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Italia / Europa

GRAND TOUR. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei
Gallerie d’Italia – Milano
Sino al 27 marzo 2022

[Barberi, Veduta dei Fori romani, 1854; l’immagine di apertura è di Hackert, I Faraglioni di Aci Trezza, 1793]

L’Italia, l’antico, la storia, la bellezza. L’Italia, fonte e antologia dell’Europa, è stata solcata, conquistata, abbandonata, ammirata, dipinta, scolpita. Alcune tracce se ne vedono nella mostra milanese dedicata al  Grand  Tour, al Grande Itinerario che attraversa le capitali -Roma, Venezia, Napoli, Firenze- ma anche centri minori e soprattutto l’Isola del mito, dell’incanto e della morte: la Sicilia.

[Waldmülle, Rovine del Teatro di Taormina, 1844]

Di essa, come è noto, Goethe affermò che «l’Italia senza la Sicilia non lascia alcuna immagine nell’anima. Qui è la chiave di tutto». Meno note ma altrettanto vere sono le parole che il poeta dedicò a Napoli, descritta come «un paradiso; tutti vivono in una specie di ebbrezza e di oblio di se stessi. A me accade lo stesso; non mi riconosco quasi più, mi sembra d’essere un altr’uomo» . Di Goethe si vedono qui alcuni celebri ritratti, ai quali fanno compagnia un ritratto di Piranesi e due di Winckelmann, uno degli scopritori del mondo greco, dell’arte classica, della sua perennità, misura, splendore. Il mondo greco non fu, naturalmente, solo quella misura ma fu anche vibrazione verso il limite ultimo della potenza, fu violenza, passioni, inquietudine. Una testimonianza è la statua della Artemide Efesia, che apre la mostra è che la domina con la sua sovrabbondanza di sacralità, distanza, implacabilità.

[Ducros, Teatro Greco di Siracusa]

Poi si susseguono, senza un ordine preciso e anche questa è una buona scelta, i luoghi dell’Italia, le città, le rovine -Roma, Pompei-, i vulcani -il Vesuvio e l’Etna-, i teatri -Siracusa, Taormina-, i templi -Agrigento, Paestum-, le feste -Venezia, Napoli-, le tempeste -come un singolare Temporale a Cefalù di Ducros (qui sotto), nel quale una imbarcazione sembra volare sui boschi e Zeus scagliare fuoco e folgori dal cielo.

E insieme al  cielo, i mari, le mura delle città, i palazzi, la vita, le esistenze, il tempo…

Qui l’umana speranza e qui la gioia,
qui’ miseri mortali alzan la testa
e nessun sa quanto si viva o moia.
Veggio or la fuga del mio viver presta,
anzi di tutti, e nel fuggir del sole
la ruina del mondo manifesta.
[…]
Passan vostre grandezze e vostre pompe,
passan le signorie, passano i regni;
ogni cosa mortal Tempo interrompe,
e ritolta a’ men buon, non dà a’ più degni;
e non pur quel di fuori il Tempo solve,
ma le vostre eloquenzie e’ vostri ingegni.
Così fuggendo il mondo seco volve,
né mai si posa né s’arresta o torna,
finché v’ha ricondotti in poca polve.
[…]
Tutto vince e ritoglie il Tempo avaro;
chiamasi Fama, et è morir secondo;
né più che contra ‘l primo è alcun riparo.
Così ‘l Tempo triunfa i nomi e ‘l mondo.

Francesco Petrarca, Trionfo del Tempo, vv. 64-69; 112-120; 142-145.

