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Napoli, Il Barocco

Velázquez. ‘Un segno grandioso
Gallerie d’Italia – Napoli
Sino al 14 luglio 2024

La sede partenopea delle Gallerie d’Italia raccoglie e documenta alcuni momenti fondamentali della vicenda artistica napoletana dal Seicento alla fine del XIX secolo. Scorrono nelle sale lo splendore del Pieno barocco nella molteplicità delle sue espressioni; scorrono paesaggi vesuviani molto belli; scorrono scene di vita cittadina che raffigurano i diversi ceti sociali che a Napoli hanno sempre convissuto in reciproco legame; scorrono dipinti e sculture dei maggiori artisti che in questa città sono nati o che in essa hanno trovato casa, ispirazione e luce.

Vincenzo Franceschini, Paesaggio col Vesuvio, 1862

La presenza di Caravaggio è naturalmente pervasiva e trasforma le ombre in luminosità dirompente e la luce in una potenza oscura. E soprattutto emergono l’architettura urbana, le colline e il mare, come in questa assai bella raffigurazione di Chiaia di Gaspar Adriaensz van Wittel.

Gaspar Adriaensz van Wittel, Chiaia, 1700-1710

Il Barocco è anche questa potenza di irradiazione dello spazio.
Nelle sale destinate alle mostre temporanee sono ospitati due dipinti del giovane Velázquez, che ritraggono un trionfo della Madonna e l’apostolo Giovanni che a Patmos descrive tale trionfo. Le due figure sembrano scolpite, tanto sono nette e insieme sinuose, dominanti lo spazio e rivolte non a una superflua trascendenza ma alla gloria dell’immanenza. Anche questa gloria e il Barocco.
Nei pressi della sede delle Gallerie c’è una chiesa che sin dalla sua porta conferma il gioco di tormento e di potenza che è il Barocco napoletano.

Napoli, ingresso chiesa di Nostra Signora dei Sette Dolori

Filosofia come musica

Giovedì 2 maggio 2024 alle 15.30 nell’Aula DSU3 del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Federico II di Napoli terrò una lezione dal titolo «Φιλοσοφία οὐσης μεγίστης μουσικής. La filosofia come musica».

La fine della filosofia è stata proclamata più volte ma la teoresi è sempre riapparsa all’orizzonte della cultura, del vivere e del pensare. Una tenace fedeltà a se stessa – alle sue origini greche – e una continua capacità di rinnovare linguaggi, metodi, risposte, interlocutori consentono alla filosofia di essere una vera e propria fenice che si ricompone dalle proprie ceneri.
La filosofia nasce dallo stupore verso ciò che è e che diviene (Aristotele) e dal desiderio di attingere il divino (Pitagora).
La filosofia è 
μετά τα Φυσικά, un domandare che cerca le ragioni perenni del contingente.
La filosofia è «quell’ombra che tutte le cose mostrano quando il sole della conoscenza cade su di esse» (Nietzsche, Umano, troppo umano II, introduzione).
La filosofia è «lo sforzo di resistere alla suggestione, la decisione della libertà intellettuale e reale» (Horkheimer – Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, p. 261).
La filosofia è «ontologia universale e fenomenologica» (HeideggerEssere e Tempo, §7C e §83).
Φιλοσοφία οὐσης μεγίστης μουσικής, la filosofia è la musica più grande (Platone, Fedone 61A).

Dicitencello

Alan Sorrenti
Dicitencello Vuje
(1974)
da «The Prog Years Box» (2018)

Le arti sono anche contaminazione e ibridazione, sono costituite dall’insieme di varianti che a partire da un testo riprendono, riscrivono, riformulano e ricreano l’opera nel corso del tempo, a volte dei millenni. E spesso accade che quanto più lontana sia la rilettura e ricomposizione, tanto più essa sembra rimanere fedele all’opera originaria, regalandole freschezza e profondità.
Dicitencello Vuje è una delle più celebri canzoni d’amore in napoletano. Composta nel 1930 da Enzo Fusco (testo) e Rodolfo Falvo (musica) è stata eseguita da molti artisti. Ma chi l’ha proprio ricreata è Alan Sorrenti, nel 1974. Un Sorrenti che veniva dalla ricca esperienza del cosiddetto rock progressivo, un ambito della musica rock che rappresenta il vertice sperimentale e qualitativo di quell’arte.
Dicintencello diventa quindi un’occasione per sonorità tese, per vocalizzi estremi che confermano il talento naturale di Alan Sorrenti, diventa una sorta di percorso nei meandri labirintici e solitari del sentimento amoroso.

