettivo di proporre, appunto, una fenomenologia enattiva che si sviluppi «in una metafisica della natura e della coscienza».

Mente , coscienza, natura

Giovedì 9 febbraio 2023 alle 16.00 nell’aula 268 del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania presenteremo il libro di Andrea Pace Giannotta Fenomenologia enattiva. Mente, coscienza e natura (Mimesis, 2022). L’evento è organizzato dall’Associazione Studenti di Filosofia Unict.
Il libro, agile e ambizioso, di Pace Giannotta si pone al di là della sterile distinzione tra filosofia analitica e filosofia continentale, per tornare alle cose stesse come esistono indipendentemente da qualunque coscienza ma anche come transitano, appaiono e si costituiscono nel corpomente umano.

Culture animali

Recensione a:
Carl Safina
Animali non umani
Famiglia, bellezza e pace nelle culture animali
Adelphi, 2022
Pagine 565
in Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia
vol. 13, n. 2/2022
pagine 173-174

Dati, fatti, eventi, situazioni, comportamenti mostrano che è arrivato il tempo nel quale la riflessione filosofica, e più in generale un approccio scientifico al mondo, abbandonino antichi e potenti dualismi, ormai falsificati. Tra questi, uno dei più importanti e pervasivi è il dualismo di cultura e natura, di culture nurture, di acquisito e di innato, di apprendimento e ‘istinto’.
Questo libro di Carl Safina scioglie il nodo naturacultura mediante l’osservazione e l’analisi sul campo di alcune strutture viventi molto diverse tra di loro: i capodogli, i pappagalli ara dell’Amazzonia, gli scimpanzé dell’Uganda. Sul campo poiché soltanto se studiati nel loro ambiente, nelle loro condizioni naturali e culturali, le creature viventi possono essere comprese nella loro struttura, nei comportamenti individuali e collettivi, nella complessità e nell’evoluzione.
In tutti e tre i casi osservati emerge con grande chiarezza l’esistenza, la ricchezza, la differenziazione e la varietà di culture animali caratterizzate da numerosi elementi che da sempre vengono pensati come esclusivi della specie umana ma che non lo sono affatto.
In modi tra di loro diversi anche all’interno dei gruppi e della comunità nelle quali si dividono, capodogli, are e scimpanzé costruiscono e modificano continuamente acquisizioni naturali e culturali quali i linguaggi, gli strumenti, le strutture estetiche, l’apprendimento, la comunicazione, la trasmissione intergenerazionale.
Nel mondo animale, umani compresi, sono all’opera molte intelligenze; esistono una varietà di strutture mentali che hanno in comune il senso del tempo, della memoria e del futuro, tanto che «oggi alcuni psicologi e altri scienziati si stanno rendendo conto, sistematicamente e con prove, che noi condividiamo il mondo con menti di altro tipo». Aver visto in questa straordinaria ricchezza di forme insieme ‘naturali’ e ‘culturali’ soltanto delle risorse, delle materie prime, degli oggetti – ciò che Heidegger definisce come Bestand, un fondo al quale attingere per le umane esigenze – produce conseguenze catastrofiche per tutto il pianeta. Sterminando le balene, ad esempio, si impoverisce l’oceano e quindi si pongono le condizioni per la decadenza dell’intera biosfera. Il provincialismo antropocentrico ha avuto e ha come conseguenza «qualcosa di spaventoso e tremendo, e cioè che la specie umana si è resa incompatibile con il resto della Vita sulla Terra» poiché «più gli uomini riempiono il mondo, più lo svuotano».
Le culture degli altri animali, il loro costruire strumenti, le attività educative che sanno mettere in atto, la consapevolezza del tempo e della morte, confermano la chiara continuità tra la specie umana e le altre, anche e soprattutto nell’ambito che definiamo cultura.

[Ricordo che, per quanto possa essere più o meno ampio, ciò che scrivo in queste pagine è sempre soltanto un abstract delle mie pubblicazioni, per leggere le quali basta visitare i link indicati sopra: i pdf o le pagine delle riviste nelle quali i testi appaiono]

Filosofia antica

Pierre Hadot
Che cos’è la filosofia antica?
(Qu’est-ce que la philosophie antique?, Gallimard 1995)
Traduzione di Elena Giovannelli
Einaudi, 2010
Pagine 302 

La filosofia è un modo di vivere all’interno di una comunità, nel dialogo, nel confronto, nel sentirsi esistere in una relazione continua con altri umani animati dalla stessa forma, passione, interesse, intenzione, vita. Non è necessario condividere sempre gli spazi ma sapere che quello che stiamo in questo momento vivendo, pensando, scrivendo, è condiviso dai desideri e dalla lucidità di altri filosofi. Lucidi come noi, strani come noi, indifferenti come noi. Un’indifferenza che significa almeno tre cose: consapevolezza dei limiti umani, della nostra infima misura dentro lo splendore e l’immensità dell’intero; disincanto nei confronti della condizione di dolore e di morte non soltanto dell’umano ma di tutto ciò che è vivo; metamorfosi di questo consapevole disincanto in azione, in opera, in trasformazione della vita propria e delle relazioni, dei legami, della politica.

