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Semiotica della distanza

Jean-Michel Basquiat
Milano – Museo delle Culture
A cura di Jeffrey Deitch e Gianni Mercurio
Sino al 26 febbraio 2017

Un’energia senza riposo, una creatività rabbiosa e senza requie. Archetipi, paure, sogni, diventano forme solo apparentemente semplici e immediate, immerse invece nella conoscenza della storia dell’arte e costruite con un sicuro dominio della tecnica. «Non so come descrivere la mia arte, non è mai la stessa cosa», disse una volta Basquiat. Ed è vero.
Il corpo, sempre e dappertutto. Con la sua fragilità, la sua decadenza, la sua bruttezza, la sua tenacia. La serie Anatomy disegna con bianca precisione parti dello scheletro umano su uno sfondo nerissimo.
Il potere con le sue corone. Il gioco, come nell’ironica casetta infantile -proprio identica a quella che tutti disegniamo all’asilo- sotto la quale è scritto A house built by Frank Lloyd Wright for his son. O come nella divertita serie di piatti in ceramica dipinti tra il 1983 e il 1984 con nomi di pittori, registi e altri artisti del passato e del presente.
La rabbia ma anche l’ascesi, come nel bellissimo Ciclista del 1984 che sembra assorbire e ricreare una delle possibili maniere di Picasso. In un’intervista Basquiat affermò che Guernica era da bambino il suo quadro preferito; come preferito avrebbe potuto essere Bacon.
I quadri di Basquiat sono impastati dei colori più accesi e dei più scuri: nero, giallo, rosso, bianco, verde, marrone. E su tutto domina il segno. In queste opere, infatti, i segni grafici sono scrittura e la scrittura diventa un segno grafico; «uso le parole come fossero pennellate».
L’opera di Basquiat è una semiotica della distanza, semiotica di una controllata e consapevole ribellione alla vita, assai più che alla società, ai cui riti e regole l’artista infine cedette insieme al campione della società dello spettacolo: Andy Warhol.
Nelle teste e nei ritratti appare chiaro che uno dei  segreti di quest’arte è la sua classicità.

Miró. La materia felice

Joan Miró. La forza della materia
Museo delle Culture – Milano
Sino all’11 settembre 2016

«Bisogna avere il massimo rispetto per la materia. È lei il punto di partenza. È lei che detta l’opera».
È il benvenuto di Miró a una mostra fatta di donne, uccelli, costellazioni. Fatta di un gesto assolutamente libero e insieme rigoroso. Una pittura ‘infinita’ nel senso in cui lo sono le lingue, capace quindi di esprimere senza fine concetti ed esperienze mediante il diverso assemblaggio degli stessi segni. Un’arte che ha sconfitto l’angoscia, un’arte felice. È anche questo il significato del cromatismo di Miró. Il segno nero che percorre i suoi quadri emerge ed è generato dal colore. E al colore dà senso. In Donna nella notte (1973), l’artista comincia da una macchia blu. Poi utilizza il nero per dividere il quadro in tre aree che colora di rosso e di giallo (oltre che di nero). Al blu/occhio iniziale si aggiungono tre capelli, la stella e un punto viola che è un pianeta, un corpo celeste. Infine dipinge le gambe. Il risultato è potente, plastico, archetipico.
La materia di un quadro è anche il suo supporto, al quale Mirò dedica sempre grande attenzione. I segni sono tracciati su carta, tela, legno. Le sculture sono fatte di oggetti sparsi e casuali, che poi l’artista unifica nella forma del bronzo e del legno. Con Donna e uccello del 1967 Miró introduce il colore nella scultura, che diventa totem, speranza, timore, potenza. Sculture arcaiche e futuriste, che enfatizzano il corpo umano, in particolare i piedi, poiché –si chiede l’artista- «non è attraverso il piede che l’uomo entra in contatto con la terra? ».
Nelle ultime opere la semplicità, il rigore, la nettezza aumentano. Della forma è rimasto l’essenziale. Della materia è rimasta la poesia. Questo Miró voleva: «Che la mia opera sia come una poesia musicata da un pittore. Il pittore lavora come il poeta: prima viene la parola, poi il pensiero». E voleva anche che l’opera andasse al di là della sua persona, del nome, dell’individuo. Che fosse collettiva e universale, come quelle dei maestri antichi, che tanto ammirava.
«L’inizio è qualcosa di immediato. È la materia a decidere». Un mondo di bellezza materica, colta e infantile, questo è il mondo di Joan Miró.

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