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Dal profondo

Bill Viola
Palazzo Reale – Milano
A cura di Kira Perov
Sino al 25 giugno 2023

Perché è così difficile colpire una mosca? La ragione sta nel fatto che questo insetto percepisce il movimento in modo più veloce rispetto ai sensi umani e quindi un gesto che a noi appare fulmineo viene recepito dalla mosca come assai più lento e ha tutto l’agio di spostarsi. Veloce / lento, più veloce più lento. Il movimento non è altro che tempo, come anche la semplice formula v= s/t e le sue varianti dimostrano.
Bill Viola ha intuito il profondo rapporto non soltanto tra tempo e percezione ma ciò che lo sostanzia: la relazione tra temporalità e ontologia. La sua opera è capace di mostrare il tempo, di renderlo visibile anche mediante il rallentamento della percezione del moto.
L’artista ha coniugato l’intuizione heideggeriana (e prima ancora eraclitea, platonica, aristotelica…) dell’identità tra essere e tempo con una grande competenza tecnologica, in particolare relativa alla videoarte. Ha quindi inventato un modo radicalmente originale di ridare vita alle forme classiche e rinascimentali, non più attraverso delle opere statiche ma per mezzo di opere che si distendono nel tempo, mediante dei video la cui peculiarità è di essere rallentati sino a mostrare ogni dettaglio dei personaggi, dei loro volti, delle espressioni, dei movimenti, dei gesti.
Al ritmo rallentato (slow motion) Viola coniuga spesso un montaggio all’inverso. L’effetto di queste due modalità tecnologiche non sarebbe tuttavia sufficiente se non fosse unito a una grande competenza sulla storia dell’arte e soprattutto a un vivo amore per il Rinascimento italiano. La visitazione  di Pontormo e la Pietà di Masolino da Panicale (qui a sinistra, con il titolo Emergence, 2000) ispirano ad esempio due affreschi in movimento che permettono di entrare nei sentimenti, negli sguardi, nei corpi di personaggi che sono inseparabilmente di Pontormo, di Masolino e di Viola.

 

Magnifico, poi, è The Quintet of the Silent (2000; qui sopra), opera caravaggesca nella quale cinque uomini sembrano sopraffatti da un’emozione/luce che li investe e alla quale reagiscono in modi diversi ma insieme convergenti. Quest’opera testimonia anche la sapienza cromatica di Viola, i cui colori sono sempre espressivi e, naturalmente, esaltati dall’alta definizione dei video.
E questo è un altro fecondo paradosso di Bill Viola. I video costituiscono infatti un materiale ormai universale, diffusissimo, con il quale i prosumer, i produttori/consumatori della Rete, invadono ogni spazio proprio e altrui con narrazioni di tutti i generi, per lo più completamente vane. E però l’arte di Bill Viola non si può apprezzare in Rete. È possibile, certo, trovare e vedere dei filmati su Internet e tuttavia oltre a essere per lo più delle riprese di visitatori delle sue mostre – e quindi video assolutamente impoveriti, come lo sono le foto che ho scattato e che pubblico qui – tali filmati non possiedono lo splendore cromatico e la definizione che sono rese possibili soltanto dai grandi schermi sui quali le opere vengono riprodotte nelle mostre, come questa di Palazzo Reale a Milano.
Le opere di Bill Viola hanno quindi bisogno dei musei o delle chiese, esattamente come i grandi dipinti e affreschi dell’arte europea prima del Novecento. Questo le rende preziose nel panorama dell’arte contemporanea. Soltanto negli spazi costruiti e organizzati appositamente per ospitarle, tali opere possono restituire i tipici volumi armoniosi dell’arte classica e i suoi colori scanditi, pieni, scintillanti. Chi dunque vede le opere di Viola sul proprio computer in realtà vede delle copie modeste e malfatte, non vede Viola. Esattamente come per vedere davvero Rembrandt, Veronese, Caravaggio, de la Tour, Raffaello e tutti gli altri bisogna recarsi nei musei e negli spazi che ospitano le loro opere.
Il legame profondo tra tecnologia e tradizione fa sì che Viola eviti un altro degli elementi più caratteristici dell’arte contemporanea: il narcisismo del performer che mette al centro della propria arte se stesso, il proprio corpo, la propria immagine. Che invece in Viola non compare mai. I suoi temi sono quelli dell’arte dalle sue origini nelle grotte neolitiche agli impressionisti: la vita, la morte, il tempo, il sacro, gli elementi del cosmo, sia esso il microcosmo umano sia il macrocosmo celeste.
La natura empedoclea di questo artista emerge di continuo, sino a farsi tema esplicito in Martyrs Series (2014), quattro video intitolati Earth Martyr, Air Martyr, Fire Martyr, Water Martyr nei quali dei martiri/testimoni vengono investiti dalla terra, dal vento, dalle fiamme e dalle acque, ma mantengono intatta la loro forza silenziosa, il loro stare al mondo ed essere nel tempo.
Dato che il tempo è un altro nome della fine, in Viola la meditatio mortis è costante e giunge al culmine in due opere: Fire Woman e Tristan’s Ascension, entrambe del 2005. Nella prima la morte di una donna diventa onde di acqua e di luce, nelle quali il fuoco si metamorfizza in un’opera astratta.

