Skip to content


Genitori Genitoque

Inexorable
di Fabrice Du Welz
Belgio-Francia, 2021
Con: Benoît Poelvoorde (Marcel Bellmer), Alba Gaïa Bellugi (Gloria), Mélanie Doutey (Jeanne), Janaina Halloy (Lucie), Anaël Snoek (Paola)
Trailer del film

Marcel Bellmer, uno scrittore esemplato sul Jack Torrance di Shining, si trasferisce in cerca di ispirazione nella grande villa di proprietà della moglie, la quale è anche figlia dell’editore che ha pubblicato il romanzo che a Bellmer ha dato successo e fama, dal titolo Inexorable. E tuttavia la serenità, il silenzio, l’affetto della moglie e della loro bambina non aiutano Bellmer, anche perché – come si scoprirà – il romanzo non era stato per intero frutto del suo talento. Ma tutto comincia a deflagrare quando nella magione si presenta quasi per caso una giovane che appare timida e remissiva e che incontra subito l’amicizia, quasi la sorellanza, della figlia dei Bellmer, Lucie. Gloria, così si chiama, occuperà a poco a poco ogni anfratto e ogni istante della vita di questa famiglia, con la quale ha legami profondi, forse soltanto letterari o forse anche di sangue.
L’ambizione è alta: costruire un thriller psicologico e carnale che afferri a ogni istante lo spettatore. I mezzi sono banali, consistendo in molti degli strumenti e ‘trucchi’ di ripresa noti da decenni nel cinema e quindi piuttosto prevedibili. La struttura è molteplice: la continuità tra letteratura e vita; la dialettica triadica tra dimora, bosco, paese; l’enigma della follia; il dilagare della violenza; l’imprevedibilità di alcuni momenti, come – nel finale – la danza Death Metal di una inquietante Lucie alla festa del suo compleanno.

Accompagnato in quasi ogni scena dalle note del Cum dederit di Antonio Vivaldi, uno dei nuclei dell’opera, quello per me più interessante di fronte ai risultati nel complesso modesti del film, è la dimensione genitoriale che mi sembra costituire il vero tema, quello che lo attraversa e lo intriga, che si palesa con espressioni e appellativi molto molto chiari (di più non posso dire). E allora chiediamoci con franchezza: che tipo di gesto è il mettere al mondo altri umani, altri viventi?
Le possibili risposte sono numerose e a una disamina risulterebbero inadeguate, frutto di inevitabili impulsi naturali e di costruzioni culturali, di fortissimo condizionamento sociale e di radicato egoismo nell’avere davanti a sé una creatura da noi generata e che da noi in tutto e per tutto dipenda, vale a dire una forma esplicita del desiderio di autorità. Quando, naturalmente, il generare non si riduca al «bastone della mia vecchiaia», al pagamento delle pensioni, al «numero che è potenza». O al più comprensibile bisogno di non morire del tutto, di lasciare che qualcosa del nostro DNA dopo di noi rimanga. (Su queste motivazioni rinvio a Antinatalismo. Storia e significato di una filosofia radicale, -con Sarah Dierna- in Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre-dicembre 2023).
E tuttavia di fronte a questi balbettamenti dell’ego individuale e di quello collettivo, un dato di fatto che tutti constatiamo vivendo, anche se ne traiamo conclusioni diverse, e che viene rafforzato da ogni oggettiva fenomenologia dell’esistenza è che «exister n’est ainsi rien d’autre qu’errer dans une forêt de craintes où la question n’est jamais de savoir si le Mal nous atteindra, mais seulement quand et sous quelle forme il fera de nous sa proie terrifiée», ‘esistere non è altro che errare dentro una foresta di paure e terrori, dove la domanda non è mai se il Male ci afferrerà ma soltanto quando e sotto quale forma farà di noi delle prede    atterrite’ (Théophile de Giraud, L’art de guillotiner les procréateurs. Manifeste anti-nataliste, Le Mort-Qui-Trompe, Nancy 2006, p. 23).
Anche a partire da tale consapevolezza dell’assoluta inevitabilità del soffrire una volta che si è nati, di fronte alla certezza del dolore, spesso di un immenso dolore, che attende il neonato, una sincera preoccupazione per il suo benessere indurrebbe a evitare di metterlo al mondo. Questo sarebbe un gesto d’amore, questo è un gesto d’amore.
So bene che enunciare con chiarezza l’effettiva realtà del generare ed essere generati è un atto disdicevole, di fronte al quale si erge in tutta la sua limpida ferocia l’inesorabile bisogno della procreazione; inexorable – appunto – come il rapporto filiale che emerge in questo film e che ha nella sua scena conclusiva il degno e inevitabile esito di ogni genitorialità, esito metaforico, simbolico, psichico o empirico che sia.