Il capolavoro di Sorrenti è Aria del 1972, un brano di venti minuti nel quale la voce e le sue modalità diventano davvero l’elemento nel quale siamo immersi: SpotifyYouTube

Dicintencello Vuje è anche una sintesi di quell’opera quasi sinfonica: SpotifyYouTube


Testo e traduzione
(Fonte)

Dicitencello
a ‘sta cumpagna vosta
ch’aggio perduto ‘o suonno
e ‘a fantasia.
Ch’ ‘a penzo sempe,
ch’ è tutt”a vita mia.
I’ nce ‘o vvulesse dicere,
ma nun ce ‘o ssaccio dì­.
‘A voglio bene
‘A voglio bene assaje.
Dicitencello vuje
ca nun mm’ ‘a scordo maje.
E’ na passione
cchiù forte ‘e na catena,
ca mme turmenta ll’anema
e nun mme fa campà.
Dicitencello
ch’ è na rosa ‘e maggio,
ch’ è assaje cchiù bella
‘e na jurnata ‘e sole.
Da ‘a vocca soja,
cchiù fresca d”e vviole,
i già vulesse sèntere
ch’è ‘nnammurata ‘e me.
‘A voglio bene.
‘A voglio bene assaje.
Dicitencello vuje
ca nun mm’ ‘a scordo maje.
È na passione
cchiù forte ‘e na catena,
ca mme turmenta ll’anema
e nun mme fa campà.
Na lacrema lucente
v’è caduta,
dice­teme nu poco:
a che penzate?
Cu st’ uocchie doce,
vuje sola mme guardate.
Levammoce ‘sta maschera,
dicimmo ‘a verità.
Te voglio bene.
Te voglio bene assaje.
Si’ tu chesta catena
ca nun se spezza maje.
Suonno gentile,
suspiro mio carnale,
te cerco comm ‘a ll’aria,
te voglio pe’ campà.
Te voglio pe’ campà!

Diteglielo
a questa vostra amica
che ho perduto il sonno
e la fantasia.
Che la penso sempre,
che è tutta la mia vita.
Io glielo vorrei dire,
ma non glielo so dire.
Le voglio bene.
Le voglio bene assai.
Diteglielo voi
che non la dimentico mai.
È una passione,
più forte di una catena,
che mi tormenta l’anima
e non mi fa vivere.
Diteglielo
che è una rosa di maggio,
che è molto più bella
di una giornata di sole.
Dalla sua bocca,
più fresca delle viole,
io già vorrei udire
che è innamorata di me.
Le voglio bene.
Le voglio bene assai.
Diteglielo voi
che non la dimentico mai.
È una passione,
più forte di una catena,
che mi tormenta l’anima
e non mi fa vivere.
Una lacrima lucente
vi è caduta,
ditemi un poco:
a cosa pensate?
Con questi occhi dolci,
voi solo mi guardate.
Togliamoci questa maschera,
diciamo la verità.
Ti voglio bene.
Ti voglio bene assai.
Sei tu questa catena
che non si spezza mai.
Sogno gentile,
sospiro mio carnale,
ti cerco come l’aria,
ti voglio per vivere.
Ti voglio per vivere!

