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Munch

Munch. Il grido interiore
Milano – Palazzo Reale
A cura di Patricia Berman
Sino al 26 gennaio 2025

È uno degli autoritratti più compiuti della storia dell’arte. Fu dipinto da Munch nel 1903 – a quarant’anni –  e mostra un corpo fatto di luce dentro un mondo intessuto di passioni e di oscurità. Lo sguardo proviene da una distanza, da uno spazio intramato di malinconia e di solitudine, di gelosia e di morte, come tutti i suoi dipinti. È un Autoritratto all’inferno, certo. L’inferno della vita umana, la potenza dell’esistere e la sua violenza. Una violenza che diventa fredda, inevitabile, quasi un destino nella Morte di Marat (1907).

In tutti questi dipinti la prospettiva rinascimentale è infranta, la pittura è selvaggia. Un amalgama cromatico e un impasto materico che stanno alle origini dell’espressionismo ma si pongono molto oltre l’espressionismo.
La materia pensante di tale mistura di forme e colori è fatta di madonne e di arpie, di vampiri e di tenebre. E poi di persone che si baciano diventando un unico volto (Il bacio, 1897).

Le ‘cose’ non sono mai in Munch soltanto ‘cose’. Tutto è vivo, tutto reagisce, ogni ente esercita un’influenza forte, diretta, esplicita sugli altri enti. Lo sguardo e la mente di Munch sono animistici, panpsichistici, profondamente unitari.
Le ragazze sul ponte (1927) sono una cosa sola con il legno della staccionata, con i muri della villa, con la massa vegetale del tiglio, con le acque. Non c’è differenza tra ‘naturale’, ‘artificiale’, ‘umano’; è l’essere degli enti che plasma e raffigura se stesso.

 

Analoga è l’unità di cui è fatto il Rosso e bianco del 1899-1900. Le figure umane scorrono, letteralmente scorrono, come il fiume e come l’aria. Ogni dipinto di Munch è segno di una perdita e di una passione, ha la stessa tonalità del «dolore dopo un amore perduto, [che] ha colori come quando il sole tramonta in un freddo giorno di primavera – è un giallo fiammeggiante che lampeggia alle finestre». Così scrisse l’artista a proposito dei suoi colori, i quali in molti dipinti sono comunque diversi da quelli più densi e più cupi che si vedono di solito, diventando anche chiari, luminosi, lievi. In ogni caso, come scrisse ancora Munch, il colore, la forma, l’idea devono creare un’immagine che riproduca non le nubi ma «il sangue delle nubi». Splende su tutto una Notte stellata (1922-1926). 

E alla fine anche l’opera sua più celebre (che un video introduttivo alla mostra definisce giustamente «il famigerato Urlo») sembra placarsi  in un paradossale classicismo.

 

Androidi

Philip K. Dick
Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
(Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968)
Traduzione di Riccardo Duranti
Introduzione e cura di Carlo Pagetti
Postfazione di Gabriele Frasca
Fanucci, 2003
Pagine 286

