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Morire nella felicità

«Non si trattava di trovare un filtro magico che m’impedisse di morire bensì, soprattutto, di imparare a morire nella felicità» (Alejandro Jodorowsky, La danza della realtà, Feltrinelli 2009, p. 149).
Quel momento verrà e sarà la pace. Verrà quell’impercettibile ma definitivo fermarsi del respiro umano sul mondo nel quale il mondo termina. L’importante è che ci trovi vivi, nella pienezza dei nostri desideri e nella saggezza delle rinunce che l’esistere ci ha insegnato. Nel disincanto su ogni cosa e nella curiosità verso l’istante che si apre, fosse anche l’ultimo. Nella benedizione delle lacrime versate per amore e nella freddezza che ha temprato il cuore. Accogliere il morire con un sorriso di vittoria, se siamo stati capaci di trasformare il labirinto che è la vita nella ragnatela del senso con il quale abbiamo catturato, infine, la gioia.

Bach – Barry Lindon

Concerto in Do minore per 2 clavicembali –  BWV 1060: II. Adagio
di Johann Sebastian Bach
(eseguito dalla Wurttemberg Chamber Orchestra)
Dalla colonna sonora di Barry Lindon (Stanley Kubrick, 1975)


Barry Lindon è un’opera di stupefacente bellezza e di profonda crudeltà. Rivedendola appare sempre diversa. È un trattato sulla pittura del Settecento -ogni inquadratura è una citazione- ma la sua luce è funebre. L’ossessione e la morte, di cui il cinema di Kubrick è fatto, l’attraversano dal primo all’ultimo fotogramma. Lo scavo nell’umano si fa appassionante e gelido. È l’opera formalmente più splendida del regista e insieme la più feroce.
Come sempre in Kubrick, la musica diventa la sostanza stessa dell’immagine. L’Adagio dal Concerto BWV 1060 scandisce la calma discesa nel dolore, la fredda gloria di un enigma disvelato.


[audio:Bach_BWV 1060_ Adagio.mp3]

 

Ipnosi

«Là dove il mondo reale si cambia in semplici immagini, le semplici immagini divengono degli esseri reali, e le motivazioni efficienti di un comportamento ipnotico» (Guy Debord, La società dello spettacolo, § 18). Una droga infinita sparge ormai la propria potenza tra le menti, dentro gli occhi. Diventa gridolino estasiato da parte di miserabili giornalisti gossippari che per ore -seguiti da miliardi di telespettatori- commentano il matrimonio di due ragazzotti inglesi. Diventa acritica e rivoltante adorazione verso il papa più televisivo della storia, distruttore della libertà teologica, protettore di sacerdoti pedofili, accanito sostenitore della morale sessuale repressiva, amico di dittatori di ogni risma. Diventa suprema propaganda dell’Impero, sventolio di bandiere a stelle e strisce che esultano per una vendetta da stadio, una vera e propria esecuzione. L’ipnosi televisiva è diventata in questi giorni un planetario trionfo della morte. Nella dolciastra favoletta degli eredi di una delle monarchie più ingessate del mondo, nella macabra festa del cadavere romano, nella scenografica finzione dell’assassinio di un antico amico della CIA, è l’intelligenza che muore.

Un sogno d'amore, un sogno di morte

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Rêve d’automne
(Sogno d’autunno)
di John Fosse
regia Patrice Chéreau
con Pascal Greggory, Valeria Bruni-Tedeschi, Bulle Ogier, Bernard Verley, Marie Bunel
scene Richard Peduzzi
traduzione dal norvegese in francese di Terje Sinding
dal 1 al 10 aprile 2011

Nel silenzio delle sale si aggirano leggendo i nomi sulle superfici. Superfici di che cosa? Sembra un museo questo luogo. Con muri alti color vermiglio, con dei dipinti di grandi proporzioni. Ma alle targhe e ai nomi corrisponde sulle pareti soltanto il vuoto. Siamo, infatti, in un cimitero. Arriva un uomo che si stende a terra, dorme. Una donna lo vede e sobbalza. Quell’uomo è stato il suo amante, da tanto si sono perduti. Lei lo sveglia, cominciano a parlare con la semplice banalità dei convenevoli, che a poco a poco si trasformano nel linguaggio più vero e più fremente: quello del desiderio.
Amore e morte, una delle più antiche e radicali endiadi della vita, della scrittura e del teatro, ridiventano ciò che sono, l’esistenza stessa delle entità desideranti e temporali che siamo. Lo ridiventano nella scrittura asciutta e silenziosa di John Fosse, nella regia spaziale, geometrica e disperata di Patrice Chéreau, nei corpi coperti e disvestiti dei due protagonisti, un isterico e femminile Pascal Greggory, una lussuriosa e maschile Valeria Bruni Tedeschi. La crudeltà oggettiva della scrittura diventa così una lama. Lama di luce ma lama che taglia.

