Skip to content


Una cosmologia sacra

Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù
In mostra 3000 anni di civiltà dalle origini agli Inca
Mudec, Museo delle Culture – Milano
A cura di Ulla Holmquist e Carole Fraresso
Sino al 19 febbraio 2023

Dal XIII secolo a.e.v sino al 1526 dell’e.v. alcune raffinate e potenti civiltà si susseguirono negli aspri e ricchi territori delle Ande, dalle vette che arrivano a 6000 metri sino alle pianure e alla costa. Al culmine della sua espansione l’impero Inca si estendeva per migliaia di chilometri, dal Perù all’Ecuador occidentale, alla Bolivia, al Cile, all’Argentina centro-occidentale. Lo abitavano 12 milioni di persone, di molteplici e disparati gruppi etnici.
Furono uomini e comunità in profondo accordo con i due elementi che soli possono dare senso alla parzialità umana: gli altri animali e gli dèi. Per i popoli delle Ande tutti gli enti si distribuiscono nei tre mondi che formano l’intero.
Nel mondo superiore, al di là delle cime e delle nuvole, abitano gli dèi.
Gli umani stanno in un qui e ora continuamente cangiante e per sopravvivere devono impetrare l’aiuto divino trasformando continuamente se stessi e gli altri animali in elementi sacri. Cosa che soltanto il sacrificio, solo la morte, può realizzare. I riti, i combattimenti, le feste, i funerali, hanno dunque sempre al centro il sacrificio umano, compreso quello di guerrieri – e quindi membri dei gruppi dominanti – che si sfidano e i cui perdenti si offrono senza incertezze alla morte rituale. L’obiettivo e il senso di tutto questo è infatti che la Terra continui a vivere, con le sue piogge e la sua fecondità, e che il Sole continui a splendere. Anche la morte degli altri animali non avviene nelle anonime e terribili catene di montaggio dei macelli contemporanei ma dentro la gloria della Terra e del Sole.
Nel mondo inferiore abitano gli avi, i morti, coloro che rimangono sempre presenti sia con i loro corpi disseccati e non putrefatti sia dentro la memoria dei vivi.
Si tratta dunque di un universo verticale, il cui strumento sono i gradini – gradini di ogni forma, natura e simbolo – che li attraversano e li uniscono.
Queste civiltà sono animaliste, in un senso assai più profondo rispetto all’attuale significato di tale parola. Gli altri animali infatti esistono, vivono e respirano in totale continuità con l’animale umano. Gli sciamani, incaricati di viaggiare tra la terra, gli inferi e il cielo, diventano felini, giaguari, cervi, serpenti.

«Vedendoci come dei non-umani, è loro stessi (e i loro rispettivi congeneri) che gli animali e gli spiriti vedono come degli umani: si percepiscono come (o diventano) esseri antropomorfi quando sono nelle loro case o nei loro villaggi, e imparano i loro comportamenti e le loro caratteristiche sotto un aspetto culturale: percepiscono il loro cibo come un alimento umano (i giaguari vedono il sangue come la birra del mais, gli avvoltoi vedono i vermi della carne putrefatta come pesce grigliato, eccetera); vedono i loro attributi corporei (pelame, piumaggio, unghie, becchi, ecc.) come ornamenti o strumenti culturali; il loro sistema sociale è organizzato come delle istituzioni umane (con capi, sciamani, metà esogame, riti…) […]. Tutti gli animali, assieme ad altri componenti del cosmo, sono delle persone, intensivamente e virtualmente, perché ognuno di loro può rivelarsi essere (o trasformarsi in) una persona»
(Eduardo Viveiros de Castro, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale,  trad. di M. Galzigna e L. Liberale, ombre corte, Verona 2017, pp. 43-44).

Questo vortice antropologico ha la sua espressione anche nel moltiplicarsi delle forme che decorano i manufatti, gli oggetti, le produzioni degli Inca: spirali, geometrie, interi cicli narrativi dentro un vaso. Cicli che hanno come protagonista Ai Apaec, l’uomo-dio il cui destino è simile a quello di Eracle.