Nella seconda (qui accanto) si assiste a una vera e propria resurrezione spinta dalla potenza dell’acqua che porta in alto, purifica, trasforma. Perché la resurrezione è questa μεταβολή della materia che è stata in altra materia che sarà, rimanendo sempre la materia eterna del cosmo, anche dentro l’infima misura dei viventi. Il transito e lo scambio tra morte e vita sembra fondarsi in Viola anche nell’indeterminato, nell’ἄπειρον  che diventa Lux.
Come si vede, si tratta di un artista anche mistico, esoterico; non c’ė nulla di realistico nell’arte di Viola ma astrazione e simbolismo, che sono altri due elementi ben presenti nella vicenda estetica europea.
L’opera forse più emblematica tra quelle esposte a Milano è The Raft (2004; immagine di apertura e qui sotto): un gruppo di 19 persone di varia condizione ed etnia sono intente a se stesse e improvvisamente vengono travolte da potenti getti d’acqua che provengono da idranti ad alta pressione. Le riprese rallentate consentono di scorgere e comprendere la sorpresa, la paura, il tentativo di fuga, la caduta, l’abbraccio per resistere, il disorientamento e l’angoscia, sino a quando tutto si placa. È una trasparente metafora della condizione umana dentro la zattera della finitudine, sempre sottoposta alla insecuritas e al naufragio.


Infine, ancora un paradosso, il più ironico e anche il più significativo: l’arte di Bill Viola è del tutto refrattaria ai ritmi digitali. Essa richiede infatti lentezza, pazienza, meditazione. In cambio regala una delle esperienze più profonde e più belle dell’arte del XXI secolo.

[Questo testo è uscito anche sul numero 29 della rivista Vita pensata, alle pagine 180-183]

Che era, che è e che sarà

Teatro Greco – Siracusa
Prometeo incatenato
di Eschilo
Traduzione di Roberto Vecchioni
Scene di Federica Parolini
Costumi di Silvia Aymonino
Con: Alessandro Albertin (Prometeo), Deniz Ozdogan (Io), Michele Cipriani (Efesto), Davide Paganini (Kratos), Silvia Valenti (Bia), Alfonso Veneroso (Oceano), Pasquale De Filippo (Ermes)
Regia di Leo Muscato
Sino al 4 giugno 2023