Antinatalismo. Storia e significato

Antinatalismo. Storia e significato di una filosofia radicale
con Sarah Dierna
in Dialoghi Mediterranei
n. 64, novembre-dicembre 2023
pagine 56-75

Indice
-Filosofia e disincanto 
-Sullo stare al mondo
-Antinatalismo: una saggezza antica
-Antinatalismo e religioni
-Illusioni e impulsi
-Egoismo parentale
-Filantropia
-Sine ira et studio

Il saggio che ho scritto insieme a Sarah Dierna – specialista dell’argomento e senza la quale non avrei potuto tentare una sintesi così ampia – è uno dei testi che ritengo più importanti e significativi nel percorso di pensiero mio e, in questo caso, dei miei allievi. Le ragioni dovrebbero emergere dal testo stesso, del quale uno degli studiosi che abbiamo citato, Théophile de Giraud, ci ha detto che «c’est probablement le meilleur article que j’ai lu sur l’antinatalisme». Siamo ovviamente felici di questo riconoscimento.
Aggiungo l’incipit del saggio, che indica le ragioni per le quali abbiamo cercato di pensare la nascita e mediante essa il significato del vivente.

«Svolto con rigore, il lavoro filosofico consiste anche nella analisi critica dei tabù, di qualunque tabù, non necessariamente per rifiutarli ma per comprenderne origine, logiche, obiettivi. Uno dei tabù più pervasivi riguarda il silenzio sull’etica della procreazione, non intesa come bioetica volta ad analizzare le modalità – naturali, artificiali, ibride, storicamente situate – del procreare ma proprio la legittimità etica di farlo. Che il solo sollevare una simile questione susciti subito sorpresa, perplessità e rifiuto è appunto una conferma della natura pregiudiziale e nascosta del problema.
Come mammiferi siamo naturalmente indotti a lasciare dopo di noi i nostri geni. È questa la ragione prima e ultima dell’esistenza e del perpetuarsi dei viventi. Ma come in molti altri ambiti siamo anche in grado di porci degli interrogativi su ciò che sembra indiscutibile e ovvio. Il lavoro filosofico serio consiste, lo ripetiamo, anche e specialmente nel sottoporre ad analisi l’evidenza. Dalle questioni ontologiche a quelle cosmologiche e religiose la filosofia in Grecia è nata in questo modo.
Porsi in modo serio la questione della legittimità etica del procreare comporta certamente una serie di concetti e di conclusioni che turbano quanti ritengono che nulla quaestio si ponga su tale tema. E invece sono tante le domande e le riflessioni che emergono dalla questione della nascita». 

Volontà di sapere

Teatro Greco – Siracusa
Edipo Re
di Sofocle
Traduzione di Francesco Morosi
Scene di Radu Boruzescu
Con: Giuseppe Sartori (Edipo), Rosario Tedesco (capo coro), Graziano Piazza (Tiresia), Paolo Mazzarelli (Creonte), Maddalena Crippa (Giocasta)
Regia di Robert Carsen
Sino all’1 luglio 2022