Conoscenza e azione che si fondano su numerosi e vari presupposti teoretici, che nel mondo greco sono in particolare:
– L’essere ogni ente una parte dell’intero, un’espressione della potenza della materia generatrice, che sempre sorge da se stessa, dalla propria potenza, dall’energia universale, la Φύσις.
– Il coincidere di tale energia e potenza con ciò che tutte le culture chiamano il sacro, il quale non abita quindi in qualche luogo specifico, in un tempo altro, in una realtà lontana ma accade qui e ora, in ogni ente, evento e processo. La realtà stessa è sacra, tutta, come l’aneddoto eracliteo del focolare in cucina testimonia con semplicità.
– Ciò che chiamiamo male è l’ignoranza di questa energia pervasiva e sacra, nella quale e con la quale il mondo in ogni istante esiste; è anche per questo che l’etica è un’espressione dell’ermeneutica, perché «il male non è nelle cose, ma nel giudizio di valore che gli uomini attribuiscono alle cose» (p. 101).
– Ciò che chiamiamo bene è invece l’immersione consapevole in questa dinamica, qui e ora; non quindi l’aspirazione ad altre vite o l’inquietudine senza pace dei progetti più fantasiosi e irraggiungibili ma l’esistere nel presente. Non naturalmente il semplice presente fisico e matematico, infinitamente divisibile e anche per questo di fatto insussistente, ma il presente come percezione della durata e suo significato. Un presente semantico prima di tutto.
– La necessaria fiducia che tutto questo si possa comunicare, trasmettere, insegnare e in tal modo contribuire a formare altri umani, a plasmare altre vite a partire da ciò che il tempo sacro ha donato alla nostra, tale è la pratica della παιδεία.
– La necessità che tale pratica educativa sia sempre intramata e sostenuta dall’approccio teoretico e da prospettive universali che si sforzino di andare oltre la limitatezza dell’orizzonte storico e prassico di ogni individuo e di ciascuna comunità: «Senza questa riflessione, la vita filosofica rischia di cadere nella banalità o nell’insipienza, nei buoni sentimenti o nell’aberrazione. […] Vivere da filosofi significhi precisamente anche riflettere, ragionare, concettualizzare, in modo rigoroso e tecnico, ‘pensare in modo autonomo’ come diceva Kant. La vita filosofica è una ricerca che non si arresta mai» (269).
– L’accettazione dunque della natura asintotica della vita in generale e dell’esistere filosofico in particolare, vita ed esistere per loro natura sempre aperti e mai definitivi. Vivere significa precisamente questo incompiuto che in ogni suo momento è sempre realizzato.
– Il convergere di queste pratiche asintotiche e teoretiche verso l’enigma del tempo, il vero e proprio oceano il cui infinito movimento è definito allo stesso modo in un testo fondante quale la Teogonia di Esiodo (verso 38) e in una sentenza epicurea (la n. 10) attribuita a Metrodoro: «Ricorda che nato mortale, con una vita limitata, tu sei assurto, grazie alla scienza della natura, fino all’infinito dello spazio e del tempo e hai visto ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu» (22).

La filosofia è quindi conoscenza e pratica del tempo infinito dentro il tempo limitato che siamo, è la consapevolezza che una parte della materia universale ha di esistere per un arco, una parabola, un percorso sempre limitati ma non per questo meno densi. Filosofia è diventare l’infinito che si è. È ciò che Ernest Renan definisce il «punto di vista di Sirio», la stella più luminosa che i nostri occhi di terrestri possano vedere.
Come i corpi hanno bisogno d’aria per vivere, la filosofia richiede la libertà come respiro. Questa è la principale ragione per la quale la filosofia  nacque in Grecia e non altrove. Nell’Accademia di Platone vigeva una integrale libertà di pensiero, tanto che i suoi allievi e anche gli immediati successori alla guida della scuola espressero posizioni anche assai lontane dal Maestro, il più famoso tra questi è Aristotele. L’Accademia era infatti «un luogo di libera discussione e al suo interno non vigeva nessuna ortodossia specifica della scuola e nessun dogmatismo» (64).
Gli ultimi filosofi greci, cacciati via dal cristiano Giustiniano, trovarono nell’Oriente persiano, tra i nemici persiani, il luogo estremo nel quale esercitare ancora tutto questo. Nel 529 infatti «l’imperatore Giustiniano proibisce ai pagani di insegnare. I filosofi neoplatonici Damascio, Simplicio e Prisciano lasciano Atene per rifugiarsi in Persia. Dopo il trattato di pace concluso tra Cosroe e Giustiniano, essi si stabiliscono a Carrae, in territorio bizantino ma sotto influenza persiana, e continuano il loro insegnamento» (280), che ancora prosegue.
In questa sistole e diastole di esistenza e teoresi, di limite e di infinito, abitano il dolore e la gioia dell’essere filosofi.

