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The Hurt Locker

di Kathryn Bigelow
USA, 2008
Con: Jeremy Renner (Sergente Maggiore William James), Anthony Mackie (Sergente JT Sanborn). Ralph Fiennes (Caposquadra mercenari), Guy Pearce (Sergente Matt Thompson), David Morse (Colonnello Reed)
Trailer del film

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Un gruppo di artificieri statunitensi opera nell’Iraq ridotto a una landa desolata. L’ultimo arrivato è il sergente William James, un uomo che sembra non temere nulla e che affronta in modo persino incosciente i rischi più gravi. Tra sentimenti opposti -cinismo, sentimentalismo, solitudine e cameratismo- la guerra diventa una vera droga che divora tempo, vite, affetti.

Tecnicamente molto buono, capace sempre di spingere e tenere la tensione al punto giusto, il film di Kathryn Bigelow riconosce apertamente il fatto che l’esercito e la cultura statunitensi sono oggetto di ripudio e di odio da parte delle popolazioni sottomesse. Questo plausibile sfondo politico si articola tuttavia in una narrazione “privata” che rimane troppo patriottica. Su tutto, comunque, domina l’insensatezza, l’addiction della morte.

Mente & Cervello 51 – Marzo 2009

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La memoria corporea -la più radicale e costante- si struttura e consolida nel sonno, il quale «è un processo poderosamente attivo (…) determinante per la buona qualità della nostra vita, in particolare per le attività cognitive più raffinate, come la memoria» (P.Garzia, p. 104). Dormire bene -e cioè profondamente e tra le sei e otto ore per notte- è nello stesso tempo causa ed effetto di un’esistenza equilibrata.

Misura che manca del tutto alle molteplici espressioni della follia che questo numero di M&C documenta, a volte in modo anche crudo.

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Massa e potere

di Elias Canetti
(Masse und Macht, Classen Verlag, Hamburg 1960)
Trad. di Furio Jesi
Adelphi, Milano 1981
Pagine 615

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Questo libro restituisce del tutto, senza risolverlo ma addirittura ampliandolo, l’enigma della massa. Non si tratta di un affresco storico né di una tipologia sociologica ma di una serie di frammenti per pensare. Canetti tenta (in un senso molto diverso da Foucault) una fisica e, di più, una biologia del potere. La massa e il comando vengono pensati a partire dalle loro scaturigini nel mondo vegetale e animale. Psicologia, etnologia, storia, antropologia, etologia confluiscono nel magma di un tentativo lucidissimo di comprendere ciò che accade.
La dinamica individuo-massa viene imperniata sul contrasto fra due forze opposte. Quella centrifuga spinge a conservare l’identità del singolo tramite l’isolamento nel quale ognuno sta come un mulino a vento in una pianura sconfinata. Questa situazione, tuttavia, comporta un tale peso d’angoscia -il sentimento alla lunga inaccettabile dell’esser soli- da spingere a immettersi nella forza opposta, quella che unisce gli sparsi individui e tramite la quale «l’uomo può essere liberato dal timore di essere toccato. Essa [la massa] è l’unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto (…) D’improvviso, poi, sembra che tutto accada all’interno di un unico corpo» (pag. 18). Nascono così gli insiemi fisici, gli aggregati centripeti, la semplice vastità del numero. Ma il momento decisivo nel quale da una raccolta più o meno vasta di individui si passa alla vera e propria massa è la «scarica» nella quale tutti decidono di fare e di essere la stessa cosa, diventano uguali e provano con ciò un enorme sollievo, di carattere appunto fisico, biologico. Alcuni esempi: la paura improvvisa di fronte a un pericolo (un predatore, un’inondazione, l’esercito avversario, le forze dell’ordine) crea la massa in fuga; il rifiuto di un’azione dovuta fa nascere la massa del divieto (lo sciopero); la volontà di uscire a tutti i costi da una situazione giudicata insostenibile forma quella del rovesciamento (rivoluzioni e jacqueries); un gruppo che si autocelebra proiettando se stesso nella natura, in un eroe o in un dio, produce la massa festiva.

