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La Madre

Mother, Couch
(Divano di famiglia)
di Niklas Larsson
USA, Danimarca, Svezia 2023
Con: Ewan McGregor (David), Ellen Burstyn (la madre), Rhys Ifans (Guffrud), Taylor Russell (Bella), Lara Flynn Boyle (Linda), F. Murray Abraham (Markus / Marco)
Trailer del film

Per dei mammiferi la madre è tutto. E non soltanto per i cuccioli di Homo sapiens che nascono in una cultura mediterranea, dove la Grande Madre è la vera divinità (la Madonna cattolica è questo) e dove, all’opposto di quanto affermano tesi che rimangono alla superficie delle dinamiche sociali, la struttura delle comunità è sostanzialmente matriarcale (la più parte dei figli di origine siciliana potrà darne conferma). La questione è più profonda: la madre è il legame con la vita stessa (come è ovvio), con il clan, con la casa, con la filogenesi. La madre è tutto.
E lo è anche e soprattutto quando il suo comportamento risulta scostante e l’atteggiamento poco affettuoso, come per la madre di questo film, la quale non aveva desiderato i suoi figli – e apertamente glielo comunica –  e non nutre affetto neppure verso i nipotini. Una madre che ha avuto i suoi tre figli da tre uomini diversi. Il figlio più giovane, David, è il più dedito a lei. E lo rimane anche quando, imprevedibilmente, la signora ultraottantenne non intende alzarsi dal divano di un negozio di arredamento. I figli, uno dopo l’altro, cercano di convincerla ad alzarsi e a tornare a casa. Ma non c’è niente da fare. Prima per delle ore e poi giorno e notte la madre rimane lì, reagendo con furore a ogni tentativo di condurla via. In un momento di quiete, consegna a David la chiave di una cassettiera dicendogli che è giusto che sia lui ad averla e ad aprirla. Questo mobile contiene la spiegazione di molti eventi, di molto dolore. A poco a poco tutta la vicenda assume una dimensione onirica che è l’espressione della interiorità di David. Lo è anche la madre. Il negozio si trasforma in un luogo di passaggio dalla solidità della terra al mistero delle acque, dalla vita alla morte, dal presente alla memoria.
È un film plurale, questo di Niklas Larsson. Un film che è commedia ed è dramma, che è la desolazione di un negozio sperduto nelle lande statunitensi ed è però anche un luogo sacro, i cui proprietari, due fratelli gemelli e la bella figlia di uno di loro, si rivelano assai più che dei commercianti essendo invece figure del destino. Il sogno, l’incubo e la pace mi hanno ricordato Una pura formalità (1994), il capolavoro di Giuseppe Tornatore.
Protagonista di Mother, Couch è il figlio, il quale però vive dentro l’anima della madre. Come molte delle sue simili, essa non tollera concorrenza, competizione, collaborazione. I figli sono suoi, frutto delle sue viscere, portati per mesi nel ventre, dati con dolore alla luce, specchio riflesso della sua natura.
E invece la Madre va uccisa, se vogliamo vivere. Essa deve diventare una persona qualsiasi della famiglia. Non bisogna permetterle di raggiungere il suo scopo: essere la Grande Madre che controlla i tempi, gli affetti, i progetti degli altri. La Grande Madre è la Gorgone che paralizza, è la Vergine Maria che rende ogni Giuseppe un individuo ridicolo e patetico, è l’Angelo del focolare che brucia le anime dei figli, è la Potenza della Terra che si apre a inghiottire nel proprio utero i corpi che da esso sono usciti. Che stritoli i nati nel proprio affetto o che dia loro l’angoscia dell’abbandono, la Grande Madre è la Morte.
Come la madre di Citizen Kane, la Signora di questo film ha abbandonato la prole, anche se lo ha fatto in modo diverso. La dimensione tragica, greca e gnostica del capolavoro di Orson Welles diventa qui una commedia nera. Ma in ogni caso ha ragione Baudrillard: «Fallo vivente della madre, tutto il lavoro del soggetto perverso consiste nell’installarsi in questo miraggio di se stesso e trovarvi l’appagamento del suo desiderio – in realtà appagamento del desiderio della madre. […] Processo identico a quello dell’incesto: non si esce più dalla famiglia» (Lo scambio simbolico e la morte [1976], Feltrinelli 2007, p. 127). Uscire, affrancarsi da lei, dalla Madre, è dunque liberarsi dalla perversione, è vivere. Finalmente lontani dal grembo di tenebra che anche questo film intuisce e comunica.

