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Gli strumenti umani

di Vittorio Sereni
Con un saggio di Pier Vincenzo Mengaldo
Einaudi, 1980 (I ed. 1965)
Pagine 120

Di che cosa parla la poesia se non d’amore? Di questo primo, ultimo, inveterato errore tra gli umani? Del «credere che d’altro non vi fosse d’acquisto che d’amore» (p. 33) in questo mondo spento alla ventura, in questo mare nel quale «presto delusi dalla preda / gli squali che laggiù solcano il golfo / presto tra loro si faranno a brani» (17).
La vita è memoria di ferite che si intrecciano all’oceano di speranze vane eppur indispensabili al respiro che ogni giorno ricomincia, a quell’esistere che si immerge nel con-essere perché è così che la macchina funziona, perché l’essere nel mondo è questo, «i minimi atti, i poveri / strumenti umani avvinti alla catena / della necessità» (15). Nel barbaglìo di incontri, spazi, luoghi, così pronti a diventare il già stato mai stato della morte «…Pensare / cosa può essere –voi che fate / lamenti dal cuore delle città / sulle città senza cuore- / cosa può essere un uomo in un paese, / sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante / e dopo / dentro una polvere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai» (67). E invece gustare e percorrere «i corsi l’uno dopo l’altro desti / di Milano dentro tutto quel vento» (21).
Il nucleo delle poesie di Sereni pulsa tra la dimensione collettiva e lo scavo fondo nell’umana melanconia. Una volontà di dire il dolore che lascia però spesso irrompere la gioia nei suoi versi e li trasfigura. È vero, certo, che «conta più della speranza l’ira / e più dell’ira la chiarezza, / fila per noi proverbi di pazienza / dell’occhiuta pazienza di addentrarsi / a fondo, sempre più a fondo / sin quando il nodo spezzerà di squallore e rigurgito / un grido troppo tempo in noi represso / dal fondo di questi asettici inferni» (28). E tuttavia Gli strumenti umani si chiudono sulla permanenza immortale di ciò che ci fa vivere: il ricordo, l’esser stati, il tempo, l’aver amato. «I morti non è quel che di giorno / in giorno va sprecato, ma quelle / toppe d’inesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce. / Non / dubitare, -m’investe della sua forza il mare- parleranno» (86).

Phronesis

La cosiddetta “vita concreta”, quella vita che la gente ignorante contrappone alla filosofia, si rivela di fatto incapace di affrontare l’esistenza e la sua lotta contro l’assurdo. La vita intruppata, superficiale, annoiata e volgare non può che soccombere al dominio della morte, data la totale assenza di una domanda consapevole sul significato dell’esserci. Per chi si è liberato dall’illusione del vivere “concreto” e rifiuta di darsi alle fedi, alla disperazione, al cinismo, alla banalità, -per chi, insomma, vuole pensare– la vita diventa un mezzo della conoscenza, una perenne curiosità infantile, la costruzione -faticosa ma esaltante- di quel senso che gli “uomini pratici” spesso non possiedono e la cui assenza condanna all’inconsistenza le loro vuote vite.

Morire nella luce

Diagora era stato un grande atleta, più volte premiato a Olimpia. Ebbe un giorno la gioia di assistere anche alla vittoria dei suoi tre ragazzi negli agoni olimpici. Osannato dalla folla e abbracciato dai figli -che gli offrirono in dono le proprie corone-, ricevette da uno spartano questo saluto: «Muori ora, Diagora, perché certo non potrai salire all’Olimpo» (Plutarco, Vita di Pelopida).
Faust muore -secondo il patto che aveva sottoscritto- quando nel colmo della gioia dice all’attimo, al tempo, «Verweile doch, du bist so schön!» (Fermati, dunque, sei così bello!) (Faust, vv. 1700 e 11582). Goethe, autore di questo verso, sembra che sia morto invocando la luce: «Mehr Licht! Mehr Licht!» (Più luce, più luce!). Così muoiono i pagani. Uno dei loro poeti scrisse che morire in Sicilia, isola di tripudi e di sfacelo, «è acquietarsi nella luce».

Zhang Huan. Ashman

Milano – Padiglione d’Arte Contemporanea
Sino al 12 settembre 2010

Ashman è il nome col quale Zhang Huan sintetizza la propria visione eroica dell’esistere.
Dei video mostrano il silenzio del protagonista mentre compie i suoi pellegrinaggi dentro le città, tra la cenere, il ghiaccio, offrendo il proprio corpo agli elementi. Alcune fotografie lo ritraggono mentre gioca con la propria pelle o coi monumenti romani. Quadri di grandi dimensioni compongono una celebrazione gloriosa e funerea della Cina comunista, della Cina contemporanea. Altri dipinti rappresentano insetti, operai, soldati. Imponenti Buddha fatti di materiali diversi segnano l’immobilità della storia, del dolore, del niente. Uno di essi è composto di cenere che a poco a poco si disfa trasformando in vuoto lo spazio prima occupato dal Buddha.
Dominano dunque in questa mostra il grigio, la cenere, i teschi, la disgregazione. Su tutto una silenziosa ed elegante disperazione, insieme materica e interiore.