Cos’è, oltre la scarica, a unificare tali e altre forme di massa? In primo luogo la necessità di crescere indefinitamente, di penetrare ovunque senza lasciare nulla fuori di sé, di coincidere -alla fine- con tutto ciò che esiste. Poi, una eguaglianza «assoluta e indiscutibile» (35), che pervade la massa dando unità alla molteplicità di sensazioni, esperienze, volontà. Ancora: una concentrazione fisica di cui la massa sente comunque sempre l’insufficienza dato che essa vorrebbe annullare lo spazio fra un elemento e l’altro dei suoi componenti. Infine, la direzione, il muoversi tutti insieme verso qualcosa, unica garanzia contro il pericolo sempre incombente del disgregamento. E quindi la forma-massa davvero originaria, modello e insieme simbolo di ogni altra, sta nella natura e nelle diverse sue manifestazioni: grano, foreste, pioggia, vento, sabbia, mare, fuoco.

Di fronte alla massa -suo prodotto? suo nemico? Canetti non sembra chiarirlo del tutto- sta il potere, la cui natura è in primo luogo biologica e consiste nell’afferrare ciò che sta davanti e a disposizione, mangiarlo, incorporarlo e annientare così ogni diversità rispetto a colui che divora. In ogni luogo e ovunque appaia, che cosa è il potere? «L’istante del sopravvivere è l’istante della potenza» (273). Il potente è in primo luogo il sopravvissuto, l’unico superstite di fronte alla distruzione dei suoi simili; il suo trono poggia su mucchi sterminati di cadaveri: «Il più antico ordine -impartito già in epoca estremamente remota, se si tratta di uomini- è una sentenza di morte, la quale costringe la vittima a fuggire. Sarà bene pensarci quando si parla dell’ordine fra gli uomini» (366).  Lo strumento e la tonalità del potere è la dissimulazione, il silenzio sulle proprie reali intenzioni, il segreto indicibile, il moltiplicarsi delle maschere, la finzione. Solo così la parola detta, quando sarà detta, avrà il peso di un’autorità senza limiti, di una sentenza senza appello. Ogni ordine è parte di questa morte che viene dall’alto, una spina che si conficca in chi la riceve, che non si potrà dimenticare e da cui ci si potrà liberare solo trasmettendo a un altro lo stesso identico comando. Ma anche il potente vive la sua angoscia: essa è il contraccolpo della sorte, il poter perdere l’autorità e dover subire la vendetta di coloro a cui si è comandato: «sapere che tutti coloro cui si sono impartiti comandi, tutti coloro che si sono minacciati di morte vivono e si ricordano (…), questa sensazione profondamente radicata e tuttavia indeterminata, poiché non si sa mai quando i minacciati passeranno dal ricordo all’azione, questa tormentosa, invincibile e indefinita sensazione di pericolo è appunto l’angoscia del comando» (373). È questa per Canetti la spirale paranoica del potere.

L’unica forma di liberazione dall’impulso a sopravvivere distruggendo ciò che è diverso da noi «è per propria natura una soluzione riservata solo a pochi» e consiste in «un isolamento creativo che faccia acquistare l’immortalità» (570): l‘arte, il sapere, la cultura come sopravvivenza che non si nutre della morte altrui, anzi moltiplica e ricrea la vita: «Così i morti si offrono come il più nobile nutrimento ai vivi. La loro immortalità torna a vantaggio dei vivi: grazie a questo capovolgimento del sacrificio del morti, tutto prospera. La sopravvivenza ha perduto il suo aculeo e il regno dell’inimicizia è alla fine» (336).

Canetti non giudica la massa, la descrive come qualcosa che costituisce il mondo, sia umano sia animale e vegetale. Valuta invece il potere, svelandone la vera e propria natura patologica. Ma in questa modalità del giudizio sembra permanere l’idea roussoviana delle masse che autolegittimano il loro potere nella volontà generale, masse che si autocelebrano come Volk e come fonte di una giustizia inappellabile. Masse che esprimono anch’esse quel desiderio di morte che «si trova davvero ovunque, e non è necessario scavare molto nell’uomo per trarla alla luce» (87).
Il libro coinvolge a fondo. Un maestro della scrittura -Premio Nobel per la letteratura nel 1981- in delle pagine splendenti offre una comprensione radicale del potere, guarda il volto della Medusa e sopravvive.