Il giudice e il suo boia

Friedrich Dürrenmatt
Il giudice e il suo boia
(Der Richter und sein Henker, 1952)
In «Romanzi e racconti», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Enrico Filippini
Einaudi-Gallimard, 1993
Pagine 7-91

«Che cos’è l’uomo? Che cos’è l’uomo?» (p. 55) si chiede il Commissario Bärlach (e con lui Dürrenmatt). Le possibili risposte sono assai numerose, diverse, anche molto diverse. L’uomo è un enigma semplice. I movimenti che lo agitano sono infatti sempre gli stessi e ormai sono ben conosciuti. Le passioni che lo intridono sono antiche e anche un poco ripetitive. La gelosia, ad esempio. Una delle passioni più diffuse nelle relazioni umane, insieme all’invidia. Invidia e gelosia sono passioni che hanno una legittima funzione anche etologica ma che non per questo, almeno al livello di consapevolezza e di civiltà al quale siamo arrivati, sono meno meschine.
Un uomo diventa talmente «geloso delle capacità, del successo, della cultura, della ragazza» (88) di un altro uomo da non vedere più davanti a sé che l’eliminazione dell’oggetto della sua gelosia.
Un altro uomo è così convinto della propria legittimità al dominio da cominciare a uccidere soltanto per vincere «la scommessa» di «commettere un delitto in tua presenza senza che tu fossi in grado di provarlo» (53).
Le diverse passioni di questi umani deflagrano quando in un piccolo perimetro della Svizzera intorno al Giura e a Berna un tenente di polizia viene trovato ucciso nella propria auto con un colpo alla tempia, in una stradina vicina a un bosco. Comincia allora l’opera del Commissario Bärlach, intramata e intessuta del «male [che] l’aveva sempre ripreso nel suo cerchio, il grande enigma, una fascinosa tentazione di risolverlo» (29).
Di fronte alle persone che del male si fanno veicolo e sostanza, davanti al loro agitarsi o al loro autocontrollo, al loro freddo sudore o a una fragorosa risata, gli occhi di Bärlach diventano «come pietre» (36), si fanno «calma sovrumana, una tigre che giuoca con la vittima» (87), si erigono a giudice che condanna il colpevole e conduce alla morte anche il suo boia: «Ti ho già giudicato, ti ho condannato a morte. Tu non vivrai oltre questa sera. Il boia che ho scelto per te verrà oggi a cercarti» (77).
Nell’apparenza di un vecchio commissario malato, al quale i medici non danno più di un anno di vita, Bärlach è un demone guidato dall’ossessione della vendetta e della giustizia, di una vendetta che è giustizia; è un antropologo che sa come nell’umano «sono sempre possibili due cose, il bene e il male, è il caso che decide» (63); è un’entità che sta «al centro della stanza, in una solitudine gelida e remota, immobile e impassibile» (69); è «un cuore lacerato da un fuoco feroce», la cui «unica grazia» è dimenticare (84).
Molto al di là del ‘poliziesco’ e tuttavia in esso perfettamente a suo agio, lo sguardo e la scrittura di Dürrenmatt hanno disegnato in Bärlach la luce e il silenzio della materia, luce e silenzio protagoniste dell’incontro con il cadavere del suo nemico: «La luce era comune a tutti, anche a loro due, era stata creta per loro, ora li riconciliava. Il silenzio del morto penetrò in Bärlach, gli si insinuò nel sangue, ma non gli dava pace, come invece l’aveva data all’altro. I morti hanno sempre ragione» (83). Perché i morti sono il nostro destino. L’esistenza stessa è il giudice e il suo boia.