Jankélévitch

La morte
di Vladimir Jankélévitch
(La Mort, Flammarion, Paris 1977 [1966] )
Trad. di Valeria Zini
A cura di Enrica Lisciani Petrini
Einaudi, Torino 2009
Pagine XXXVI-474

Tra le tante sciagure dell’esistenza, almeno una ci è stata risparmiata: nessuno conosce con certezza la data del proprio morire. I Greci attribuiscono a Prometeo questo dono. Lo attribuiscono non a caso al titano che regalò agli umani la tecnica. Due modi questi -tecnica e ignoranza del morire- che consentono alla specie di affrontare ogni giorno l’esserci. Di questo mito Jankélévitch afferma che esso «ci concede (…) una modalità del futuro illusoria» (pag. 142).
È un particolare, un veloce passaggio all’interno del fiume di parole che è il libro. Ma è un particolare significativo. L’Autore rifiuta le tante forme di consolazione che cultura, filosofia, scienze hanno inventato per rendere sensata l’insensatezza del non essere più dopo essere stati. Obiettivo polemico continuamente tornante è il Fedone, la tesi che il morire sia un passaggio, tesi che poi diventa -in altre culture- transito verso una pienezza ontologica assai più densa dell’ombra del presente.

No, la morte non è in alcun modo una trasformazione; né una trasformazione minuscola, né una trasformazione più grande, né una trasformazione minore, né una trasformazione maggiore e nemmeno, propriamente parlando, una trasformazione suprema! La morte non è l’abbandono di queste o quelle determinazioni, ma l’abbandono di ogni forma; e non solo è l’abbandono totale della forma, ma anche l’abbandono della sostanza stessa che supporta questa forma e del rapporto stesso di questo supporto, e così via all’infinito. (241)

Per Jankélévitch nel fatto del morire ontologia ed epistemologia convergono sino al punto da costituire, semplicemente, l’impensabile, il nulla, ciò di cui non c’è né esperienza, né parola. «Evento unico e incomprensibile, l’istante mortale elude ogni concettualizzazione» (229), tanto che «la scienza della morte è morta a sua volta nell’istante della sua nascita. Mai ci sarà stato possibile pensare la morte simultaneamente a essa» (371). Perché e come, allora, scrivere quasi cinquecento pagine sulla morte?

Partendo da tali presupposti, esse non possono che oscillare tra la ripetizione prolissa delle stesse tesi; riferimenti all’intuizione letteraria e musicale più che alla teoresi (citato e amato più di ogni altro è Tolstoj, «il più grande genio dell’oggettività» [462], e in particolare il denso e struggente racconto sulla Morte di Ivan Il’ič); antropocentrismi sentimentali che vedono nella nostra specie una sorta di entità privilegiata che dovrebbe essere salvaguardata dalla propria fine; invenzioni lessicali a volte di dubbia utilità; descrizioni banali anche se espresse in modo lirico; svelamenti conclusivi che attribuiscono alla tragedia del morire uno statuto di “semplicità” che tutto il resto del libro sembra negare: «semplice come bere un bicchier d’acqua, così semplice che ci domanderemo, il giorno in cui sapremo, come mai non ci abbiamo pensato prima» (463). Un oscillare tra la morte come necessario attrito della vita e la morte come disperazione, «nero assoluto» (81). E tutto in un tono che vorrebbe essere lucido ma che appare più spesso lugubre.

Non mancano, certo e per fortuna, elementi più interessanti e più spendibili in sede teoretica e quindi esistenziale. Tra questi una efficace sintesi concettuale secondo cui

avendo trattato, a proposito della vita, del mortalis che esprime una proprietà astratta, e del moriturus che designa un futuro e una vocazione, poi, a proposito dell’istante, del moribundus «sul punto di» morire e del moriens «che sta per morire», dovremmo trattare adesso del mortuus, che designa uno «stato» (372-373);

una esatta riflessione sul legame che unisce il morire alle concezioni dualistiche dell’umano, poiché è vero che «se noi vedessimo solo l’uomo vivo in stato di veglia, senza dubbio non avremmo alcuna ragione per distinguere in lui due sostanze da pensare separatamente, o per considerarlo come un composto psicosomatico: infatti, immediatamente noi vediamo un corpo significante, un senso incorporato, un volto espressivo, ma non vediamo mai né un’anima, né una dualità di anima e corpo» (395).