(Foto di Enrico Moncado)

E soprattutto hanno come protagonisti gli dèi, i quali si uniscono agli umani, come fa la madre terra fecondata in un coito appassionato, e mostrano la vagina, il pene, gli organi e le forze dalle quali sgorgano i viventi e i loro simboli.

(Foto di Enrico Moncado)

Animisti ed eraclitei, questi umani esprimono una forza arcaica, ancestrale, splendente e crudele, fatta di iniziazioni assai dure, che escludono gli inadatti alla vita. Esattamente l’opposto dell’occidente contemporaneo, declinante e tremebondo, che cerca di risparmiare ogni anche pur piccolo ‘trauma’ ai suoi cuccioli, rendendoli in questo modo delle nullità inadatte al travaglio del negativo. E, a proposito di dissoluzioni, pur con tutta la loro violenza queste civiltà non poterono resistere alla ferocia dei cristiani, una delle più implacabili che la storia umana abbia visto.
Come emblema e sineddoche di tanto pensiero sta la città sacra di Machu Picchu (1450-1572), che si vede in apertura di questo testo.
Antropologia? No, cosmologia. Il Sole, la Via Lattea, il Sacro.

Sulla Cina

Henri Cartier-Bresson
Cina 1948-49 / 1958

Museo delle Culture (Mudec) – Milano
Sino al 3 luglio 2022

In Cina nel 1948 l’esercito e il governo nazionalisti si dissolvono e l’esercito comunista occupa Pechino, le altre grandi città, le campagne. Tutto sembra crollare in pochi giorni. La moneta torna a diventare la carta che è. Le persone si accalcano davanti alle banche sperando di trasformare quella carta in oro reale. La fame riappare ma la vita quotidiana in qualche modo continua. Il passato millenario si trova di fronte alla durezza del presente e all’incertezza del futuro. Nei templi continua a vivere indistruttibile il sacro, mescolato alle superstizioni, alla fede. Il tifone che colpisce Shangai a fine luglio 1949 ricorda a tutti che il tempo non è soltanto storia umana ma è anche materia e cielo che continuano indifferenti a essere ciò che da milioni di anni sono.
Cartier-Bresson osserva e fotografa tutto questo con una grande oggettività dello sguardo unita a una profonda pietà.
Oggettività, pietà e curiosità che esercita dieci anni dopo, quando torna in Cina per documentare la nuova vita, il nuovo potere, le nuove fedi che muovono quel Paese immenso. E vede volontari che costruiscono una diga con l’ebbrezza dell’essere massa, di un progetto e di un fare che somigliano a quelli di un formicaio. Vede parate e manifestazioni celebrative con giovani che danzano, saltellano, sorridono. In ogni caso una festa, qualunque ne sia stato e ne sarà il prezzo. Vede il paesaggio sconfinato e i manufatti millenari che lo abitano, per i quali la storia umana rimane in ogni caso una piccola parte della vera storia, quella degli elementi.
Storia che per Cartier-Bresson è inseparabile dalla geometria dello sguardo, dalla capacità del suo occhio e della sua macchina fotografica di inserire i corpi viventi e i loro movimenti dentro le strutture formali che i corpi attraversano e con i quali si armonizzano. Per lui sono queste e soltanto queste le immagini che valgono, che sceglie, che vuole. Immagini nelle quali l’elemento umano, quello architettonico/spaziale e quello naturale convivono sino a diventare una cosa sola.
Tutto ciò conferma la natura ermeneutica della fotografia. L’artista lo afferma apertamente: a contare non sono i fatti ma il punto di vista che li coglie, l’interpretazione che se ne dà. Tra i due viaggi in Cina, nel 1952, scrisse infatti questo: «Per me la fotografia è il riconoscimento simultaneo, in una frazione di secondo, del significato di un evento e di una precisa organizzazione di forme che danno a quell’evento la sua giusta espressione» (Images à la sauvette, Verve).
L’imprendibilità della storia è colta tramite l’invenzione geometrica dell’istante, del tempo.
Che cosa è la Cina adesso? Che cosa è diventata la Cina rivoluzionaria e dispotica fotografata da Cartier-Bresson? Che cosa potrà diventare? Lo racconta e lo spiega bene Simone Pieranni, parlando di WeChat, l’analogo cinese di Facebook ma ancora più pervasivo, se possibile. E sembra possibile. Leggete questo breve articolo, assai istruttivo: Cos’è WeChat? (17.6.2022). Leggetelo alla luce di un’affermazione che nel testo di Pieranni non c’è e che sembra entrarci poco e invece a me sembra centrale: l’Europa che sta morendo perché diventata colonia della potenza anglosassone sarà pronta -al momento opportuno- a diventare colonia della Cina. Perché in entrambi i casi non c’è e non ci sarà più la filosofia greca a difenderne le libertà. 