La pelle

Curzio Malaparte 
La pelle
Garzanti, 1967 (1949)
Pagine 334

I fatti. Anzitutto i fatti. Quelli che tutti conoscono ma che è bene tacere. I fatti dei quali molti europei erano stati testimoni e conservavano memoria ma che era bene trattare come se non fossero accaduti. I fatti dell’Italia e dell’Europa liberata dagli eserciti alleati. Fatti che aiutano a comprendere in modo più ampio che cosa quella liberazione fu, quale costo ebbe per i popoli del nostro continente.
I fatti.
Bambini e bambine venduti ai soldati vincitori da parte dei loro stessi familiari.
L’amicizia e i ‘fidanzamenti’ dei soldati americani, in particolare i soldati neri, come grandi affari necessari alla sopravvivenza: «Il negro non sospettava di nulla. Non si avvedeva di esser comprato e rivenduto ogni quarto d’ora e camminava innocente e felice […] Non sospettava neppure di esser venduto e comprato come uno schiavo. […] Un negro americano era una miniera d’oro» (p. 25).
Una ragazza vergine mostrata come cosa rara e con la possibilità di infilare un dito nella sua vagina in modo da verificare che vergine fosse realmente: «Per sentirsi eroi, tutti i vincitori hanno bisogno di veder queste cose. Hanno bisogno di ficcare il dito dentro una povera ragazza vinta» (50).
Un rito iniziatico della ‘Internazionale degli invertiti’, denominato ‘la Figliata’.
Degli ebrei crocifissi dai nazisti in Ucraina.
Le bombe al fosforo su Amburgo: «Il fosforo è tale che si appiccica alla pelle come una viscida lebbra, e brucia solo al contatto dell’aria. Non appena quei disgraziati sporgevano un braccio fuor della terra o dell’acqua, il braccio si accendeva come una torcia. Per ripararsi dal flagello, quegli sciagurati erano costretti a rimanere immersi nell’acqua o sepolti nella terra come dannati nell’Inferno di Dante. […] E nulla valeva ad arrestare il morso di quella terribile lebbra ardente» (104).
L’amatissimo cane di Malaparte -di nome Febo- rubato a Pisa, venduto per pochi soldi alla Clinica Veterinaria dell’Università, torturato con la vivisezione: «Era disteso sul dorso, il ventre aperto, una sonda immersa nel fegato. Mi guardava fisso, e gli occhi aveva pieni di lacrime. Aveva nello sguardo una meravigliosa dolcezza. Respirava lievemente, con la bocca socchiusa, scosso da un fremito orribile. Mi guardava fisso, e un dolore atroce mi scavava il petto» (159).
A un pranzo del Generale Cork viene portato in tavola l’ultimo rarissimo pesce rimasto nell’acquario di Napoli (gli Alleati avevano proibito la pesca per ragioni militari); un pesce-sirena che sembra pari pari una bambina bollita e che come tale viene accolto con orrore dai commensali: «Io guardavo quella povera bambina bollita, e tremavo di pietà e di orgoglio dentro di me. Meraviglioso paese, l’Italia ! pensavo. Quale altro popolo al mondo si può permettere il lusso di offrire a un esercito straniero, che ha distrutto e invaso la sua patria, una Sirena alla maionese con contorno di coralli? Ah ! Metteva conto di perder la guerra, sol per vedere quegli ufficiali americani, quell’orgogliosa donna americana, sedere pallidi e sbigottiti d’orrore intorno a una Sirena, a una deità marina distesa morta in un vassoio d’argento, sulla tavola di un generale americano!» (218).

Questo fu la Seconda guerra mondiale a Napoli, in Italia, in Europa, ovunque. Compresa la guerra di resistenza al nazifascismo. Quest’ultima fu «un’atroce guerra civile» (302) e la guerra universale fu una «guerra non contro gli uomini, ma contro Cristo» (301), nome che compare lungo tutto il romanzo -anche il cane Febo è un Cristo crocifisso- a indicare probabilmente per contrasto l’impossibile purezza dell’umanità. Una guerra che sarebbe stato vergogna vincere (così la chiusa, p. 328). Una guerra che vide le popolazioni sottomettersi con gioia ai nuovi padroni e alla loro sorridente e ottimistica depravazione. Una guerra i cui luoghi italiani stupiscono i militari americani, che mostrano tutta la loro ignoranza su Roma e sull’Italia. Una guerra dove, a Napoli, nobiltà e plebe confermano ancora una volta la loro complicità, la loro reciproca fedeltà, la loro familiarità. Una guerra alla fine della quale uscirono dalle loro tane coloro che in esse si erano rifugiati -tane letterali, tane metaforiche- e che poi, «un giorno, morto il tiranno, faran gli eroi della libertà» (161). Una guerra che diventa piccola cosa al cospetto della potenza di due vulcani: l’«Etna, Olimpo di Sicilia» (161) e soprattutto il Vesuvio, la cui eruzione del 1944 viene descritta da Malaparte nel modo epico che quell’evento merita e che vide punite l’arroganza e il sentimento di superiorità dei soldati alleati, diventati anch’essi dei pezzenti del terrore, straccioni in fuga di fronte alla potenza del fuoco.