Nel Tirreno

La chimera
di Alice Rohrwacher
Italia, 2023
Con: Josh O’ Connor (Arthur), Carol Duarte (Italia), Isabella Rossellini (Flora), Alba Rohrwacher, Vincenzo Semolato (Pirro)
Trailer del film

La bellezza dei pagani, la loro consapevolezza della morte, gli dèi diventati marmo, la loro presenza negli oggetti di uso quotidiano, le tombe dell’Etruria e la ricchezza della vita e della morte.
I tombaroli che cercano questi luoghi, li scavano, li depredano, ne vendono i ritrovamenti a impeccabili società d’aste e a eleganti collezionisti, questi tombaroli nulla sanno del mistero che avvolge le cose, il buio, i millenni. Conoscono soltanto le banconote per campare. Campare nella sporcizia e nei sogni. Arthur invece è un rabdomante, un ‘maestro’, uno che sente le tombe e indica dove scavare, è un archeologo. Durante un furto alle tombe gli altri scappano e soltanto lui viene arrestato. Liberato tramite l’intervento di Spartaco, un ricco e misterioso collezionista, torna alla sua baracca di alluminio sotto le mura di una città toscana. I compagni di impresa lo rivogliono con sé, anche se lui preferisce far compagnia a una vecchia signora della cui figlia è (era?) fidanzato. Una signora circondata da altre figlie e da una giovane brasiliana che impara da lei il canto e l’accudisce.
Ritornano le antiche imprese, Arthur non può vivere lontano dalle tombe, ritornano i furti, la miseria e il denaro, ma anche i simboli, i miti, l’enigma, la bellezza suprema «che occhi umani non possono vedere» e un’espressione della quale precipita nel Tirreno dopo essere venuta alla luce. Miti d’amore anche, miti di scansione del tempo (una festa delle befane/streghe), oggetti apotropaici, i volti degli dèi. E infine come sempre la morte, verso la quale l’itinerario di Arthur è diretto.
Morte che non è quella degli umani attuali, destinati in ogni caso a finire, ma dei morti antichi le cui dimore vengono violate non dai tombaroli, non dagli archeologi ma dalle industrie chimiche che affondano le loro costruzioni dove i morti abitano, rendendo mortale la terra e il mare.
Una magia percorre questo film, l’incanto della bellezza presente e perduta, l’enigma di civiltà aliene, completamente aliene dall’oggi, come quella degli Etruschi, le voci dei cantastorie, la sacralità che il finire dopo essere nati assume sempre agli occhi degli umani ἐφήμεροι, degli umani che niente sono nell’immensità della materia e del tempo. Qualcosa di struggente attraversa La chimera, qualcosa di perduto. Del quale è parte l’Italia degli anni Ottanta, poco prima che essa fosse svenduta alla globalizzazione, messa al servizio dell’Unione Europea e della sua Banca Centrale, degli Organi della finanza, venduta come un reperto di millenaria bellezza il cui unico valore è lo scambio, il mercato.

Dissolvenza e luce

Dissolvenza e luce
Aldo Palazzolo
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXIX – numero 81 – ottobre 2023
pagine 94-99

La fotografia, lo hanno notato in tanti, è un’arte che ben documenta la pervasività della morte. Del numero sconfinato di immagini che costituiscono l’archivio dell’umanità da quando questo dispositivo fu inventato, la parte preponderante rappresenta strutture, luoghi, città, paesaggi, animali umani e non umani che sono stati e più non sono. Ma l’essere è sempre in qualche modo luce. Tanto è vero che Palazzolo ha potuto intitolare due sue mostre siciliane di qualche anno fa con le espressioni Imago Lucis (a Comiso) e Chiedi alla luce (a Scicli).
L’artista fotografa la struttura della dissolvenza e non la potenza dello stare. I suoi soggetti in parte esistono ancora e già non ci sono più. Già e non ancora è una delle formule più dinamiche per cercare di cogliere l’incoglibile del tempo. Dissolvenza e luce, quindi. Vale a dire due degli elementi tecnici e formali che costituiscono e costruiscono il lavoro fotografico.

Potere

Oppenheimer
di Christopher Nolan
USA, 2023
Con: Cillian Murphy (Robert Oppenheimer), Robert Downey Jr. (Lewis Strauss), Emily Blunt (Katherine Oppenheimer), Matt Damon (Leslie Groves), Florence Pugh (Jean Tatlock), Benny Safdie (Edward Teller), Kenneth Branagh (Niels Bohr), Jason Clarke (inquisitore)
Trailer del film

Shakespeare (in particolare Riccardo III e Macbeth), Machiavelli (Il Principe), Canetti (Massa e potere) ci hanno mostrato che il potere è un fatto pervasivo e stratificato, evidente e complesso. Ma la sua sostanza non è difficile da cogliere: il potere è espressione e forma della dissoluzione, è radice sempre attuale dei bisogni animali della nostra specie, è raffinata giustificazione della violenza, è la brutale e penultima parola sugli eventi. Penultima perché l’ultima è la conoscenza che indaga sugli esiti del potere, come appunto in Skakespeare, Machiavelli, Canetti e in altri.