Fecondi sono alcuni passaggi dedicati alla temporalità, argomento evidentemente inseparabile da quello del morire. Jankélévitch individua uno degli elementi peculiari del tempo -rispetto anche allo spazio- nella sua irreversibilità, nel non offrirsi per intero allo sguardo ma nel dover essere percorso in una successione vissuta. E soprattutto Jankélévitch conosce la pervasività del tempo, simile a quella della luce su ogni ente che l’occhio possa percepire:

Ma il tempo non si trascura impunemente: il tempo è quel non-so-che che nessuno vede con gli occhi o tocca con le mani, di cui lo stesso orecchio non percepisce direttamente il fluire, che non ha né forma, né colore, né odore, che nessun pensiero concepisce, che non è né una dimensione, né una forma, né una categoria, che è dunque quasi-inesistente e che è, nonostante questo, la cosa più essenziale di tutte. Se non si prende in considerazione questo fattore invisibile e impalpabile oltre che ineffabile, ci si espone ai più gravi disinganni. (293)

E tuttavia per Jankélévitch -come per numerosi altri filosofi- il tempo rimane un nemico dell’umano, invece che esserne -come è- la sostanza stessa. La conseguenza è che anche Jankélévitch cerca e trova una qualche consolazione al morire. E la individua in una peculiare forma di opposizione alla temporalità: l’eternità dell’essere stati.

In ogni caso, questa è la rivincita, la consolazione e la speranza dei mortali: la morte distrugge il tutto dell’essere vivente, ma non può nichilizzare il fatto di aver vissuto; la morte riduce in polvere l’architettura psicosomatica dell’individuo, ma la quoddità della vita vissuta sopravvive a queste rovine. (…) Si potrebbe dunque dire che la vita eterna, vale a dire il fatto indelebile di essere stato, è un regalo che la morte fa alla persona vivente. (…) Il baleno più fragile, fragile come un fuoco fatuo nella notte, fonda la più incancellabile quoddità: se infatti la vita è effimera, il fatto di aver vissuto una vita effimera è un fatto eterno. (454-456)

Quale sia la differenza tra questa consolazione e quelle che Jankélévitch aspramente condanna non è dato sapere. Da questo libro si esce avendo meglio compreso il senso dell’invito spinoziano: «Homo liber de nulla re minus quam de morte cogitat et ejus sapientia non mortis sed vitæ meditatio est» (Ethica, parte IV, prop. LXVII), che non è un invito a nascondere ma a comprendere il senso del morire nel tessuto inarrestabile e potente della materia/mondo.

A Single Man

di Tom Ford
USA, 2009
Con: Colin Firth (George), Julianne Moore (Charlotte), Nicholas Hoult (Kenny), Matthew Goode (Jim), Jon Kortajarena (Carlos)
Trailer del film

Los Angeles, 1962. George Falconer, professore di letteratura, si schianta contro il dolore alla notizia che il compagno col quale vive da sedici anni è morto in un incidente stradale. Dopo alcuni mesi e un sogno nel quale, vestito impeccabilmente, bacia ancora una volta Jim appena morto, decide che quello sarà il suo ultimo giorno. Va a lezione, passa da un negozio, prepara tutto per il dopo -comprese delle indicazioni su come dovrà essere annodata la cravatta del proprio abito funebre-, cena con una sua antica amica e amante, va al bar per le sigarette. E lì incontra un suo allievo che lo riporta alla vita. Ma la vita è implacabile.

Il film è tratto dal romanzo di Christopher Isherwood. Tom Ford è uno stilista alla sua prima opera. Opera elegantissima e raffinata, nella quale i temi di fondo della nostra esistenza -passioni, morte, solitudine- vibrano con singolare verità d’accenti e senza mai scadere nel banale o nel sentimentalismo. Piuttosto, è il contrasto tra la bellezza della forma e la tragedia del tessuto a lasciare un’eco profonda, come di una inesorabile e insensata casualità, che è lo stesso nome del Fato.

Hopper, l’attesa

Edward Hopper
Milano – Palazzo Reale
Sino al 31 gennaio 2010

James Hillman ha scritto che le finestre di Hopper sono come quelle di Rembrandt e di Vermeer. Forse ha inteso dire che esse aprono frammenti di speranza ma in realtà chiudono gli umani in un’angoscia che sembra inoltrepassabile.
Dagli inizi francesi, in particolare l’assai amato Degas, Edward Hopper ha costruito quadro dopo quadro la metafisica degli Stati Uniti d’America in ciò che essa ha di migliore e quindi di più straziante. L’architettura vi diventa tutto lo spazio e la natura mostra il segreto del proprio dolore: la luce. Perché questa luce di Hopper illumina il nodo che stringe solitudine e individualismo in un legame che non si può sciogliere. Gli umani, quasi sempre soli appunto, diventano colore e forma di una struttura unitaria, fatta di cielo e di pali del telefono, di letti in stanze vuote e di mare. Come un Beckett figurativo, Hopper dà sostanza all’attesa, perenne sconfinata e tragica, di qualcosa che dovrà pur arrivare e il cui più probabile nome è la morte. La prova che il mondo è privo di senso è del tutto formale, sta nella prospettiva apparentemente realistica ma intimamente distorta delle scene con le quali questo Maestro ha dipinto un nulla fatto di luce.

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