[Una versione più ampia di questa recensione è apparsa sul numero 11 (maggio 2011) di Vita pensata]

Un lindo terrore

Non lasciarmi
(Never Let Me Go)
di Mark Romanek
Con: Carey Mulligan (Katy), Keira Knightley (Ruth), Andrew Garfield (Tommy),  Isobel Meikle-Small (Kathy da bambina), Ella Purnell (Ruth da bambina), Charlie Rowe (Tommy da bambino), Charlotte Rampling (Miss Emily).
Usa – Gran Bretagna, 2010
Trailer del film

Hailsham appare come un tipico college britannico degli anni Settanta. Disciplina, amicizie, dispetti, attività sportive si intrecciano. Ma dietro questa apparenza sta una realtà atroce. Le vite dei ragazzi e delle ragazze che abitano questo luogo sono a termine, per una ragione che con gelida naturalezza si scoprirà a poco a poco. Nonostante tutto, l’amore sorge nelle esistenze di Katy, Tommy e Ruth. Ma è come se una biologica rassegnazione invadesse ogni istante. In nome del progresso terapeutico il piano inclinato della morte non può essere fermato.

Tratto dal romanzo di Kazuo Ishiguro, Never Let Me Go coniuga un distacco quasi entomologico e una struggente e coinvolta tristezza. Le immagini si soffermano molto spesso sui particolari che costituiscono il mondo -fili d’erba, pezzi sparsi di giocattoli, fogli di carta- in una nostalgia di normalità e nella metafora della frammentazione. Il lindo terrore che romanzo e film raccontano è più vicino di quanto lo spettatore possa immaginare. Si visiti questo sito e si legga una storia accaduta, fra le tante. Per sapere, per decidere, per non farsi macellare.

Una saggezza antica e profonda

Erodoto, Storie, 5,4 – Sui Trausoi

Τραυσοὶ δὲ τὰμὲν ἄλλα πάντα κατὰ ταὐτὰ τοῖσι ἄλλοισι Θρήιξι ἐπιτελέουσι, κατὰ δὲ τὸνγινόμενόν σφι καὶ ἀπογινόμενον ποιεῦσι τοιάδε: τὸν μὲν γενόμενον περιιζόμενοι οἱ προσήκοντες ὀλοφύρονται, ὅσα μιν δεῖἐπείτε ἐγένετο ἀναπλῆσαι κακά, ἀνηγεόμενοι τὰ ἀνθρωπήια πάντα πάθεα: τὸν δ᾽ἀπογενόμενον παίζοντές τε καὶ ἡδόμενοι γῇ κρύπτουσι, ἐπιλέγοντεςὅσων κακῶν ἐξαπαλλαχθεὶς ἐστὶ ἐν πάσῃ εὐδαιμονίῃ.

I Trausi dal canto loro, mentre per tutto il resto seguono i costumi degli altri Traci, riguardo a chi nasce e a chi muore si comportano così: seduti intorno al neonato i parenti piangono, deplorando tutti i mali che egli, essendo nato, dovrà sopportare ed enumerando tutte le sofferenze umane; invece il morto lo seppelliscono scherzando e in piena allegria, aggiungendo come spiegazione che, liberato da tanti mali, egli è ormai in una condizione di piena felicità.

Biutiful

di Alejandro Gonzalez Iñárritu
USA 2010
Con: Javier Bardem (Uxbal), Maricel Álvarez (Marambra), Hanaa Bouchaib (Ana), Guillermo Estrella (Mateo), Diaryatou Daff (Igé), Cheng Tai Shen (Hai), Luo Jin (Liwei) Eduard Fernández (Tito), Rubén Ochandiano (Zanc)
Trailer del film

Uxbal fa da mediatore fra gli immigrati clandestini che vendono merce contraffatta e la polizia corrotta, tra gruppi di cinesi e imprenditori locali. Un po’ li sfrutta, un po’ viene sfruttato, un po’ aiuta davvero chi ha bisogno. Un personaggio fuori dagli schemi, con due bambini -Ana e Mateo- da accudire dopo la separazione dalla madre, bipolare e alcolizzata anche se ancora innamorata di lui. Uxbal vorrebbe portare un po’ di luce a se stesso e agli altri ma ciò che intraprende si risolve in fallimento o in tragedia. La morte gli sta dentro, alla lettera. E coi morti riesce  a parlare, accompagnando verso la pace chi fra di loro ancora non sembra pronto ad andarsene davvero.

Una Barcellona livida è il tessuto dentro il quale si sgretola la trama di questa vita. Uno squallore profondo innerva luoghi, volti, situazioni, persone. E arriva al culmine non nelle case fatiscenti o nelle strade abbandonate ma in un night scintillante nel quale la disperazione dei corpi diventa più che malattia, si fa puro stordimento del non senso. Iñárritu rinuncia qui agli scarti temporali e spaziali del montaggio che caratterizzavano 21 grammi e Babel, a favore invece di una narrazione più tradizionale, lineare. Il risultato è in ogni caso un film di grande impatto iconico -il genio abita nei particolari e in scene quasi accennate come quella dei corpi sulla spiaggia- ed emotivo, come se vedessimo la disperazione fatta carne e sguardo in un Javier Bardem veramente straordinario. L’opera inizia e si chiude su un anello e nel candore di un bosco innevato dentro il quale il tempo è ormai dissolto: «Che cosa c’è lì?»

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