Vicoli e capitali

Ci sono dei luoghi che rappresentano una sintesi, un’epitome, un simbolo, un’antologia.
Il complesso di chiese, chiostri e monastero di Sant’Anna dei Lombardi a Napoli è uno di questi luoghi. L’ho visitato in occasione della presentazione di Chronos alla Federico II. Vi sono arrivato attraversando i vicoli e le piazze (vivacissima Piazza Dante) dei Quartieri Spagnoli, vero cuore della città, antico e del tutto contemporaneo. Li abita un’umanità variegata, dal linguaggio e dai costumi immutati nei secoli; un’umanità creativa e teppista, che lascia le automobili negli angoli più impensati, compreso il centro delle strade; un’umanità rassegnata e vibrante.
Su una piccola altura preceduta da una fontana, Monteoliveto, sta una chiesa che è quanto rimane di un antico monastero dei monaci olivetani. La facciata è sobriamente rinascimentale, l’interno coniuga il Rinascimento con il proliferare del Barocco, con il suo tripudio di forme, colori, ornamenti, putti, folle, estasi.
Il tesoro di questo luogo è la Sagrestia affrescata da Giorgio Vasari nel 1544-1545. In basso le tarsie lignee di Giovanni da Verona, in alto una vera e propria cosmologia che raffigura le costellazioni, le virtù e gli archetipi della Religione, dell’Eternità e della Fede [immagine di apertura].
La Sagrestia è preceduta da una cappella con l’insieme di terracotta del Compianto del Cristo morto scolpito da Guido Mazzoni nel 1492. Le statue a grandezza naturale esprimono la forza del dolore umano, la disperazione dell’irreparabile, l’amore e il rimpianto per chi più non è, una vera e propria lacerazione dell’esserci.


L’insieme dei luoghi, delle cappelle, delle opere di Monteoliveto conferma il dato antropologico della inseparabilità di mito, bellezza e tragedia che intrama tutte le forme religiose autentiche, di qualunque luogo e civiltà. Il cattolicesimo rappresenta uno degli esempi più compiuti di questo plesso di significati e di vita, una ricchezza che deve alla sua continuità con la civiltà del paganesimo mediterraneo. Osservata da questa prospettiva, la Riforma luterano-calvinista non è neppure una religione ma è un’ideologia politico-moralistica. Persino l’Islam, nonostante il divieto di raffigurare forme umane e animali, ha trovato la strada di espressioni artistiche che non descrivono persone ma costruiscono geometrie di grande eleganza. Nulla di tutto questo nell’ebraismo, che è figurativamente miserrimo e con il quale il cristianesimo riformato volle porsi in continuità nonostante l’accesso antisemitismo di Martin Lutero.
Ancora una volta e a ogni viaggio Napoli si conferma una città dalla scoperta infinita, città potente, viva e dai connotati antropologici che ne fanno la vera capitale d’Italia. 

Tammurriata

Nuova Compagnia di Canto Popolare
Tammurriata nera
da «NCCP»
(2016)

La Tammurriata nera, composta nel 1944 da E. Nicolardi (testo)  e E.R. Mario (musica), è una sintesi degli spiriti vitali, della malinconia, dell’ironia, della storia, della lingua e del canto di Napoli, della civiltà napoletana.
Un brano centrale nella storia della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Tra le numerose versioni, la mia preferita è l’arrangiamento che la NCCP ha realizzato nel 2016 in occasione del cinquantenario della sua esistenza.
La canzone racconta di un bambino nato nero, figlio di una napoletana e di un soldato dell’esercito statunitense. Fatti in quegli anni frequenti e che hanno avuto la loro espressione letteraria nel capolavoro di Curzio Malaparte La pelle, uno dei libri più coinvolgenti, più veri e più raffinati che abbia letto.

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Testo e traduzione

Io nun capisco ‘e vvote che succere,
e chello ca se vere nun se crere.
È nato ‘nu criaturo, è nato niro,
e ‘a mamma ‘o chiamma Ciro,
sissignore, ‘o chiamma Ciro.

Seh, vota e gira, seh
seh, gira e vota, seh
ca tu ‘o chiamme Ciccio o ‘Ntuono,
ca tu ‘o chiamme Peppe o Ciro,
chillo ‘o fatto è niro niro, niro niro comm’a cche!

‘O contano ‘e cummare chist’affare
sti fatti nun so’ rare, se ne vedono a migliare.
‘E vvote basta sulo ‘na guardata
e ‘a femmena è rimasta sott’ ‘a botta ‘mpressiunata.