La lingua di Malaparte sembra davvero la pittura di Brueghel o di Bosch (esplicitamente ricordati a p. 29). La follia di Brueghel e di Bosch ricondotta e trasformata nella follia della Napoli e dell’Europa contemporanee.
Napoli, «la più misteriosa città d’Europa» (40); Napoli vittima di una peste, di un «nuovissimo morbo […] che non corrompeva il corpo, ma l’anima» (33), simile in questo al morbo contemporaneo denominato Covid19; Napoli, l’antica cui «nobile voce della fame, della pietà, del dolore, della gioia, dell’amore, l’alta rauca, sonora, allegra, trionfante voce era spenta» (322) ma con la dignità del suo popolo intatta, nonostante tutte le azioni turpi e infami delle quali diventa complice a favore dei ‘liberatori’; Napoli della quale Malaparte disegna come a nessun altro ho visto fare «il sapore e l’odore della luce» (120).
Al di là di Napoli, tutta l’Europa «è un paese misterioso, pieno di segreti inviolabili» (21); è una terra nobile, saggia ed estrema. E tale rimane anche quando non viene «purificata ma corrotta dalla sofferenza», anche quando non viene «esaltata ma umiliata dalla raggiunta libertà» (123). Durante la catastrofe delle due guerre nelle quali e con le quali l’Europa si è uccisa, dopo e di fronte agli effetti di tale autodistruzione, pur in mezzo alla «sottile, cinica, perversa propaganda condotta di lontano, e mirante a dissolvere il tessuto sociale europeo, in previsione di ciò che gli spiriti deboli del nostro tempo salutano come la grande rivoluzione dell’età moderna» (130), l’Europa è ancora la culla della luce pur rischiando d’essere la sua tomba.
E questo anche per merito dei suoi scrittori, filosofi e artisti, come lo stesso Curzio Malaparte, perseguitato dal fascismo e ostracizzato dall’antifascismo, avendo «sofferto la galera per la libertà dell’arte» (99) e l’emarginazione e delle bizzarre accuse per la stessa ragione. Come altri scrittori, filosofi e artisti, Malaparte può dire con chiarezza in mezzo alla devastazione, «io ero l’Europa. Ero la storia d’Europa, la civiltà d’Europa» (199).
I morti di Napoli e i morti universali; «hanno una forza terribile, i morti, e potrebbero spezzare i ferri, romper la cassa, buttarsi fuori a mordere» (70). Morti i quali, e qui l’intuizione antropologica è profonda, «eran stranieri, appartenevano a un’altra razza, alla razza degli uomini morti, a un’altra patria, la morte» (308). È infatti un libro di antropologia La pelle. Un’antropologia disincantata e dagli accenti gnostici. Di fronte all’intera vicenda di macello e di dissoluzione che è la storia umana, infatti, si deve constatare che «gli uomini son capaci di qualunque vigliaccheria per vivere : di tutte le infamie, di tutti i delitti, per vivere» (44). Realisticamente ed empiricamente, «l’uomo è cosa ignobile. […] L’uomo è una cosa orrenda» (319-320), tanto che disprezzare in sé e negli altri questa umanità «è la prima condizione della serenità e della saggezza nella vita umana» (159-160).

«Il male è inguaribile» (60) e la sua bandiera politica, il suo simbolo antropologico, il suo stendardo esistenziale è un uomo schiacciato da un carro armato alleato mentre correva per le strade di Roma ad accogliere festante i vincitori. Ridotto a una sottile striscia di carne e di pelle, quello che di lui rimase «è la bandiera della nostra patria, della nostra vera patria. Una bandiera di pelle umana. La nostra vera patria è la nostra pelle. […] E unitici al corteo dei becchini, ci avviammo dietro la bandiera. Era una bandiera di pelle umana, la bandiera della nostra patria, era la nostra stessa patria. E così andammo a vedere buttare la bandiera della nostra patria, la bandiera della patria di tutti i popoli, di tutti gli uomini, nell’immondezzaio della fossa comune» (288-290).
Un romanzo di guerra e di memorie, scritto come una poesia che si trasforma in studio antropologico e in danza macabra. E sopra ogni cosa l’intelligenza del mondo e della storia.