Un solo umano appare in questa tragedia. Una donna, una ragazza che però umana non è più. È stata infatti trasformata in vacca dalla gelosia di Era ed è costretta a vagare tra l’Europa e l’Asia, sospinta da un tafano che non le dà pace e sorvegliata da Argo, bovaro dai cento occhi. Vittima dunque dell’amore di Zeus, che distrugge i mortali (anche Semele, madre di Dioniso, ne è stata vittima). Ma gli umani stanno dappertutto, di loro si parla senza posa, sono una delle ragioni dell’inchiodatura del Titano alle montagne della Scizia. Anche gli umani sono infatti vittima di un dio, vittima dell’amore per loro, della filantropia, di Prometeo, senza i cui doni si sarebbero estinti: il fuoco, l’energia, la mente, la tecnica. E soprattutto il dono del futuro che si dischiude dall’ignorare la data della propria morte. Senza tutto questo, senza Prometeo, gli umani sarebbero finiti nella pace dei Trausi, sarebbero scomparsi. E invece gli ἐφήμεροι, efficacemente tradotto con «creature dalla breve luce» (vv. 83, 253, 547 e 945), sono ancora qui, a transitare effimeri nel fiume del tempo che siamo.
Giustamente dunque Zeus ha punito il Titano, al quale tuttavia deve molto della vittoria sua e degli altri dèi contro le antiche divinità della terra, del cosmo, della morte e del tempo. Prometeo viene punito senza possibilità che egli muoia; a lui, infatti, questo dono è precluso: «ὅτῳ θανεῖν μέν ἐστιν οὐ πεπρωμένον: αὕτη γὰρ ἦν ἂν πημάτων ἀπαλλαγή; perché a me dal destino non è dato di morire: perché, è vero, la morte è la fine di tutte le pene» (vv. 753-754; trad. di M. Centanni).
E invece Prometeo deve stare inchiodato lì, nelle lande più desolate del mondo, restituite sulla scena nella forma di un’archeologia industriale che produce soltanto ruggine, fuochi e stridore. Qui lo raggiungono le figlie di Oceano e Oceano stesso, tutti affranti per quanto al Titano sta accadendo.

Qui lo raggiunge Io, alla quale Prometeo predice il futuro di gloria, nonostante la penombra del male che dovrà ancora attraversare; qui lo raggiunge Ermes, che gli ordina in nome di Zeus di chiarire le inquietanti profezie dal Titano enunciate contro il dio. Ma Prometeo respinge sarcastico questa richiesta e il fuoco della Terra lo inghiotte, senza poterlo comunque distruggere.

Così si conclude Προμηθεὺς δεσμώτης; il Titano sarà poi liberato arrivando a un accordo con Zeus. Ma la sua abilità, per quanto immensa, pari a quella del sovrano del cielo, è anch’essa secondaria, è una «τέχνη δ᾽ ἀνάγκης ἀσθενεστέρα μακρῷι; un’arte di gran lunga meno potente della necessità» (v. 514); Necessità, Ἀνάγκη, è la vera signora, padrona e destino di tutto. I mortali, poi, come tutti i βίοι, come tutti i viventi, sono davvero il limite dell’essere, il confine del niente, una goccia del tempo, un riflesso di luce, il luogo dove la materia, gli atomi, le molecole, trovano velocemente la propria dissipatio, la μεταβολή, la trasformazione incessante nell’alterità della morte per tornare al carbonio primordiale, al residuo delle stelle dalla cui potenza anche i viventi sono stati generati.
Alla pretesa di Zeus di dominare l’intero, alla pretesa di Prometeo di salvare gli ἄνθρωποι, risponde con il suo fragoroso silenzio la ὕλη, la Materia, che del Tempo è l’altro nome. Prima degli ἐφήμεροι stanno le potenze gorgoglianti e senza fine, le «Μοῖραι τρίμορφοι μνήμονές τ᾽Ἐρινύες; le Moire dai tre volti e le Erinni, demoni della Memoria» (v. 516) e le «Φορκίδες ναίουσι δηναιαὶ κόραι / τρεῖς κυκνόμορφοι, κοινὸν ὄμμ᾽  ἐκτημέναι, / μονόδοντες,  ἃς οὔθ᾽ ἥλιος προσδέρκεται / ἀκτῖσιν οὔθ᾽ ἡ νύκτερος μήνη ποτέ; Forcidi, le tre vecchissime fanciulle dall’aspetto di cigno, che hanno un occhio solo fra tutte e un dente per una; mai si espongono ai raggi del sole, mai alla luce della luna notturna» (vv. 794-797).
Eschilo è questo accenno all’indicibile, all’incomprensibile, all’unione di tenebra e luce, alla potenza che era, che è e che sarà. Eschilo è il fondamento.