Pervaso dalla volontà di sapere, intriso della passione dell’indagare, ossessionato dal bisogno di fare luce. Così Edipo rovina se stesso e la propria casa. C’è qualcosa di estremo e arrogante in questa necessità di portare a evidenza ogni anfratto degli eventi. Un’esigenza di comprensione che si volge contro chi la nutre. Ma che è greca, profondamente greca. Uomini furono che vollero conoscere. E conobbero. E che di fronte a ciò che avevano appreso dissero parole talmente  chiare da essere sempre e ancora nostre, sempre e ancora vere nell’affermare che nessun umano potrà essere detto sereno sino a quando in lui pulserà ancora la vita (ὥστε θνητὸν ὄντα κείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν / ἡμέραν ἐπισκοποῦντα μηδέν᾽ ὀλβίζειν, πρὶν ἂν / τέρμα τοῦ βίου περάσῃ  μηδὲν ἀλγεινὸν παθών, vv. 1528-1530).
Il Tempo che vede tutto apre infine gli occhi a Edipo; Apollo, dio crudele, lo invade della propria luce di conoscenza; Necessità fa sì che ciò che deve accadere accada al di là anche del silenzio e delle parole di Tiresia. Convocare il quale è stato il primo gesto del lento processo di agnizione di Edipo. Tiresia gli consiglia di rinunciare a sapere, Giocasta gli consiglia di rinunciare a sapere, il vecchio servo che lo aveva tenuto in fasce gli consiglia di rinunciare a sapere. Ma Edipo, no. Edipo indaga. Si dichiara persona estranea ai fatti che condussero alla morte di Laio. Estraneo, lui. Si dice alleato del dio Apollo e del morto Laio. E fa luce. Una luce trionfale che gli regala un ultimo atto di gloria da parte della città che una volta ha salvato, un attimo intriso non a caso di Evoè, il canto vittorioso di Dioniso (è questo il momento colto nell’immagine in alto). Una luce straziante che lo farà tornare in scena completamente nudo, intriso del sangue dei propri occhi e di quello di Giocasta suicida.
Appaiono e scompaiono i sovrani -Edipo, Creonte, Giocasta- lungo l’alta scalinata che dalla piazza di Tebe ascende all’alto della reggia e degli dèi. Piazza dentro la quale appaiono nella scena iniziale i cittadini durante una processione luttuosa e fatta di nero. Processione scandita da una cadenza dell’oltre, l’oltre della morte e della vita.
Una scenografia essenziale e suggestiva, dunque. Nient’altro che la piazza e la grande scala. Per dare spazio alla voce di Sofocle, ai corpi degli attori, alla meditazione su quanto sia preferibile non essere nati e, una volta nati, morire bambini, come Edipo afferma e desidera al culmine del proprio destino.
Quest’uomo, questo re, non ha alcuna colpa, perché non sapeva di essere l’omicida di Laio e lo sposo di sua madre. Ma l’intenzione è un concetto che per i Greci conta ben poco. A pesare è il danno oggettivo che l’agire di Edipo ha inferto alla città, il danno oggettivo che chiunque può infliggere. È a motivo del danno che si deve essere neutralizzati, non della volontà di far male o far bene. La volontà è semplice e insindacabile psicologia, il danno è una realtà oggettiva.
Questo, alla fine, la luce portata da Edipo ci fa vedere. Nella volontà di sapere, per quanto dolorosi risultino i suoi esiti, splende in ogni caso la libertà dei Greci, la loro intelligenza rispetto alla bêtise contemporanea, alla stupidità di ogni sistema etico-linguistico che assurga a valore assoluto, che proibisca le parole e i loro significati a volte terribili. Stupidità dall’esito fatale: «Non ti accorgi che il principale intento della neolingua consiste proprio nel semplificare al massimo la possibilità del pensiero? Giunti che saremo alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psicoreato, del tutto impossibile perché non ci saranno parole per esprimerlo. […] Ortodossia significa non pensare, non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è non-conoscenza» (Orwell, 1984, trad. di G. Baldini, Mondadori 1989, pp.  56–57). Un’ortodossia che per i Greci è soltanto tenebra.

Del sempre

Davide Susanetti
Il simbolo nell’anima
La ricerca di sé e le vie della tradizione platonica
Carocci 2020
Pagine 173