Napoli, il dolore

È stata la mano di Dio
di Paolo Sorrentino
Italia, 2021
Con: Filippo Scotti (Fabietto Schisa), Toni Servillo (Saverio Schisa), Teresa Saponangelo (Maria Schisa), Luisa Ranieri (Patrizia), Renato Carpentieri (Alfredo), Betti Pedrazzi (Baronessa Focale), Marlon Joubert (Marchino Schisa), Ciro Capuano (Capuano), Massimilano Gallo (Franco)
Trailer del film

Appeso al tempo e al suo dolore appare Paolo Sorrentino nell’immagine più emblematica di un film come sempre interamente simbolico. Appare nella geometrica Galleria Umberto di Napoli, appeso con delle corde a testa in giù in una scena del regista Ciro Capuano. Il liceale Fabietto Schisa osserva con trasporto, incanto e sorpresa una scena così inusuale e a poco a poco trascorre dall’aspirazione a studiare filosofia alla decisione di diventare regista. E ora, diventato Fabietto/Paolo il regista noto a tutti, racconta Napoli e se stesso. Racconta la famiglia allargata, bizzarra, divertente e feroce. Racconta la famiglia intima, il fratello aspirante attore fallito, la sorella sempre chiusa in bagno e soprattutto i genitori amati, amanti, tradenti, sempre giovani, borghesi, comunisti, in vena di scherzi crudeli, morti.
Racconta queste famiglie dentro il Golfo, le Isole mediterranee, le case di montagna, le feste e i conflitti. Racconta con esplicito e ripetuto debito alla poetica di Federico Fellini, la cui voce si sente da una stanza, e a quella di Sergio Leone, i cui film Fabietto vede e rivede. Che cosa fanno Fellini, Leone e Sorrentino? Trasformano il dolore d’esserci in ironia, desiderio, simbolo e cultura. E in questo modo aiutano a capire con la leggerezza del cinema, con il suo sogno amniotico, che cosa la vita sia, che cosa sia ζωή. Essa è l’inestricabile compenetrarsi e lottare di amore e morte, del desiderio che spinge alla riproduzione e del finire inevitabile dell’entità temporale che dall’orgasmo è nata: un corpo, una vita singola dentro il ripetersi noioso dell’intero. Con la certezza che alla fine a vincere è sempre θάνατος.
Il tono apparentemente lieve della prima parte del film, il tornare a intervalli regolari della mano di Maradona che agli occhi dei suoi devoti riscatta l’Argentina alle Malvine, salva Fabietto dalla morte e regala a Napoli la gioia, è un tono che non nasconde la follia che intrama la prima scena, con un San Gennaro che percorre le strade della sua città dentro una vecchia elegantissima Rolls Royce e regala alla conturbante zia Patrizia il miracolo della fecondità; non nasconde la violenza della famiglia intera che aspetta al varco il nuovo e anziano fidanzato di una strabordante carnosa nipotina; non nasconde la «cattiveria dei napoletani» esplicitamente indicata in una delle battute più disvelatrici.
La seconda parte, di conseguenza, vibra di dolore, di «abbandono» anch’esso esplicitamente menzionato oltre che vissuto, di una malinconia profonda che la scena ultima e ripetuta del gol di Maradona rende terribile e definitiva. È stata la mano di un demiurgo crudele a produrre tutto questo. Arte, scienza e filosofia sono i modi più profondi per capirlo e per condannare con un sorriso a testa in giù il fatto d’essere appesi alla fune del tempo, d’essere nati.

II Convegno della Società Italiana di Filosofia Teoretica

Da giovedì 14 a sabato 16 ottobre 2021 si svolgerà a Napoli il Secondo Convegno della Società Italiana di Filosofia Teoretica. I filosofi italiani discuteranno di Natura e Tecnica, con la partecipazione di giovani studiosi selezionati negli scorsi mesi. Faccio parte del Comitato scientifico del Convegno e coordinerò una delle sessioni previste nella mattinata di giorno 15. Nel pomeriggio del 14 Andrea Pace Giannotta, dottore di ricerca e collaboratore della cattedra di teoretica al Disum, parlerà di «corpo funzionale e corpo senziente».
Questa la presentazione del Convegno sul sito della SiFiT:

«La domanda circa la relazione tra Tecnica e Natura accompagna la storia del pensiero filosofico e scientifico sin dai suoi inizi: dalle cosmogonie arcaiche all’invenzione della logica, dalla canonizzazione della geometria all’ideale umanistico dell’educazione, dalle arti magiche alle scienze sperimentali, in epoche e modi diversi si è ripresentata la medesima questione, al fine di comprendere non tanto quel che spettava all’una o all’altra, ma quanto dell’una c’era nell’altra.