Nel suo ancora barocco e già postmoderno e visionario romanzo, Dick ha attinto alla propria lucida capacità di comprendere le tensioni della contemporaneità radicandole nel presente antichissimo dei simboli e dei miti gnostici. In Do Androids Dream of Electric Sheep? l’abominio della desolazione di cui parlava il profeta antico assume tutta la fisicità della “palta” (kipple, nell’originale), l’inarrestabile avanzare della polvere, dei rifiuti, del disordine.
La vittoria da sempre stabilita dell’entropia che si estende su tutte le cose, che diventa tutte le cose perché implicita nella «dispotica forza del tempo» (pag. 88) trasforma gli esseri viventi, gli oggetti, le città, la terra «nell’abietto abisso del mondo della tomba» (96) dal quale spira «il fetore della morte» (32) e un silenzio che si riverbera come un bagliore, che percuote il mondo «con una tremenda energia assoluta, come venisse generato da un’immensa turbina» (44). Una desolazione che «era sulla scia di tutte le cose» (238) perché fondamento di ogni cosa creata, generata dalla stessa sostanza dell’ombra difettosa, assurda, atroce da cui un funesto demiurgo ha tratto ogni entità apparentemente reale.
Tale è il fondamento metafisico -coerente sino al dolore- di questo libro. Ma, appunto, Do Androids oltrepassa la grande tradizione gnostica rendendola ancora una volta uno sguardo della mente teso a comprendere il presente e –rispetto all’epoca in cui il romanzo venne scritto, il 1968- a capire ciò che presente sarebbe diventato, ciò che ora è divenuto reale: l’ibridazione, la trasformazione degli umani in parti e strutture dei computer e della Rete. Umani, noi, che lavorano, insegnano, apprendono, dialogano, fingono di incontrarsi rimanendo per intere giornate fermi davanti a un monitor (si chiama digital labor; espressioni come ‘lavoro agile’ e ‘smart working’ sono degli eufemismi ideologici), abitatori di un mondo privo di spessore, carne, calore, fatto di algoritmi e non di corpi; un mondo alienato alla radice, i cui effetti sulla salute e sulla relazionalità vanno diventando pericolosamente chiari.
Nel romanzo di Dick l’ibridazione assume la tonalità anche ironica dell’assenza di un criterio che consenta davvero di distinguere chi fra i vari personaggi è un umano e chi un androide. Buster Friendly e i suoi inesauribili amici televisivi sono chiaramente delle macchine mediatiche; l’ispettore Garland si rivela ben presto anch’egli un droide; il divino Wilber Mercer è un invecchiato fotogramma che si ripete all’infinito; gli animali abitano sempre al confine tra naturalità ed elettronica –soprattutto il gatto del capitolo 7 che Isidore non riesce a salvare-; Rachel è una macchina colma d’amore e d’inganni, di quell’inganno che l’amore è sempre, e gli stessi cacciatori di taglie, Rick Deckard compreso, non sono sicuri della propria identità. «E così la distinzione tra esseri umani autentici vivi e strutture umanoidi andava a farsi benedire» (164), come ammette il protagonista in un momento cruciale della sua giornata da Ulisse joyciano, quel 3 gennaio 1992 in cui accadono tutte le vicende del racconto. E nel penultimo atto che precede il ritorno dalla sua Penelope, nel mare della desolata tranquillità in cui il pianeta è stato trasformato, Deckard afferma «sono diventato io stesso un essere innaturale» (257).
E i veri androidi? Che cosa sentono, provano, vivono queste macchine quasi perfette, i robot così avanzati della serie Nexus-6? Essi sembrano rivelare la propria natura d’artificio nella facilità con cui si fanno rintracciare e uccidere, nella rassegnazione con la quale cedono ancor prima di combattere, nella consapevole tristezza con la quale sanno che il loro ciclo vitale non va oltre i quattro anni, nella freddezza inquietante e rigida del loro essere, nonostante la forza del loro intelletto: «era come se una particolare e malevola astrattezza pervadesse tutti i loro processi mentali» (179), privandoli della «consapevolezza emotiva», di quella «percezione sensibile del vero significato […] Solo la vuota definizione formale e intellettuale dei singoli termini» (213). Intelligenze puramente sintattiche, prive della profondità semantica e incapaci, pertanto, di stare davvero al mondo. E tuttavia la splendida replicante che è Rachel afferma che «noi androidi non riusciamo a controllare le nostre passioni fisiche e sensuali» (219) e per definire i pensieri di queste entità ho utilizzato più sopra parole come coscienza, tristezza, rassegnazione che sono termini, appunto, umani. Il fatto è che questi androidi sono creature hegeliane, sono «il servo […] divenuto più abile e sagace del padrone» (54), sono l’altro dell’umanità in cui l’umanità si è trasformata, in una ibridazione estrema proprio perché indistinguibile, in una contaminazione che per il solo fatto di essere in Dick tutta negativa non per questo risulta meno significativa del destino di complementarietà verso cui siamo –come specie e come singoli- avviati.
La prova che l’ibridazione costituisca uno dei nuclei generatori del romanzo la si trova nell’apparente digressione che l’Autore dedica a un dipinto: «il quadro mostrava una creatura calva e angosciata, con la testa che pareva una pera rovesciata, le mani premute sulle orecchie e la bocca aperta in un immenso urlo muto. Onde contorte del tormento della creatura, echi del suo grido, fluttuavano nell’aria che la circondava; l’uomo, o la donna, qualunque cosa fosse, aveva finito per esser contenuta nel proprio urlo». Questa descrizione dell’Urlo di Munch esprime certamente e sino in fondo l’angoscia di cui gli umani sono capaci, la disperazione che li attanaglia, la tenebra ancora una volta gnostica che, letteralmente, li invade. E tuttavia il commento di Phil Resch al quadro è il seguente: «secondo me è così che deve sentirsi un droide» (152). È così che deve sentirsi quell’entità protesica, inestricabilmente artificiale e naturale, che siamo noi, ora, noi immersi nel tempo perché di tempo intrisi, da sempre finiti e per sempre limitati.

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