Seh, ‘na guardata, seh
seh, ‘na ‘mprissione, seh
va truvanno mò chi è stato
c’ha cugliuto buono ‘o tiro
chillo ‘o fatto è niro niro, niro niro comm’a cche!

E dice ‘o parulano: embè, parlammo,
pecché si arraggiunammo chistu fatto ce ‘o spiegammo.
Addò pastin’ ‘o grano, ‘o grano cresce
riesce o nun riesce, semp’è grano chello ch’esce.

Meh, dillo a mamma, meh
meh, dillo pure a me
conta ‘o fatto comm’è ghiuto
Ciccio, ‘Ntuono, Peppe o Ciro
chillo ‘o fatto è niro niro, niro niro comm’a che!

Seh, vota e gira, seh
seh, gira e vota, seh
ca tu ‘o chiamme Ciccio o ‘Ntuono,
ca tu ‘o chiamme Peppe o Ciro,
chillo ‘o fatto è niro niro, niro niro comm’a cche!

‘E signurine ‘e Capodichino
fann’ ammore cu ‘e marrucchine,
‘e marrucchine se vottano ‘e lanzo,
e ‘e signurine cu ‘e panze annanze.

American espresso,
ramme ‘o dollaro ca vaco ‘e pressa
sinò vene ‘a pulisse
e mette ‘e mmane addò vò isse.

Aier’a sera a piazza Dante
‘a panza mia era vacante,
si nun era p’ ‘o contrabbando,
ì’ mò già stevo ‘o campusanto.

E levate ‘a pistuldà
uè e levate ‘a pistuldà,
e pisti pakin mama
e levate ‘a pistuldà.

E Ciuccillo ‘o viecchio pazzo
s’è arrubbato ‘e matarazze
e l’America pe’ dispietto
l’ha sceppato ‘e pile d’a pietto.

Aier’a sera magnai pellecchie
‘e capille ‘ncopp’ ‘e recchie
e capille e capille
e ‘o recotto e camumilla.

‘O recotto,’o recotto
e ‘a fresella cu ‘a carna cotta,
‘a fresella ‘a fresella
e zì moneco ten’ ‘a zella.

E levate ‘a pistuldà
uè e levate ‘a pistuldà,
e pisti pakin mama
e levate ‘a pistuldà.

==========

Io non capisco a volte che succede,
che quello che si vede non si crede!
È nato un bambino, è nato nero
e la mamma lo chiama Ciro,
sissignore, lo chiama Ciro!

Rigirala come ti pare, seh,
Rigirala come ti pare, seh
che tu lo chiami Ciccio o Antonio,
che tu lo chiami Peppe o Ciro,
il fatto è che quello è nero, nero come non si sa che!

Ne parlano le comari di quest’affare:
“Questi fatti non sono rari se ne vedono a migliaia!
A volte basta solo una guardata
e la donna è rimasta per il colpo impressionata!”

Seh, una guardata, seh
seh una impressione seh
vai a trovarlo adesso chi è stato
che ha fatto il tiro buono
il fatto è che quello è nero, nero come non si sa che!

Dice il contadino: “Su, parliamo,
perché se ragioniamo questo fatto ce lo spieghiamo!
Dove si semina il grano, il grano cresce,
riesce o non riesce, sempre è grano quello che esce.”

Meh, dillo a mamma, meh
meh, dillo pure a me
racconta come il fatto è andato
Ciccio, Antonio, Peppe o Ciro
il fatto è che quello è nero, nero come non si sa che!

Seh, una guardata, seh
seh una impressione seh
che tu lo chiami Ciccio o Antonio,
che tu lo chiami Peppe o Ciro,
il fatto è che quello è nero, nero come non si sa che!

Le signorine di Capodichino
fanno l’amore coi marocchini,
i marocchini si buttano lancia in resta,
le ragazze (restano incinte) con la pancia in avanti.

American Express,
dammi il dollaro ché vado di fretta,
che sennò viene la Police
e fa quello che vuole lei.

Ieri sera in piazza Dante
avevo la pancia vuota,
non ci fosse stato il contrabbando
sarei già andato al camposanto.