Nondimeno è però nella filosofia contemporanea che quell’interrogativo si è fatto più urgente e radicale, in ragione di un contesto nel quale le tecnologie sono divenute più pervasive e capaci di creare effetti su scala macroscopica e microscopica, modificando le relazioni e i ruoli sociali, le esperienze del dolore, del piacere e della malattia, la percezione e l’attenzione, i linguaggi, le distanze e gli spazi, gli uomini e il mondo.

Per queste ragioni, perché antica e attuale come è la domanda sulla relazione tra Tecnica e Natura rappresenta forse la questione eponima della filosofia, la Sifit ha deciso di dedicare a questi temi il suo II Convegno».

Biotecnologie e antropodecentrismo

Venerdì 10 settembre 2021 alle 9.30 terrò una relazione nell’ambito di un Convegno dedicato a Technology and coexistence. Phenomenological and anthropological perspectives.
Il Convegno si svolge in presenza presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Federico II di Napoli (Aula Aliotta, in via Porta di Massa 1). Per chi vuole, è possibile comunque seguire i lavori attraverso il sito indicato nella locandina qui sotto.
Il mio intervento ha come titolo Biotecnologie e antropodecentrismo. Cercherò di argomentare una prospettiva etoantropologica a partire dalla quale comprendere lo statuto e gli scopi sia della sperimentazione animale sia delle più recenti biotecnologie. Esse costituiscono di fatto una disintegrazione dell’animalità, poiché si tratta di mutamenti che non trasformano ma dissolvono l’animale sia nelle manifestazioni empiriche sia nel suo significato ontologico.
Ogni animale, umani compresi, ha il proprio modo di stare al mondo, le proprie specificità etologiche, la propria struttura percettiva e situazione spaziotemporale. In una parola la propria Umwelt, lo spaziotempo che ogni vivente consapevole non si limita ad abitare ma lo spaziotempo che è. Tutti elementi che le biotecnologie cancellano imponendo alla vita animale e al singolo vivente strutture spaziali e ritmi temporali del tutto artificiali, estranei alla specificità etologica dell’individuo e della specie.
L’animalità è trasformazione, certo, è ibridazione, scambio, flusso ma tutto questo ha senso e conduce a risultati adattivi nei tempi lunghi dell’evoluzione. Privare l’animale del tempo significa togliergli tutto, costringerlo in un blocco temporale privo di ciò che alla vita animale dà senso e giustificazione: i movimenti predatori e di difesa, l’orizzonte di attesa, l’immersione nell’ambiente dato. Le biotecnologie riducono l’animalità a un’invenzione brevettabile; costituiscono quindi una pratica di sterminio e rappresentano il momento più basso delle relazioni tra l’animale umano e gli altri animali.

 

 

Carmagnola

Canto dei Sanfedisti
Marco Beasley e Ensemble Accordone
(da Fra’ Diavolo. La musica nelle strade del Regno di Napoli)

Rispetto a El pueblo unido jamás será vencido e a Borghesia quello che propongo oggi è un celebre canto reazionario e tuttavia anch’esso popolare, a conferma che «i nobili sono così, fanno idealmente e materialmente uno con il ‘popolo’ analfabeta, ne sono l’altra faccia e insieme a loro costituiscono una comunità solidale, socievole e insocievole a seconda delle vicende» (Carlo Sini, Idioma. La cura del discorso, Jaca Book 2021, p. 63).
In questo caso si tratta della marcia delle truppe sanfediste, vale a dire del popolo fedele ai Borboni e nemico dei giacobini, che nel 1799 contribuì alla disfatta della Repubblica Napoletana creata dai francesi: «È fernuta l’uguaglianza / è fernuta la libertà / pe ‘vuie so’ dulure e panza / signo’, iateve a cuccà!». Infatti molti nobili avevano aderito alla Repubblica e dunque erano agli occhi del popolo partenopeo dei traditori del legittimo sovrano: «Maistà chi t’ha traruto / Chistu stommaco chi ha avuto, / ‘E signure ‘e cavaliere / Te vulevano priggiuniere» . L’odio verso i francesi è motivato anche dalle tasse da loro imposte: «So’ arrivate li francise,  / aute tasse n’ci hanno mise / ‘liberté, egalité’ / tu arruobbe a mmè / ie arruobbe a ttè!». La frase più cruda è forse quella che riguarda Eleonora Fonseca Pimentel, nobile giacobina, impiccata dal boia Mastro Donato nella piazza del mercato: «Addò è ghiuta donn’Eleonora, / c’abballava ’n copp’o tiatro? / Mo abballa miezz’o mercato / n’zieme cu Mastu Donato!».
Costante è il riferimento alla Carmagnola, il canto rivoluzionario al quale quello dei sanfedisti si oppone con caparbia ironia: «Sona sona / sona Carmagnola / e sona li cunsiglia / viva ‘o Rre cu la famiglia».