[Le immagini sono di Davide Amato e Sarah Dierna]

Opera mistica

L’opera mistica di Eugenio Mazzarella
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
14 maggio 2023
pagine 1-3

C’è qualcosa di più che visionario nel libro che porta il titolo di Cerimoniale. C’è la forza antica e fondatrice del mistico. Mistica è stata sin dall’inizio la poesia di Mazzarella, che qui mostra senza più esitazioni, pudore e maschere la sua potenza nel testimoniare una realtà ultima e indicibile e che però i versi esatti e scabri di questo poeta sanno dire. La «nuova maniera con cui canti» è tale visione. Cosmica come in Giordano Bruno «di finito in finito l’infinito»; teoretica nel rivolgersi «alla forma delle cose»; fecondamente contraddittoria nell’affermare «Ora so tutto. Non chiedetemi cosa. / Non è niente. Solo un fiume al suo mare. / Il vuoto è dappertutto. Lo sapranno» e insieme «Non sono venuto a capo di nulla // Non ho capito il dolore».
Emerge in questi versi un dolore quasi immedicabile, una sofferenza che trasuda, un disagio inesorabile nell’esserci e tuttavia c’è qualcosa che di sé può dire «non ho bruciato invano l’universo. / Vi basterà l’angoscia di passare, / Anche di qui c’è luce».

«Dentro più dentro dove il mare è mare»

Giovedì 18 maggio 2023 alle 16.00 continueremo a dialogare sull’opera di Stefano D’Arrigo.
Nella sede del Centro Studi di Catania, l’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU) organizza infatti il secondo incontro del ciclo dedicato all’autore di Horcynus Orca.
A parlarne saremo io e il Prof. Fernando Gioviale, profondo conoscitore di D’Arrigo, al quale ha dedicato un libro pieno di dèi: Crepuscolo degli uomini. Attraverso D’Arrigo in un prologo e tre giornate.
Horcynus Orca è anche la saggezza millenaria della vanità di ogni cosa, «il mare della Nonsenseria», «un mare lordo di fere nell’inutilità di tutto», un mare che c’era prima degli umani, che rimarrà quando degli umani si sarà persa ogni memoria, un mare che continuerà a diventare ciò che è, ciò che è sempre stato: sostanza e metafora della morte.
Il romanzo di D’Arrigo si chiude nel segno da cui era nato, che lo intesse e lo rende esteticamente sublime, proprio nel senso kantiano di qualcosa che attira e che spaventa, che sgomenta perché attrae, che coinvolge perché spaura. «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro più dentro dove il mare è mare».

 

 

Il caso Horcynus Orca

Anche quest’anno l’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU) organizza un ciclo di incontri dedicato a Filosofia e Letteratura.
Dopo Proust (2018), Dürrenmatt (2019), Gadda (2020), Céline (2021) e Manzoni (2022) quest’anno leggeremo Stefano D’Arrigo, i suoi due romanzi.
Il primo incontro si svolgerà giovedì 27 aprile 2023 alle ore 16.00 presso il Centro Studi di Via Plebiscito, 9 a Catania. Cercherò di presentare la figura di D’Arrigo e il peculiare luogo che occupa nella letteratura contemporanea italiana ed europea.
«Certe cose, ci diciamo qualche volta, possono succedere solo nei romanzi» si afferma in Cima delle nobildonne. E quello che succede in Horcynus Orca sembra accadere nello spazio profondo del mare e del mito. È vero ma in questo romanzo ad accadere siamo noi, con il nostro andare nel tempo e con la nostra morte. Horcynus Orca è un romanzo omerico e heideggeriano. La lingua che lo intride è antica, espressionistica, avvolgente e lontana.