Lay that pistol down, babe,
Lay that pistol down.
Pistol packin’ mama,
Lay that pistol down.

E Churchill, quel vecchio pazzo
si è rubato i materassi,
e l’America, per dispetto
gli ha fregato i peli dal petto.

Ieri sera mangiavo bucce
coi capelli sulle orecchie,
i capelli, i capelli
il decotto di camomilla.

Il decotto, il decotto
e la frisella con la carne cotta
la frisella, la frisella,
e zi’ frate ci ha la rogna.

Lay that pistol down, babe,
Lay that pistol down.
Pistol packin’ mama,
Lay that pistol down.

[Fonte: https://lyricstranslate.com/it/tammurriata-nera-tamburellata-nera.html]

Ripetizione

Nostalgia
di Mario Martone
Italia, 2022
Con: Pierfrancesco Favino (Felice Lasca), Francesco Di Leva (Don Luigi Rega), Tommaso Ragno (Oreste Spasiano), Aurora Quattrocchi (la madre), Nello Mascia (Domenico)
Trailer del film

Sarà mai possibile parlare di Napoli, descrivere la sua vita, i vicoli, le architetture, la città sotterranea, la lingua, le chiese, le strade…senza che vi domini la delinquenza e la camorra? Napoli è anche delinquenza e camorra ma è soprattutto ‘l’ultima vera città d’Europa’ come afferma uno scrittore del quale non ricordo il nome. Al romanzo di un autore napoletano, Ermanno Rea, si ispira questo film, che racconta di un uomo che ha lasciato Napoli a quindici anni perché testimone di un delitto; ritorna dopo quasi quattro decenni e aver fatto fortuna in Libano e in Egitto (diventando anche musulmano); fa in tempo a incontrare l’anziana madre prima che lei muoia; il suo amico/complice di gioventù non gradisce vederlo aggirarsi per le strade del rione Sanità e gli fa capire, con i suoi modi da guappo, che se ne deve andare. Anche l’inverosimilmente eroico parroco del quartiere gli consiglia di tornare in Egitto (parroco che veste sempre l’abito talare, cosa che praticamente nessun prete, soprattutto se ‘di strada’, fa). Ma la nostalgia si rivela più forte di ogni pericolo.
Felice afferma infatti che la città è «incredibilmente uguale» a come lui l’ha lasciata, indicando così il dispositivo della ripetizione che intesse questa storia. Ripetizione degli ambienti, delle strade, della miseria, delle motociclette, del buio, della bruttura, del senza scampo.
Ripetizione del compiacimento che alcuni napoletani nutrono nel descrivere la propria città come fascinosa e maledetta.
Ripetizione di vicende e situazioni inverosimili ma che si pensa funzionino, come quella di un prete che grida contro la camorra ma che viene accolto senza problemi e senza rischi nelle case dei camorristi; come quella di un «malommo» che non corre pericoli reali dal ritorno del suo amico di gioventù ma che da psicopatico è ossessionato da lui; come quella di un uomo che quasi non parla più l’italiano/napoletano e che in Egitto ha una bella moglie e una consolidata posizione ma che la nostalgia induce a comportamenti poco sensati.
Storie di fantasia che hanno l’ambizione di costituire anche una analisi sociologica della Napoli reale ma che non rendono alla città un buon servizio, non le rendono giustizia.
Due momenti riscattano il film: Felice (un come sempre bravissimo Favino) che fa il bagno alla madre in una vasca di plastica, dentro un ‘basso’ fatiscente; l’incontro tra Oreste Spasiano e Felice Lasco, nel quale i due non si toccano e si fanno del male.
Il resto è in gran parte un filmato promozionale all’incontrario, nel quale si fa capire allo spettatore che i luoghi sono, sì, orrendi e degradati ma il fremito che dà la malavita, quello rimane affascinante.
Ogni cosa andrebbe invece messa al suo posto e nelle sue proporzioni: Napoli è camorra, è Maradona, è il Vesuvio, è  la pizza, è tante altre cose. Ed è una splendida città del passato e del presente, al di là di ogni (artificiosa) nostalgia.

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