Aracoeli
di Elsa Morante
Einaudi, Torino 1982
Pagine 328
Elsa Morante (1912-1985) e Carlo Emilio Gadda sono stati i maggiori narratori italiani della seconda metà del Novecento. L’ultimo romanzo della scrittrice è un libro triste e bellissimo nel quale l’io narrante ricapitola la propria vita dalla nascita sino all’adolescenza, quando una solitudine infinita verrà a spegnere il suo futuro. Da adulto, Emanuele viaggia verso l’Andalusia, nel disperato tentativo di ritrovare le tracce e la presenza di Aracoeli, la madre amata e perduta. Il presente del viaggio si alterna al passato della memoria e crea una sorta di tempo immobile, il cui acme è l’istante dell’incontro onirico ma in qualche modo reale con il «minuscolo sacco d’ombra» (p. 307) in cui la residua energia della madre morta prende estrema ultima forma. E al rimorso del figlio che sente di aver peccato contro l’intelligenza per non aver mai capito nulla della vita, Aracoeli risponde «ma, niño mio chiquito, non c’è niente da capire» (308). È la disincantata parola di un’ombra sul divenire delle vicende umane, alla quale fa da eco nel figlio la constatazione che «tutte le altre storie, o Storie, mortali o immortali» sono immaginarie (327).
La memoria del protagonista germina da una condizione che è «la più nera infelicità terrestre: di esistere vivi dove non c’è nessuno che ci ama» (285) e per contrasto fa rinascere, in un drammatico gioco di colori e di tenebre, la luce felice dell’amore straripante di Aracoeli verso di lui, amore distrutto dai «torvi orienti di quell’epoca maligna» (213) in cui la primitiva forza vitale della madre si muta in una parodia smisurata e insensata, in un rutilante e folle precipizio, come se l’immensa energia dell’esistere non avesse che per scopo la morte, come se l’essere umano altro non fosse che «un grumo di mali più pesante del caos» (169).
Ad Aracoeli va l’adorazione e qualche volta il risentimento del figlio. È in lei che Emanuele vorrebbe svanire: «Ma tu, mamita, aiutami. Come fanno le gatte coi loro piccoli nati male, tu rimàngiami. Accogli la mia deformità nella tua voragine pietosa» (109). Il romanzo è intriso di una scrittura struggente, è intessuto di una sofferenza profonda eppure luminosa:
Oggi mi chiedo se quella nuova, piccola belva sanguinaria, perfetta gemella dell’altra, non fosse per caso una sua messaggera postuma, inviata a suggerirmi, col suo pungiglione, il motivo innominato di quel mio pianto. Questa non fu, come l’altra, foriera di pianto; ma certi individui sono più inclini a piangere d’amore, che di morte. (328)