Il mondo antico, le civiltà, le culture, i testi e i riti mediterranei, la sapienza dell’umano, dell’intero e del mondo, si pongono oltre ogni dualismo tra lo spirito e la materia, tra l’anima e il corpo.
Il loro apprendimento va dunque oltre il pur necessario rigore storico e filologico, per «procedere alla ricerca di un pensiero vivente, che crea e riplasma incessantemente i mondi» (p. 12); va oltre le illusioni di un bene e di un male assoluti; va oltre il presente e la sua banale potenza d’esserci, per cercare di attingere invece le radici e le forme del sempre.
Del sempre come tempo nel quale ogni comprensione è anche azione, ogni teoria è anche un fare. Del sempre come molteplicità di strade, itinerari e credenze; come ricchezza incomprimibile di principi, luoghi, simboli.
Tra questi, nel mondo antico, Delfi. Uno spazio dove agiscono forze impalpabili, sottili ma evidenti. Dove «tutto diviene suprema unità e presenza assoluta. Là cielo e terra, uomini e dei, storia e natura, passato, presente e futuro paiono coagularsi, con inatteso e sorprendente prodigio, in un unico magico punto che offre, alle anime ricettive, la percezione del principio di ogni cosa. Un punto in cui due linee invisibili s’intersecano: il tracciato orizzontale del divenire e la verticale luminosa dell’essere» (13). Essere e divenire che non sono, ancora una volta, due ma costituiscono l’unità molteplice della materia dalla quale tutto sgorga, nella quale tutto sta e tutto insieme diviene.
Un testo chiave che si immerge in tali dinamiche e di esse cerca di rendere conto è Timeo, nel quale l’essere appare come fatto di un’identità immutabile e incorruttibile e della differenza che suddivide, trasforma, moltiplica, produce, fa. In un movimento circolare che è «il moto del tutto, nella duplice intersezione del cerchio del diverso e dell’identico» (143).
I simboli nei quali e con i quali l’intera cultura greca, compreso il neoplatonismo, intese tutto questo sono i nomi di Ecate, Rea, Cibele.
Ecate è la signora della notte e della luna, è madre feconda ed è insieme vergine, è mediatrice tra i mondi superiori e inferiori. L’asiatica Cibele e l’ellenica Rea sono la stessa titana generata da Gea e Uranos, dalla Terra e dal Cielo e dunque Cibele/Rea è la Grande Madre di tutti gli dèi, ai quali Plotino, Giuliano, Sinesio, Proclo dedicarono le loro azioni, i riti, gli inni.
Uno di questi, composto da Proclo, canta la vita umana come un nulla che diventa qualcosa soltanto perché coniugato alle forze profonde del cosmo, al di là dei «tenebrosi recessi della caduta», delle «fredde onde della nascita»  (Inno 4, A tutti gli dèi, vv. 5 e 14), per diventare «una pura scintilla di luce, / una scintilla che dissolva la nebbia» (Ivi, vv. 7-8; qui a p. 152).

Napoli, il dolore

È stata la mano di Dio
di Paolo Sorrentino
Italia, 2021
Con: Filippo Scotti (Fabietto Schisa), Toni Servillo (Saverio Schisa), Teresa Saponangelo (Maria Schisa), Luisa Ranieri (Patrizia), Renato Carpentieri (Alfredo), Betti Pedrazzi (Baronessa Focale), Marlon Joubert (Marchino Schisa), Ciro Capuano (Capuano), Massimilano Gallo (Franco)
Trailer del film

Appeso al tempo e al suo dolore appare Paolo Sorrentino nell’immagine più emblematica di un film come sempre interamente simbolico. Appare nella geometrica Galleria Umberto di Napoli, appeso con delle corde a testa in giù in una scena del regista Ciro Capuano. Il liceale Fabietto Schisa osserva con trasporto, incanto e sorpresa una scena così inusuale e a poco a poco trascorre dall’aspirazione a studiare filosofia alla decisione di diventare regista. E ora, diventato Fabietto/Paolo il regista noto a tutti, racconta Napoli e se stesso. Racconta la famiglia allargata, bizzarra, divertente e feroce. Racconta la famiglia intima, il fratello aspirante attore fallito, la sorella sempre chiusa in bagno e soprattutto i genitori amati, amanti, tradenti, sempre giovani, borghesi, comunisti, in vena di scherzi crudeli, morti.
Racconta queste famiglie dentro il Golfo, le Isole mediterranee, le case di montagna, le feste e i conflitti. Racconta con esplicito e ripetuto debito alla poetica di Federico Fellini, la cui voce si sente da una stanza, e a quella di Sergio Leone, i cui film Fabietto vede e rivede. Che cosa fanno Fellini, Leone e Sorrentino? Trasformano il dolore d’esserci in ironia, desiderio, simbolo e cultura. E in questo modo aiutano a capire con la leggerezza del cinema, con il suo sogno amniotico, che cosa la vita sia, che cosa sia ζωή. Essa è l’inestricabile compenetrarsi e lottare di amore e morte, del desiderio che spinge alla riproduzione e del finire inevitabile dell’entità temporale che dall’orgasmo è nata: un corpo, una vita singola dentro il ripetersi noioso dell’intero. Con la certezza che alla fine a vincere è sempre θάνατος.
Il tono apparentemente lieve della prima parte del film, il tornare a intervalli regolari della mano di Maradona che agli occhi dei suoi devoti riscatta l’Argentina alle Malvine, salva Fabietto dalla morte e regala a Napoli la gioia, è un tono che non nasconde la follia che intrama la prima scena, con un San Gennaro che percorre le strade della sua città dentro una vecchia elegantissima Rolls Royce e regala alla conturbante zia Patrizia il miracolo della fecondità; non nasconde la violenza della famiglia intera che aspetta al varco il nuovo e anziano fidanzato di una strabordante carnosa nipotina; non nasconde la «cattiveria dei napoletani» esplicitamente indicata in una delle battute più disvelatrici.
La seconda parte, di conseguenza, vibra di dolore, di «abbandono» anch’esso esplicitamente menzionato oltre che vissuto, di una malinconia profonda che la scena ultima e ripetuta del gol di Maradona rende terribile e definitiva. È stata la mano di un demiurgo crudele a produrre tutto questo. Arte, scienza e filosofia sono i modi più profondi per capirlo e per condannare con un sorriso a testa in giù il fatto d’essere appesi alla fune del tempo, d’essere nati.