«Il filosofo sperimenta in modo crudele la propria solitudine e la propria impotenza in un mondo lacerato tra due inconsapevolezze: quella che è provocata dall’idolatria del denaro e quella che risulta dalla miseria e dalla sofferenza di miliardi di esseri umani. In simili condizioni, il filosofo non potrà sicuramente mai raggiungere la serenità assoluta del saggio. Filosofare equivarrà, dunque, a soffrire di quell’isolamento e di quella impotenza. Ma la filosofia antica ci insegna anche a non rassegnarci, continuando invece ad agire ragionevolmente, e a sforzarci di vivere secondo la norma rappresentata dall’Idea della saggezza, qualsiasi cosa succeda, per quanto la nostra azione ci possa apparire molto limitata.
Come diceva Marco Aurelio:
‘Non sperare la Repubblica di Platone, ma accontentati se una cosa piccolissima progredisce, e pensa che questo risultato non è così piccolo’ » (270; Ricordi, 9.29.5).

Questo è la filosofia antica, questo è la filosofia.

Astrattismo batterico

Anicka Yi
Metaspore

Hangar Bicocca – Milano
A cura di Fiammetta Griccioli e Vicente Todolí
Sino al 7 agosto 2022

Steve McQueen
Sunshine State

Hangar Bicocca – Milano
A cura di Vicente Todolí
Sino al 31 luglio 2022

Anicka Yi ha raccolto campioni del terriccio milanese, li ha compattati e li espone in grandi teche nelle quali si sviluppano batteri e altri elementi microbiotici, generando forme, consistenze e colori che disegnano pitture/sculture astratte e insieme assai dense. È questa l’opera forse più emblematica e coinvolgente di un’artista che coniuga estetica e biologia; la cui ποίησις sembra far agire e operare la Terra stessa e non l’intenzione umana su di essa.
Un astrattismo batterico che si moltiplica e diversifica nelle altre installazioni dove plastiche, parti di animali, alghe, specie microbiotiche, insetti animatronici dissolvono a poco a poco i salti ontologici tra l’animale, il vegetale, il minerale, l’artificiale, tornando al caos molecolare dal quale ogni ente è venuto al mondo e si è differenziato, mantenendo però sempre il proprio fondamento nel carbonio.
I microrganismi e le strutture di Anicka Yi producono sensazioni olfattive, odori, che nelle intenzioni dell’artista stanno al centro del suo operare. E però di tale risultato non c’è praticamente traccia nella mostra milanese, data la chiusura delle opere dentro involucri asettici che di fatto impediscono di captare gli odori che dalle opere dovrebbero promanare. L’assenza degli odori rende molto meno efficace la fruizione della mostra.
Più evidenti sono invece altre due dimensioni del progetto. Vale a dire l’ibridazione e la temporalità. La prima è evidente nella stretta ontologica che unisce elementi vivi ed elementi morti, batteri e plastiche, manufatti e spore. La temporalità è intrinseca a queste opere, che consistono non di elementi fissi ma di processi organici e chimici destinati in tempi più o meno brevi a deperire,
Biologia, chimica, ingegneria genetica diventano in questo modo opere visibili ed esposte nei grandi spazi dello Hangar milanese.

Spazi che contemporaneamente ospitano sei video del regista inglese Steve McQueen. Opere dimenticabili nella pretenziosa solennità del silenzio e dei suoni sgradevoli che li alternano; che mettono insieme la potenza del Sole e vecchie pellicole del muto ricostruite con la strumentazione tecnica contemporanea; che fanno scendere dentro una delle più profonde miniere terrestri -in Sudafrica- per dare un’idea dell’inferno che però si rivela alla fine noiosamente spettacolare. L’opera più riuscita di McQueen sembra invece la settima. Non è un video ma sono due rocce di marmo rivestite di lamine argentee –Moonlit (2016)- che stanno nello spazio vuoto l’una accanto all’altra, immobili nel sempre. A testimoniare che cosa c’era prima e che cosa rimarrà dopo, quando l’ammasso di cellule, batteri, microrganismi che chiamiamo Homo sapiens sarà finalmente sparito. 

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