Nel Novecento c’è stato un momento (in verità assai lungo) nel quale il potere della filosofia/scienza, nella forma della fisica teorica, e quello politico conversero nella progettazione, realizzazione e utilizzo di un fuoco mai visto, devastante, accecante. Il fuoco generato dalla manipolazione umana del nucleo dell’atomo, fuoco che come onda inarrestabile e totale brucia, dissolve, cancella tutto ciò che incontra. E trasforma quanto di biologico gli sopravvive in un grumo senza fine di piaghe e di dolore.
L’unica potenza che sinora – 2023 – ha utilizzato contro altri stati e contro gli umani e i viventi tale fuoco sono gli Stati Uniti d’America, il 6 agosto 1945 dissolvendo Hiroshima, il 9 agosto cancellando Nagasaki.
Christopher Nolan racconta le origini di questa vicenda, il suo svilupparsi dentro un intrico fatto di carriere universitarie, di procedure e risultati scientifici, di innovazioni tecnologiche, di scommesse e di azzardi, di ambizioni politiche, di dismisura storica. Il presidente USA Harry Truman (del Partito Democratico, interpretato per pochi ma sufficienti minuti da uno straordinario e cinico Gary Oldman) al fisico Oppenheimer che afferma di sentire le mani grondanti di sangue, offre il suo fazzoletto per pulirsele e giustamente gli dice che «lei ha utilizzato la bomba a Los Alamos, non c’entra nulla con Hiroshima e Nagasaki. Le bombe le ho sganciate io».

Los Alamos (New Mexico) fu la sede principale del Progetto Manhattan, che ideò e realizzo gli ordigni nucleari. A guidare il progetto fu appunto Robert Oppenheimer (1904-1967), uno tra i maggiori fisici del Novecento, protagonista del primo esperimento atomico avvenuto il 16 luglio 1945, esplosione alla quale venne data una denominazione religiosa: Trinity.
Di questa persona e personaggio dalla natura complessa, riservata e narcisista, sfuggente, ambiziosa, sostanzialmente malata come quella di tutti i grandi criminali, il film narra la vicenda dagli esordi di studente ai successi scientifici, all’impegno strenuo per realizzare la bomba atomica, ai sospetti di militanza comunista che gli valsero un’umiliante inchiesta, alla collaborazione prima e all’odio implacabile poi da parte di Lewis Strauss, un altro ebreo e Presidente della Commissione per l’energia atomica degli Stati Uniti d’America. Gran parte del film è giocata sul canto/controcanto delle udienze dal cui esito a Oppenheimer venne revocata «l’autorizzazione di sicurezza», e dunque la possibilità di continuare a lavorare ai progetti scientifico-militari degli USA, e a Lewis venne negato di entrare come ministro nel governo del Presidente Eisenhower. La contrapposizione tra i due protagonisti è un’autentica lezione di ciò che di solito si intende con  «machiavellismo».
Oppenheimer è un’opera sul potere ed è un’opera sulla morte. Un’opera epica nello stile, frenetica nel racconto (tre ore che scorrono senza che ci si renda conto), dinamica e complessa nella temporalità, come sempre in Nolan, a partire da Following (1998) e Memento (2000) sino a Tenet (2020). Un’opera radicale nell’indicare le origini di quello che sarà probabilmente il destino di gran parte del pianeta, forse in tempi non troppo lunghi: la distruzione per opera dell’energia atomica, della potenza inarrestabile della materia manipolata nel suo nucleo, degli ordigni termonucleari di cui sono pieni gli arsenali delle maggiori potenze politiche del presente.