L’infanzia, la morte

L’infanzia, la morte – Pierluigi Ciambra
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXVIII – numero 79 – dicembre 2022
pagine 16-21

Queste bambine non sono solo bambine. Queste figlie non sono soltanto figlie. Queste creature hanno qualcosa di sacro, come divinità incarnate in forma infante ma che annunciano quello che la fotografia sempre dice, testimonia, mostra: la morte.
Tre bambine (tre come le Parche, tre come le Moire) sono immerse fino al busto dentro il mare. Un mare grigio che soltanto sullo sfondo assume la tinta rosa del Sole al suo tramonto. Le tre creature sono silenziose, intense, padrone dello sguardo dentro il mare, dentro la vita, dentro la sua fine.

Death of the Future

Japan. Body_Performer_Live
PAC Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Shihoko Iida e Diego Sileo
Sino al 12 febbraio 2023

C’è un manierismo nell’arte contemporanea a volte assai banale ma che in questa antologia di artisti giapponesi esprime anche un senso di inquietudine, di disperazione, di guerra. Come se davvero vivessimo un qualche post della catastrofe, un al di là del senso e del significato.
Chilaru Shiota documenta i propri inizi con Bathroom, un video nel quale la si vede immersa nel sudiciume, trasformata in impasto di materia dentro una lurida vasca da bagno, diventata corpo confuso con grumi di sporco. Invece il recente Corpo vuoto è un’elegante e inquietante installazione che occupa un’intera sala, dentro la quale la realtà si spezza e si moltiplica mediante una resa materica, tridimensionale, della percezione.

(Chilaru Shiota – Corpo vuoto)

Dumb Type è il nome di un collettivo nel quale la scrittura si fa letteralmente luce, diventa opera.
Makoto Aida frantuma con il sarcasmo le figure mediatiche del potere. In un video Osama Bin Laden dichiara di essersi nascosto in Giappone, di gustare il cibo giapponese e soprattutto di apprezzare molto gli alcolici; infatti appare decisamente brillo e dichiara «Paese strano questo, dove un idiota riesce a diventare primo ministro»; un altro video presenta un oratore che somiglia al primo ministro Shinzo Abe che getta via il discorso che ha preparato e comincia a denunciare le malefatte degli Stati Uniti d’America.
Mari Katayama è un’artista priva della parte inferiore delle gambe. Lei si fotografa così com’è, con le protesi o senza, in pose quotidiane o, più spesso, raffinate e sensuali. Si installa in questo modo nello spazio dei sensi, dell’acqua, di una bellezza metamorfica. Sono suoi anche dei resti di conchiglie, come relitti di un naufragio.
L’opera più dirompente ed emblematica della tonalità dell’intera mostra è forse We Mourn the Death of the Future di Meiro Koizumi (immagine di apertura), un coinvolgente e tragico video di un mantra/rosario di seppellimento. Tra le frasi che scorrono mentre l’azione accade, c’è questa: «Non sono ancora nato ma sono già morto».
Attraverso le opere, le idee, le installazioni, le performance di questi e di altri artisti (Finger Pointing Worker/Kota Takeuchi, Yuko Mohri, Saburo Muraoka, Yoko Ono, Lieko Shiga, Kishio Suga, Yui Usui, Ami Yamasaki, Chikako Yamashiro, Fuyuki Yamakawa, Atsuko Tanaka, Kazuo Shiraga) l’Occidente/Oriente che il Giappone è diventato mostra un rigore formale, un inquietante senso della catastrofe, la rinuncia a ogni illusione, un ultimo gesto di consapevolezza e di creazione.

 

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