Ethnopassion

La collezione etnica di Peggy Guggenheim
Altre culture a Milano

Milano – Fondazione Mazzotta
Sino al 22 febbraio 2009

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La Terra-madre, entità ambivalente che dà e toglie vita (Medea costituisce un’eco arcaica nel pieno della classicità ellenica); la fecondità come dono e come richiesta continua rivolta al divino; gli spiriti ermafroditi che di tanto in tanto arrivano nei villaggi; l’universalità e necessità delle iniziazioni, senza le quali il tempo individuale e quello collettivo risulterebbero separati e quindi morti. La consunstanzialità di Tempo e Corporeità.

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Nouveau Réalisme

Il Nouveau Réalisme dal 1970 ad oggi. Omaggio a Pierre Restany
Milano – Padiglione d’Arte Contemporanea
Sino al 1 febbraio 2009

Pierre Restany (1930-2003) inventò la formula e quindi diede un nome collettivo all’opera di artisti come Arman, Niki de Saint Phalle, César, Rotella, Tinguely, Spoerri, Hains, Dufréne, Villeglé, Deschamps, Christo. Il gruppo fu attivissimo e si sciolse con un celebre autofunerale a Milano nel 1970. Ma quel modo di concepire l’evento artistico era troppo fecondo e infatti quasi tutti questi personaggi hanno continuato a operare nei modi del Nouveau Réalisme.

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Ironia, trionfo della merce come trionfo della morte, utilizzo di materiali di ogni genere, compressioni, accumulazioni, décollages, mescolanze tra l’arcaico e il contemporaneo. Si parte dal vecchio Duchamp ma si va oltre, molto oltre. L’arte si è dissolta, è vero -come ritengono tradizionalisti e benpensanti- ma non è morta. È diventata tutto. Basta isolare un frammento dell’essere, basta impacchettarlo o metterlo dentro una cornice e l’evento estetico accade. Ma se questo è possibile, è perché l’intero mondo è tale evento. L’arte è contaminazione, è la totalità espressiva del reale, è l’ibridazione dell’antroposfera con la teriosfera, la tecnosfera, la teosfera. Ques’ultimo elemento emerge assai chiaro nelle più rcenti creazioni di Daniel Spoerri: Gli Idoli di Prillwit sono proprio tali, e cioè forze della materia, enigmi potenti, totem da venerare. Opere quali Capra ermafrodita, Tamburo con macchina da scrivere, Morte falciante, possiedono la magia di antiche terre plasmata nella materia del presente.

Una mostra nella quale si sente battere il cuore dell’arte diventata ciò che è: puro e molteplice significante.

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Palermo Shooting

di Wim Wenders
Con: Campino (Finn), Dennis Hopper (Frank), Giovanna Mezzogiorno (Flavia), Patti Smith (Se stessa) Milla Jovovich (Se stessa)
Germania-Italia 2008

Düsseldorf. Finn è un celebre fotografo che si divide tra gallerie d’arte, foto di moda, ascolto di musica e profonda solitudine. Da quando è morta sua madre, fa sogni nei quali il tempo diventa liquido, gli orologi si piegano, gli spazi si dilatano o contraggono. Abituato a fotografare ovunque -anche mentre guida- evita per poco uno scontro frontale. La foto scattata in quell’istante raffigura una persona che gli sembrerà di incontrare anche a Palermo, dove si reca per un servizio fotografico. Qui conosce Flavia, pittrice che sta restaurando il Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis. Con lei cercherà di capire che cosa davvero gli stia accadendo, chi veramente stia sognando…

Wim Wenders continua il suo personale periplo del mondo. Dopo Tokyo, Lisbona, Berlino, il Texas, immerge questa vicenda tra la sua città natale e Palermo. Senza concedere nulla a promozioni turistiche ma cogliendo l’inquietudine dei luoghi. Palermo Shooting affronta in modo diretto il tema chiave, la morte, e lo fa con espliciti riferimenti a Bergman (Il posto delle fragole, Il settimo sigillo), a Escher e -più nascosti- a David Lynch. L’opera comincia con le mummie della cripta del Cappuccini e ruota intorno al carattere, al corpo, agli incubi del protagonista, presente in ogni scena. Nel ruolo più difficile, un Dennis Hopper misurato ma sempre inquietante. Il film è rischioso perché oscilla di continuo tra il sublime e il ridicolo ma il risultato è di una certa suggestione, soprattutto nell’analisi dell’affresco quattrocentesco e nel modo in cui viene legato all’intera trama

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