 

Mondrian / Platone

PIET MONDRIAN
Dalla figurazione all’astrazione

Museo delle Culture – Milano
A cura di Daniel Koep e Doede Hardeman
Sino al 27 marzo 2022

Se Mondrian (1872-1944) avesse semplicemente continuato la tradizione della pittura olandese di paesaggio -cosa che fece per decenni- sarebbe stato un buon artista ma non sarebbe stato Mondrian.
Sarebbe stato solo un artista con qualcosa di più ampio e più profondo rispetto ai suoi colleghi dediti alla stessa modalità espressiva. Lo si vede anche dal coinvolgente Mulino Oostzijdse con cielo blu, giallo e viola (1907) nel quale le linee orizzontali interrotte dalla struttura del mulino indicano con forza la potenza dello spazio e della luce.

Linee che si immergono nel reale poiché di esso cominciano a delineare non l’empiria ma la forma, un’essenza platonica. Empiria e figura già divenute essenziali in Composizione con alberi (1912) nella quale gli alberi si vedono perché è il titolo del quadro che li indica.


Infine e a poco a poco si arriva a Platone, Mondrian perviene alla metamorfosi completa degli enti, degli oggetti, dei paesaggi, delle cose nella loro pura e immutabile geometria. «Le forme ideali sono il modo in cui l’essere si mostra negli enti. Un libro, ad esempio, è composto di carta, inchiostro, spessore, altezza, forma, ma non coincide con nessuno di tali specifici elementi. L’idea del libro è la struttura che rende quella carta, quell’inchiostro, quello spessore, quell’altezza, quella forma, il libro che vediamo al di là di ogni specifico e singolo libro. Il libro che in questo momento leggi e hai in mano è uno dei modi nei quali si dà la struttura materica e formale generale che chiamiamo ‘libro’. Mai diresti che quello che hai in mano sia il libro ma è certamente uno dei possibili libri. Il fatto che possiamo pensare il libro al di là di ogni singolo oggetto libro è l’ontologia, la quale è quindi sempre universale, sempre metafisica» (Tempo e materia. Una metafisica, p. 105). Sostituiamo libro con fiume, mulino, tavolo, nuvola e avremo la radice metafisica dell’arte di Mondrian e in generale di ciò che viene definito astrattismo. Significativamente, l’artista si definì sempre «un realista astratto».
Composizione con linee e colore III (1937) è forse meno nota di altre opere ed è paradigmatica della semplicità e ritmicità del fare artistico/filosofico di Mondrian. Una sequenza di linee orizzontali e verticali di varia misura e distanza che si raggruma in basso a destra in un piccolo rettangolo di intenso blu.