Tra le numerose e assai differenti versioni di questa marcia ho scelto quella di Marco Beasley e dell’ensemble Accordone per la potenza della voce, la limpidezza del canto, la raffinatezza strumentale.
Nel video l’insistenza del pubblico ottiene un bis: il brano di Claudio Monteverdi Si dolce è ’l tormento, uno struggente canto d’amore. «Per foco e per gelo / Riposo non hò / Nel porto del Cielo / Riposo haverò. / Se colpo mortale / Con rigido strale / Il cor m’impiagò, / Cangiando mia sorte / Col dardo di morte / Il cor sanerò».

Erinni partenopee

Eduardo De Filippo. Il sindaco del rione Sanità
di Mario Martone
Con: Francesco Di Leva (Antonio Barracano), Roberto De Francesco (Dottor Fabio Della Ragione), Massimiliano Gallo (Arturo Santaniello), Adriano Pantaleo (Catiello), Daniela Ioia (Armida), Salvatore Presutto (Rafiluccio Santaniello)
Italia, 2019
Trailer del film

Martone ha voluto che il nome di Eduardo De Filippo comparisse anche nel titolo. Come è giusto. Perché il film è assai fedele al testo di Eduardo, che dall’ambientazione nel presente (e non negli anni Cinquanta del Novecento) riceve ulteriore significato. Universale è infatti questa storia di ‘ignoranti’ che si rivolgono a un uomo ritenuto da tutti più saggio, allo scopo di appianare i loro conflitti, le violenze, il rancore. Un uomo che ha ucciso una volta sola, per sopravvivere all’angoscia, al tumulto e alla sofferenza anche fisica generati da una violenza subita senza ragione: «So’ passate cinquanta-sett’anne: don Artu’, l’ultima l’ultima coltellata a Giacchino nun nce l’aggio data ancora».
Don Antonio Barracano si muove come il popolo del suo rione napoletano; parla con la lingua meravigliosa, espressiva e potente della sua città; ne condivide codici, scetticismi, delusioni. E tuttavia quest’uomo è un’astrazione. È troppo saggio, infatti. Molto più saggio dell’umanità «fetente» che lo circonda, come gli ricorda il suo alter ego ‘laureato’, il medico Fabio Della Ragione (nome dal trasparente significato). Umanità fetente a cominciare dai suoi familiari per arrivare sino a chi non nutre alcuna gratitudine per la salvezza che da Don Antonio ha ottenuto. Una saggezza talmente profonda da pervenire alla rinuncia.
Tutto il grande teatro, tutto il teatro del mondo e dei secoli -Marlowe, Shakespeare, Molière, Beckett, De Filippo, e tanti altri– è tale perché riprende, traduce e reinventa ogni volta il nucleo del dialogo dell’Europa con il senso e con le Erinni, perché riprende, traduce e reinventa ogni volta la tragedia greca. Il sindaco del rione Sanità è evidentemente greco, anche in questa versione di Martone, alla quale attori tutti napoletani -e dunque duri, musicali e profondi– offrono il dono della vita che scorre, che va, che si perde.
«C’è un’altra cosa che non dice mai bugie: ‘a morte. L’uomo che appartiene alla streppegna [razza] schifosa e falsa dell’umanità, per commettere ingiustizie si può fingere sordo, muto, cecato, malato ‘e core, paralitico, tisico, pazzo… se po’ fa credere in punto di morte… e i medici, compreso voi professo’, devono fare prove e controprove per assodare se l’infortunio o la malattia sono veraci o no; ma quanno è morto, ‘o core dice ‘a verità: se ferma».

[Tre anni fa vidi un’altra messa in scena dell’opera e ne parlai qui: Antropologia napoletana]

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