Asce

Johann Sebastian Bach – Víkingur Ólafsson – Ryūichi Sakamoto
Concerto n° 3 in re minore BWV 974 II Adagio
Da Bach Reworks / Part 2 (2019)

Víkingur Ólafsson è assai più che un eccellente pianista. È un musicista che perviene al fondamento della musica barocca, al suo sostrato oscuro e potente. Come in questa reinvenzione elettronica dell’Adagio del concerto 974 di Bach, composta insieme a Ryūichi Sakamoto. Il brano di Bach è a sua volta una trascrizione da un concerto per oboe, archi e basso continuo di Alessandro Marcello.
La musica di Bach, Ólafsson e Sakamoto diventa il gorgogliare dell’inquietudine. Basti confrontare questa versione con il concerto “normale” eseguito dallo stesso Ólafsson.
A queste note ho pensato di poter affiancare i versi di Asce, tratti da Un barlume di fasto (Scrittura Immagine Edizioni, 2013, p. 51).

[L’immagine di apertura è di Stefano Piazzese e rappresenta la scogliera di zona Tonnara di Santa Panagia, a Siracusa]

Ἀναγκη

Il dubbio. Un caso di coscienza
(Bedoone Tarikh, Bedoone Emza)
di Vahid Jalilvand
Iran 2017
Con: Amir Aghaee (Dr. Nariman), Navid Mohammadzadeh (Moosa), Hediyeh Tehrani (Sayeh), Zakieh Behbahani (Leila)
Trailer del film

Un medico legale investe senza volerlo una moto con sopra una famigliola, compreso un bambino di otto anni. Sembra comunque che nessuno si sia fatto male. La notte stessa il bambino arriva però morto in ospedale. L’autopsia accerta che si tratta di avvelenamento da cibo andato a male ma il dott. Nariman si tormenta sospettando che in realtà sia stata la caduta dalla moto a causare il decesso. Intanto il padre del bimbo finisce in prigione per aver aggredito l’uomo che gli ha venduto i polli avariati che hanno ucciso il figlio. Il tormento dei due uomini fa sentire ciascuno di loro responsabile della morte. E gli attori, tutti, sono ben immersi in questa  inesorabile trama.
Sempre la colpa gorgoglia dall’agire umano, come un drago che soffoca nelle sue spire l’orizzonte. Dalle azioni più insignificanti alle opzioni di fondo dell’esistere sentiamo, sì lo sentiamo proprio, che qualcosa è accaduto con il nostro nascere, qualcosa che non doveva accadere. E che dobbiamo scontare. Da Anassimandro a Ungaretti «la morte si sconta vivendo»; da Eschilo a Pirandello – ben presente nella trama aporetica del film, dove sino alla fine ciò che è è anche ciò che ciascuno vuole che sia–,  γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικία, le cose sono tutte transeunti e subiscono l’una dall’altra la pena della fine.
Non riusciamo ad accettare che Ἀνάγκη guidi gli eventi, che φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, che l’essere, l’intero, il sorgere, porti sempre con sé il tramonto, «che il nulla stia fitto dentro il mondo / nessuna sfera ne esce già redenta». I nostri dolori sono meritati come le nostre gioie, al di là dei limiti e delle scelte di ciascuno. Una profonda giustizia domina l’insignificanza delle esistenze umane dentro il tempo.

Vai alla barra degli strumenti