Tra i numerosi quadri che hanno come titolo Composizione con rosso giallo e blu, quello del 1929 conservato a Belgrado (immagine di apertura) è forse il più paradigmatico per la musica che sembra sprigionarsi dalla regolarità e dalle differenze tra le linee, i quadrati, i tre magnifici colori. Sembra davvero di trovarsi al cospetto di una semplice perfezione.
Le essenze platoniche di Mondrian sono diventate anche oggetti progettati e realizzati dalla scuola denominata De Stijl o Neoplasticismo. La mostra milanese permette di ammirarne alcuni esempi, come la Credenza Helling (1919) e la Berlijnse stoel (1923), progettate da Gerrit Rietveld.

Infine, deliziose e platoniche anch’esse, tre terrecotte smaltate di Bart van der Leck, intitolate Mela astratta su un albero, Alveare, Testa di capra (1936-1942).


Siamo questo, il mondo è questo: materia densa e colorata che esiste perché in essa si incarnano, si esprimono e condensano delle forme astratte e pure; materia temporale nella quale si invera per un intervallo di tempo l’eternità.
«εἰκὼ δ᾽ ἐπενόει κινητόν τινα αἰῶνος ποιῆσαι, καὶ διακοσμῶν ἅμα οὐρανὸν ποιεῖ μένοντος αἰῶνος ἐν ἑνὶ κατ᾽ ἀριθμὸν ἰοῦσαν αἰώνιον εἰκόνα, τοῦτον ὃν δὴ χρόνον ὠνομάκαμεν. ‘Ecco dunque che egli pensa di produrre un’immagine mobile dell’eternità e, nell’atto di ordinare il cielo, pur rimanendo l’eternità nell’unità, ne produce un’immagine eterna che procede secondo il numero, che è precisamente ciò che noi abbiamo chiamato ‘tempo’» (Timeo, 37d, 211; trad. di Francesco Fronterotta).
Il tempo come susseguirsi di istanti, χρόνος, è un riflesso necessario e dinamico del tempo come stabilità, αἰών. Guardando l’astrazione  di Mondrian è questo che si vede.

Simbiosi

Steve McCurry – “Animals” 
Milano – Museo delle Culture
A cura di Biba Giacchetti
Sino al 14 aprile 2019

La simbiosi con l’altro animale è l’identità dell’umano. Una simbiosi fatta di archetipi -il bambino/toro; di paure -lo sguardo della scimmia-; di strumentalità e condivisione –la bella ragazza etiope con il suo gallo-; di ferocia -il cormorano morente nel petrolio e i cammelli in fuga dall’apocalisse petrolifera nella guerra scatenata dagli USA in Kuwait.
Durante la presentazione della mostra al Museo delle Culture, Steve McCurry ha riferito di aver visto crudeli combattimenti tra cani e altre specie di animali in Afghanistan, di aver assistito al rogo di animali vivi da parte di soldati negli zoo durante la guerra del Golfo. Ma di quei combattimenti nelle sue foto non c’è traccia. Non c’è traccia di animali diventati torce, non c’è traccia dei lager -allevamenti, macelli, stabulari e laboratori di vivisezione– dove gli altri animali subiscono torture senza fine da parte degli umani. Su questi luoghi vige un tabù fortissimo, domina un’invisibilità che soltanto pochi sono disposti a rendere manifesta (lo hanno fatto di recente Stefano Belacchi e Benedetta Piazzesi lavorando sul fotoreportage animalista).
Ma Steve McCurry rende ugualmente testimonianza all’animale con la sua magnifica arte fotografica. Da queste immagini infatti il silenzio dell’animale emerge come una parola potente, enigmatica, ancestrale, cosmica. Lo sguardo animale descrive il mondo, il limite del quale è intriso, il sempre che diviene e che va, sino alla fine, sino a «quelle profondità spumose dove più niente esiste…», come scrisse Céline a conclusione del suo ultimo romanzo, la cui dedica suona: «Agli animali».
Le immagini di McCurry disegnano i colori splendenti della materia, dello sguardo, della vita che diviene, della vita che va.

Vai alla barra degli strumenti