Un’opera che coniuga la morte all’amore. Mentre si accoppia con lui, la giovane amante Jean chiede a Oppenheimer di leggerle alcuni versi di un libro in sanscrito che il fisico sta studiando. E le parole dicono: «Sono diventato morte, il distruttore di mondi». Frase che ritorna durante l’esplosione sperimentale del luglio 1945 a Los Alamos. Questo è il momento sublime del film, anche in senso kantiano: per circa due-tre minuti tace ogni suono e ogni musica (che accompagna invece in modo ossessivo tutta la vicenda), si fa improvviso silenzio, si vede di colpo e poi lentamente ampliarsi la scintilla del fuoco, salire, diventare fungo atomico, espandersi, illuminare, accecare, splendere. Tutto nel più assoluto silenzio e con i volti e i corpi dei fisici e dei militari stupefatti di fronte a tanta perturbante meraviglia.
Amore, potere, morte. Aver potuto sentire tutto questo recitato nella lingua originale di alcuni grandi interpreti ha dato ulteriore profondità alla visione di un’opera inquietante e omerica. Opera che è anche un altro omaggio di Nolan al suo modello Kubrick, il quale affermò che «la distruzione di questo pianeta sarebbe insignificante in prospettiva cosmica. […] Non ci sarà nessuno a piangere una razza che usò il potere che avrebbe potuto mandare un segnale di luce verso le stelle per illuminare la sua pira di morte»1.
Non ci sarà nessuno.

Nota
1. In Enrico Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro Cinema 1995, p. 12.

Politeisti semantici

Il mito è conoscenza ma non è solo conoscenza. Il mito è teologia ma non è solo teologia. Il mito è specialmente racconto, è l’arte del racconto, è il racconto che produce mondi, credenze, significati.
Anche per questo «qualsiasi esposizione della mitologia è una interpretazione»1, poiché è il mito in se stesso – e non soltanto nei suoi lettori e inventori – a essere un oggetto cangiante, metamorfico, ermeneutico.
Di ogni dio si raccontano storie diverse, anche molto diverse. Di ogni nome del dio si danno differenti origini, interpretazioni, significati. Di ogni racconto esistono una molteplicità di versioni, sviluppi, soluzioni. Un esempio è Marsia, il satiro che sfidò Apollo nella musica e che, sconfitto, venne scuoiato dal dio a causa della sua ὕβρις. In un saggio assai bello Elvia Giudice ipotizza e descrive «una storia diversa, in cui Marsia, sconfitto da Apollo nell’agone auletico e risparmiato dal dio per intercessione di Athena (?), avrebbe riconosciuto le ragioni del rivale, assumendone lo strumento e sposandone la causa: la supremazia della citarodia su tutte le altre forme d’arte musicale»2.
Nel mito vive una molteplicità ermeneutica che lascia ammirati e stupefatti. Perché i Greci erano davvero dei politeisti semantici, credevano che nulla potesse fermarsi, avere un solo volto, diventare verità per sempre uguale, dogma.

Il Mare, la Notte, la Terra stanno all’origine di tutto. In principio – questo afferma il colto narratore greco al quale Kerényi dà voce e presta erudizione – «esisteva la Notte: nella nostra lingua essa si chiamava Nyx, una delle più grandi dee anche secondo Omero, una dea davanti alla quale perfino Zeus provava un sacro timore» (p. 26, con riferimento a Iliade, XIV, 261). Da questa notte sconfinata e potente si generarono il Cielo e la Terra; dalla loro unione il Tempo; e dal Tempo la Luce, Zeus, il dio la cui potenza, i cui figli, le cui sapienti alleanze garantirono il trionfo contro le forze più antiche e più oscure, l’avvento di un ordine comunque sempre precario, violento e cangiante, poiché precaria, violenta e cangiante è la vita stessa delle cose e della materia.
La Morte, che su tutto domina e ogni cosa aspetta, seppe darsi la figura più lieta, più desiderata, più potente: l’Amore. Soltanto perché la passione amorosa vince sui mortali, essi generano enti simili a sé, altre cose destinate e morire. «Le Sirene servivano la morte» (58). Afrodite, nata nel Mare dallo sperma insanguinato del Cielo, è una divinità d’amore e una divinità di morte. E anche per questo «l’Afrodite nera può stare altrettanto bene a lato delle Erinni, tra le quali essa viene pure contata» (73-74). Afrodite domina su tutti gli animali (umani compresi) e su tutti gli dèi (tranne Atena, Artemide ed Estia). Essa costringe persino Zeus a desiderare donne mortali, ad amare anche la propria sposa-sorella Era e poi una miriade di donne, di enti, di forze, con le quali si unisce nei modi più impensati e fantasiosi e dalle quali genera altre forze, eroi, dèi.
Le Erinni e Afrodite limitano e compiono il potere di Zeus, della Luce. Le Erinni anch’esse generate dalle gocce di sangue di Urano. Le Erinni figlie della Notte, della Terra, dell’Oscuro.

Il politeismo narrativo, le continue metamorfosi, le trasformazioni, il diventare e il tempo generano racconti vorticosi, producono nomi, celebrano matrimoni, fioriscono figli, si trasformano in stelle, nel continuo catasterismo della religione greca che colloca nella notte stellata molti personaggi rendendoli così immortali e insieme visibili.
Una delle più belle costellazioni invernali, Orione, è appunto un catasterismo, insieme al suo cane, allo scorpione che lo ha punto, agli altri animali dei quali il cacciatore primordiale va sempre all’inseguimento, ogni notte.
Il politeismo narrativo inventa la vergine madre ben prima che lo facesse la saga biblica; la storia delle nozze di Atena narra infatti che la dea «non perdette la sua verginità, ma dopo le quali [nozze] affida ugualmente un bambino alle figlie di Cecrope, re della sua amata città di Atene» (107).
Il politeismo antropologico attribuisce a disgrazia la donna (come accade anche in Genesi), tanto da definire Pandora, plasmata da Zeus per punire Prometeo e gli umani, con la formula di un «bel male […] insidia pericolosa, di fronte alla quale gli uomini sono inermi. Da essa discende la generazione delle donne. Un male di cui gioiranno, circondando d’amore ciò che costituirà la loro disgrazia» (182).
Il vortice narrativo arriva al suo culmine nell’unione di Zeus con Persefone, figlia sua e di sua madre Rea o forse di Demetra (Diodoro Siculo, 3, 64. 1); unendosi alla figlia Zeus generò Dioniso, nella prima delle tre nascite del dio; «entrambi gli dèi, Zeus, il seduttore di Persefone, e Dioniso, figlio dei due, portavano anche il nome Zagreo» (101).

Dioniso è il culmine, è il fascino, è il dio smembrato e divorato dalle forze oscure ancora potenti, punite e rese fumo da Zeus. Da tale caligine fummo generati noi, gli umani, che dunque siamo tenebra titanica e luce dionisiaca.
I racconti di Dioniso che rende vani gli sforzi dei pirati di rapirlo, trasformando la loro nave in una vite e loro in delfini; di Dioniso che punisce tremendamente Penteo facendolo sbranare dalla sua stessa madre; di Dioniso che nasce ancora due volte da Semele e dal proprio cuore/fallo bollito, tutto questo è la meraviglia ironica, serissima e cosmica che fa del mito greco la spiegazione più profonda e cangiante del mondo profondo e cangiante nel quale abitiamo e che siamo.

Note
1. Károly Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia (1951-1958), trad. di Vanda Tedeschi, il Saggiatore 1963, p. 17. Indicherò tra parentesi nel testo i numeri di pagina delle successive citazioni.
2. Elvia Giudice, Il Cratere del Pittore di Cadmo 1093: pittura vascolare e società, in Ostraka. Rivista di antichità, anno XXX. Numero 21, 2021, p. 72.

Cerimoniale

“Cerimoniale”, la forza antica e fondatrice del mistico
in Il Mattino
22 giugno 2023
pagina 34

Cenere che assale, fiume che va, ferita della sera, silenzio che riposa, sono alcune delle immagini che il poeta disegna per indicare l’essere del vivente dentro il mondo e il destino di ogni cosa dentro l’essere. «Io vedo il fiume andare / Ma non so la montagna e non so il mare» (p. 81); il risultato è che «non si torna. […] Il senso è questo traffico col niente» (p. 132).
Una visionarietà dell’oltre attraversa i versi di Cerimoniale, quinta opera poetica di Eugenio Mazzarella, visionarietà che è ben piantata nel qui e ora dell’effimero, del tempo. La teologia poetica di questo filosofo sa volgere la nostra condizione, la condizione umana, in «stella stabilita del cammino» (p. 158).

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